ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 15 settembre 2015

Pesci fuor d’acqua

TEOLOGI E DIVINO

    I teologi cercano parole nuove per dire il Divino: ma è davvero questo il problema? Nella società laicista e areligiosa in cui viviamo i teologi sono come pesci fuor d’acqua: sempre alla ricerca di una maniera nuova di accreditarsi di F.Lamendola  


 I teologi cercano parole nuove per dire il Divino: ma è davvero questo il problema?

di

Francesco Lamendola



Nella società laicista e areligiosa in cui attualmente viviamo, i teologi sono come pesci fuor d’acqua; sono sempre più affannosamente alla ricerca di una maniera nuova di accreditarsi e di proporsi, di legittimarsi e di auto-affermarsi, beninteso in sintonia con le mode e le tendenze della modernità, e dunque rincorrendo proprio quella cultura ateistica e irreligiosa che, di fatto, li ha emarginati, estromessi, ghettizzati.

Patetico tentativo. Invece di tornare ai concetti della Tradizione, che non invecchiano, perché non sono di origine umana, essi si sforzano di trovare parole nuove per dire cose che vorrebbero essere nuove; tuttavia, coscienti essi stessi della enormità della contraddizione in cui si stanno cacciando – perché cose nuove, in teologia, non ve ne sono, né possono esservene – si lambiccano il cervello per trovare la quadratura del cerchio: far passare per delle nuove forme teologiche quelle che sono semplicemente le idee della cultura moderna, laicista e areligiosa, trasferendole, mutatis mutandis, in un conteso apparentemente teologico. Diciamo apparentemente, perché non basta dirsi teologi, né scrivere libri di teologia, per essere davvero tali: infatti, un teologo che presenta in forma dubitativa le massime verità del cristianesimo, semplicemente non è un teologo; e, dal momento che la teologia “al neutrale” non esiste, ma i teologi, da che mondo è mondo, sono sempre stati dei credenti e dei cristiani (almeno quelli europei), ne consegue che siffatti pretesi teologi, si chiamino essi Hans Küng o Vito Mancuso, semplicemente non sono né cristiani, né teologi. Lasciamo pur loro la soddisfazione di sentirsi, e di proclamarsi, come i “veri” teologi ed i “veri cristiani”, ossia i rappresentanti di un pensiero teologico “adulto” e non più “mitologico” (come voleva Bultmann); contenti loro, contenti tutti.
Quel che fa specie è che anche molti scrittori cristiani, e perfino un certo numero di sacerdoti e di vescovi, a partire dal Concilio Vaticano II, si siano posti su quella linea: la linea di un “rinnovamento” cristiano e cattolico che altro non era se non l’anticamera del suicidio volontario, e del cristianesimo, e del cattolicesimo. Hanno parlato e straparlato di “svolta antropologica”: hanno scoperto, Dio sa come, che, per duemila anni, o giù di lì, la Chiesa aveva sbagliato, perché aveva predicato un Dio maschilista, misogino, autoritario (addirittura monarchico!), e, soprattutto, perché aveva posto Dio al centro di ogni cosa, recando grave offesa all’uomo, il quale – chi non lo sa, dal Rinascimento in poi? – deve esser lui al centro di tutto, compreso il discorso su Dio. A partire da quel momento e da quella sedicente “svolta”, la stessa liturgia è stata stravolta: la Messa non si è più organizzata intorno alla celebrazione del mistero di Dio ed al Suo sacrificio, che si rinnova nell’Eucaristia, ma intorno all’assemblea dei fedeli, assurta al ruolo di protagonista assoluta: non più gli sguardi e le parole rivolti verso il Cielo, ma ogni attenzione indirizzata all’assemblea stessa, con tanto di strette di mano tra i fedeli, come si farebbe in piazza – più o meno sincere, questo poco importa, evviva la santa ipocrisia - e di Particole prese disinvoltamente in mano dai fedeli, come fossero caramelle o cioccolatini (con gran gioia dei satanisti, che ne fanno incetta per i loro riti).
E non solo la liturgia, ma anche i contenuti teologici, dogmatici, pastorali, sono stati lentamente erosi, travisati, ribaltati. Per fare solo un esempio: il peccato contro natura, che era definito dalla teologia pre-conciliare come uno dei quattro peccati capitali che gridano vendetta davanti a Dio, è stato “sdoganato” con la massima tranquillità; anzi, se si vuol dirla tutta, lo stesso concetto di peccato è stato, poco alla volta, messo fra parentesi, come se gli fosse stata applicata la sordina. Perché insistere a parlare di peccato e di uomini e donne peccatori, come si faceva nel tetro e pessimista Medioevo, quando lo scopo della religione è glorificare l’uomo che incontra Dio, mettendo però l’accento sull’uomo e non su Dio?
Dispiace che a porsi in una simile deriva siano state anche persone di valore, dal punto di vista intellettuale e culturale, nonché, probabilmente, in buona fede; persone che si sono affaticate a pensare e inventare parole nuove perché convinte che, in un mondo nuovo (ma è proprio vero che il mondo moderno, nonostante Auschwitz e nonostante Hiroshima, sia un mondo nuovo, e non terribilmente vecchio, anzi decrepito?), non si potesse più parlare di Dio alla maniera “vecchia”: insomma, che bisognasse inseguire la corsa dissennata del progresso, che tutto consuma ed usura in pochi anni e in pochi mesi; e che il vero problema fosse quello delle parole, e non già dei contenuti. Così, in omaggio alla cultura femminista, è venuta fuori la faccenda della maternità di Dio: anche se l’aspetto materno e femminile, nella Tradizione cattolica, è già presente da quasi due millenni, splendidamente, nel culto mariano. Il quale, però, non piace troppo ai modernisti, ai cattolici emancipati, razionalisti e cripto-protestanti, ai quali sa tanto di superstizione; senza contare che essi non si accontentano di una Madonna che mostri loro il volto di Dio: vogliono proprio un Dio che sia donna, o, quanto meno, che sia anche un Dio femminile.
In questa deriva semiseria, e talvolta, francamente, un poco surreale della teologia post-conciliare, si era messo, purtroppo, anche l’ottimo Gianni Baget Bozzo, come testimoniano queste osservazioni, che togliamo dal suo saggio «Il bisogno di religione» (in: Franco Ferrarotti e altri, «In nome del padre», Bari, Laterza, 1983, pp. 241-3):

