ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 15 settembre 2015

..e sussurra il Nome dei nomi: quello di Dio fatto uomo…

QUANDO SI ENTRA NELLA FORESTA

    



Entrare nella foresta è come entrare in una cattedrale: tutto inneggia alla vita, tutto parla di sofferenza, morte, rinascita, comprensione, amore; ogni pianta, ogni animale, ogni suono e ogni profumo rimandano al mistero dell’Essere di F. Lamendola  



Quando si entra nella foresta…



Entrare nella foresta è come entrare in una cattedrale: tutto inneggia alla vita, tutto parla di sofferenza, morte, rinascita, comprensione, amore; ogni pianta, ogni animale, ogni suono e ogni profumo rimandano al mistero dell’Essere, davanti al quale bisognerebbe togliersi le scarpe e procedere a piedi scalzi, trattenendo il respiro, facendosi piccoli e umili; ogni cosa è preghiera, meditazione, salmo, inno, silenzio che parla più di mille parole umane.

Non si dovrebbe entrare nella foresta se prima non ci si è lasciati alle spalle i pensieri futili, le preoccupazioni superflue, la febbre compulsiva dell’ego, dell’autoaffermazione, del riconoscimento altrui e della gratificazione ad ogni costo; della superficialità, della vanità, del narcisismo, della presunzione e della inconsapevolezza; non ci si dovrebbe accostare ad essa se, prima, non ci è snebbiati la vista, l’udito, il cuore e la mente da tutto ciò che è banale, inautentico, artificiale, forzato, fasullo. Per essere degni di accostarla, di esserne ricevuti ed accolti, bisogna purificarsi ed entrarvi con animo puro.
L’esempio del raccoglimento ce lo dà proprio lei: la foresta. Gli alberi pregano: le loro cime svettano verso l’alto, le loro fronde stormiscono al vento; persino le foglie che cadono, danzano lentamente per ringraziare Iddio. I faggi e gli abeti, i castagni e le querce, sono le colonne della verde cattedrale, che scandiscono solenni lo spazio delle navate; i ritagli di cielo che si formano nell’incrocio dei loro rami, sono i finestroni che lasciano filtrare la luce del sole; le felci ed i muschi, le bardane e gli equiseti che formano il sottobosco, sono i mosaici pavimentali, con i loro disegni eleganti, le loro curve slanciate; il soffice, accogliente tappeto di aghi di pino caduti al suolo, è il tappeto sul quale camminano e s’inginocchiano i fedeli; le piante epifite che si arrampicano lungo i tronchi, sono gli stucchi e le decorazioni degli archi; il sussurro del vento fra le piante è la musica d’organo che scende dalle canne metalliche e che si spande attraverso il tempio grandioso a cielo aperto.
La foresta è piena di vita, perché in essa le piante nascono, crescono, s’intrecciano, gareggiano a crescere in altezza, invecchiano, soccombono e cadono a terra, tornando a fecondare quell’humus dal quale ebbero inizio. Ogni cosa parla di un ciclo fecondo, glorioso, inarrestabile: ogni generazione di piante, riconoscibile dalle dimensioni dei tronchi e dalla struttura della corteccia, prepara il posto e la vita alle generazioni successive; la foresta non muore mai, nemmeno quando viene devastata da un grande incendio, perché, nell’arco di alcuni anni, dal terreno sgombrato torna a pullulare la vita, inesausta, generosa, infaticabile, inestinguibile. Solo l’uomo, con il cemento e con i veleni chimici, può uccidere la foresta; ma la foresta, lasciata a se stessa, non muore mai, perché sempre muore e sempre rinasce, come l’araba Fenice.
Anche gli uccelli che fanno il nido sui rami, anche gli scoiattoli che fanno la tana nei tronchi, anche i funghi che erompono dalle radici, anche il muschio che avvolge come un tenerissimo, umido broccato e che si stende lungo il lato dei fusti rivolto al freddo Settentrione, desideroso di ombra: anche tutti costoro celebrano la vita e il mistero della morte e della rinascita. Non c’è corpo, non c’è molecola, non c’è atomo che vadano perduti: tutto ritorna alla terra, tutto viene restituito alla terra per produrre nuova vita, ancora e sempre, senza fine. E non c’è usignolo, ghiandaia, picchio, gufo, allocco, colombaccio, crociere, frosone, che non levino al cielo la loro preghiera; non c’è fiore che dalla terra – primula, narciso, papavero, colchico, genziana, achillea, tarassaco, elleboro, malva, croco – che non celebri le meraviglie dell’esistente; non c’è insetto – bombo, coccinella, libellula, ape, cicala, formica, farfalla – che volando, zampettando, ronzando, frinendo – non faccia da contrappunto a tanta bellezza, a tanto splendore.
E poi c’è il bramito dei cervi in amore; c’è il soffiare del gatto selvatico; c’è lo zampettare del capriolo; c’è il gracchiare del corvo; c’è il frusciare della serpe. C’è lo spettacolo grandioso dei raggi di sole che scendono obliquamente nelle navate della verde cattedrale; e c’è lo spettacolo magico, alieno, dei raggi lunari che si diffondono nella foresta, di notte, nelle radure, sulle rive del torrente, e vi si specchiano, sussurrando all’acqua corrente le magiche parole che nessun umano ha mai udite, ma solo gli spiriti della foresta.
Eppure ogni cosa rimanda a qualcos’altro; nulla è pago e finito in se stesso, risolto nella propria finitezza. Per un filosofo, la foresta è la più grande lezione che esista sul reale: è il libro della gran vita dell’universo, la biblioteca di tutti i saperi, la rivelazione di tutte le meraviglie del mondo.
Ha scritto, in una bella pagina di prosa, Giancarlo Ferron, un guardacaccia-poeta con molti anni di vita nei boschi sulle spalle, nel suo libro autobiografico «Ho visto piangere gli animali» (Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2000, pp. 103-4):