«La crisi del nostro tempo investe il simbolo della paternità divina nella figura della potenza. Ma il simbolo paterno non è mai stato l’unico simbolo del divino. Vi è anche quello della maternità, che vuol dire infinita compassione. Questo elemento è caratteristico di tutte le forme della religione biblica, nella tradizione coranica, nel pantheon induista, in ogni forma di politeismo.
Nel cristianesimo, il tema della compassione è stato espresso principalmente nel tema del Dio crocifisso, cioè nella figura maschile di Gesù. Ma di essa viene espressa come elemento essenziale la “passio”. L’atto fondamentale di Cristo non è la predicazione né la lotta ai farisei, ma un atto di sofferenza, un atto in cui l’azione consiste nel fortemente patire. E a esprimere il valore esemplare della “passio Christi” il modello emerso è quello della “compassio”, cioè della Vergine Maria. La Madonna è divenuta il modello della compassione cristiana e quindi, di fatto, il simbolo della compassione divina. In altri termini, vi è una dimensione trascendente del divino e una dimensione immanente, una dimensione di cui l’uomo stesso è espressione. Ed è per questo che è la compassione divina che l’uomo è chiamato principalmente a imitare. Ciò avviene nelle forme più diverse; dal monachesimo all’azione secolare più impegnata, il motivo dato al credente è la compassione. E ciò non solo nel cristianesimo. Lo scoppio politico della Shoa è stata resa possibile dal culto del martirio di Husayn e ha avuto il martirio combattente e sofferente a modello. E tuttavia, in ogni religione vi è un momento di partecipazione alla pienezza divina, un’identificazione con Dio di là dell’angoscia, della sofferenza, al vertice della coscienza o oltre essa. Non è solo il momento dell’immanenza, che è imitabile mediante la “compassio”, ma anche il momento della trascendenza. L’identificazione avviene nei simboli religiosi con il Padre nella pienezza della Divinità. Il più alto linguaggio della mistica medievale, quello di Eckhart, ha espresso in modo insuperabile questa dialettica. Questo è un tempo di crisi nel senso che i problemi del linguaggio su Dio, che per la loro complessità erano prima affrontabili solo da minoranze, ora giungono alla coscienza di tutti. In altri termini, e per rimanere più nettamente in zona cristiana e occidentale, il nesso fra trascendenza e immanenza – come espressa nella figura del Padre giudice e del Figlio salvatore più la Madre della “compassio” – è ora insufficiente. Occorre riformularlo. Occorre, cioè, esprimere come la passione e la compassione siano di tutto il divino, e quindi come tutto l’umano partecipi della pienezza divina. È una crisi non distruttiva, ma ricreativa, della simbologia religiosa. Papa Luciani divenne celebre per la sua frase sulla maternità divina, attribuita a Dio come tale. Era l’inizio della ricerca di una nuova simbologia religiosa, di un mutamento dei simboli: il divino andava ripensato e l’umano ridefinito in funzione di tale ripensamento. Occorre rimescolare la trascendenza e l’immanenza, la potenza e la compassione, la giustizia e la carità, il perdono e l’imparzialità. Il linguaggio che dice il divino ridefinisce l’umano. Per questo la crisi del padre è la crisi di una certa combinazione in Dio di compassione e di giustizia, la distribuzione di essa sui due diversi registri, nel cristianesimo, tra Padre-giudice, Figlio-passione, Madre-compassione. Si può aggiungere Spirito Santo-glorificazione. I registri vanno mescolati nel divino e nell’umano. Occorre, in altri termini, mostrare la potenza della passione e la passione della trascendenza. In questa transizione sta la crisi religiosa del nostro tempo. La crisi del linguaggio sul divino esprime l’incertezza dell’uomo sul suo stesso essere. Per esprimerla nei termini originari da cui siamo mossi, occorre dire parole che coinvolgano nella passione dell’uomo tutta la potenza del divino. In questo modo si consuma obiettivamente la figura del sacro. Ciò significa che l’uomo è chiamato a vivere in pienezza la sua dimensione divina nella sua storia di passione umana. In termini cristiani, vanno rilette in modo nuovo parole del Vangelo giovanneo secondo cui il Figlio e il Padre sono una cosa sola. Questa ci sembra la rinascita possibile del simbolo religioso oltre l’esperienza storica dell’agnosticismo e dell’ateismo di massa; il modo in cui la religione può accogliere e fare propria la sfida dei linguaggi della psicanalisi senza subordinarsi ad essi. La religione può rispondere alla sua crisi solo nel suo terreno. Con le sue parole. La fenomenologia religiosa testimonia il morire della sacralità nei suoi riti e nelle sue figure, ma anche il sorgere di una nuova domanda che contiene in sé una nuova proposta religiosa.
Per questo motivo il tentativo di usare la figura papale come figura paterna, compiuto da papa Wojtyla, appare così povero sul piano religioso quanto la rapida frase di papa Luciani sulla maternità divina era apparsa significativa. Di questa nuova figura del religioso, che tanti segni indicano ma che nessun linguaggio definito e comune, se pur vi sarà, ancora contiene, nulla è possibile dire che non sia la semplice indicazione di quello che, nonostante tutte le resistenze e le rimozioni, “eppur si muove”.»

Insomma: evviva la modernità di papa Luciani, che ha parlato della maternità divina; e abbasso l’arretratezza e il conservatorismo di papa Wojtyla, che ha parlato del pontefice come di una figura paterna. Infatti, per “rispondere” alla cultura psicanalitica (come lo stesso Baget Bozzo afferma), bisogna accogliere la sfida che essa pone al cristiano d’oggi: che sarebbe, nel caso specifico, quella di partire dall’assunto che la figura del Padre è ambigua in se stessa, se  non proprio da rifiutare in toto. Il Padre – figuriamoci - è quella figura odiosa che genera nel figlio il complesso di castrazione e che gli suscita, per reazione, il complesso di Edipo; vale a dire, l’istinto di suo figlio ad ucciderlo, per potersi portare a letto la donna di lui, cioè la propria madre.
Che tristezza. Con queste idee, con queste prospettive, con questo bagaglio intellettuale, è chiaro che non si poteva andar lontano: e infatti non si è andati lontano. Anzi, si è andati fuori strada. A forza di inventarsi parole nuove e nuove formule, si è preteso di fare piazza pulita della Tradizione: dimenticandosi che la Tradizione non è cosa creata dall’uomo, ma proveniente da Dio, tanto quanto la Scrittura (di cui è più antica: perché quando già esisteva una Tradizione cristiana, non esisteva ancora il Nuovo Testamento). E dimenticando, soprattutto, che il discorso su Dio ha poca importanza, rispetto al discorso con Dio: perché una sana teologia non pretende certo di sapere tutti i segreti che Lo riguardano e tutti i nomi che Lo qualificano, consapevole, com’è, che quel che l’uomo ha da dire su Dio sarebbe solamente un penoso e stentato balbettio, se non esistesse un discorso che Dio rivolge all’uomo. Perciò, torniamo a domandarci: è davvero questo il problema? Se l’uomo contemporaneo si è allontanato da Dio, saranno delle parole di nuovo conio a farlo ritornare? Basteranno i nuovi nomi che egli saprà escogitare, per essere più al passo con i tempi, più in linea con la cosiddetta “svolta antropologica” della teologia post-conciliare?
Codesta maniera d’intendere i problemi ci sembra alquanto puerile. E a coloro che protestassero non essere questione di parole nuove, ma di concetti nuovi, che le parole nuove suggeriscono, sommessamente domanderemmo: era dunque tutto un errore, quel che la teologia ha creduto e insegnato per duemila anni? Ben strano modo di guidare l’uomo verso Dio: umano, troppo umano...

Francesco Lamendola

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