«Quando si entra nella foresta l’atmosfera cambia di colpo, l’ombra è fa più scura, la luce del sole penetra tra le foglie fitte quasi con fatica e, di sera, il buio arriva presto. Il verde degli abeti è cupo,. Dall’esterno si sentono le innumerevoli melodie che gli uccelli cantano con mille voci diverse e strane. Quando si varca il confine tutto si ferma all’improvviso, sagome veloci corrono furtive a nascondersi, tutto tace.
Si sente a volte la voce del vento che a ondate frusta le cime degli alberi e scuote le fronde urlando strani lamenti. Questo è il magico regno di un re tanto potente e maestoso quanto timido e fragile.
Dove il bosco è vecchio ci sono tronchi morti che il picchio martella e scorteccia per cercare le larve nascoste nelle loro fibre; ci sono alberi che, cadendo, hanno trascinato con loro altre piante, creando così delle radure dove il sole è libero di scaldare la terra. In queste macchie, prive dell’ombra delle chiome, nascono i mirtilli, i lamponi e germogliano i semi.
Sono piccole isole dove il bosco cambia e si rigenera in un ciclo infinito e misterioso. Il tronco caduto si lascia ricoprire dal muschio e dalle felci, regala la sua corteccia alla terra, il suo legno nutre i funghi saprofiti e gli insetti che lo invadono per succhiare e trasformare quanto di utile alla vita vi è rimasto: tutto tornerà alla terra per nutrire e rinascere nei figli e nei fratelli della pianta che è morta.
Gli abeti e i faggi intrecciano i rami nel silenzioso duello per la vita, per la conquista della luce e dello spazio. L’albero più grande e forte copre con le sue fronde il più piccolo e gli toglie i raggi del sole fino a quando lui stesso non morirà, vinto dagli anni, da un fulmine o da invisibili parassiti.
Il bosco inventato da madre natura è un’opera d’arte che vive in una complicata armonia che gli è propria, in un intreccio di tanti piccolissimi ambienti diversi che si completano tra loro e che sono abitati da esseri viventi che lottano per mantenere i confini di altrettanti piccoli mondi.
In questo ambiente vive un volatile bellissimo e sempre più raro, il suo piumaggio è scuro e misterioso come lo sono le ombre della notte, ma è anche verde rilucente come le foglie bagnate di pioggia, e blu come i mirtilli maturi.
È maestoso e fiero quando avanza trascinando le ali per terra e mantenendo le penne della coda aperte come un copricapo indiano. Il suo canto sembra senza note, un insieme di rumori che non sono né voci, né musica, né melodia, ma solo un ripetersi di strofe di una canzone incredibile  formata da suoni strani quanto misteriosi e antichi.
Solo un re della foresta come lo è il Gallo Cedrone può affascinare così…»

Ci sono molte maniere di entrare in una foresta, di guardarla, di ascoltarla, di lasciare che essa ci parli e ci insegni i suoi segreti. C’è il modo del naturalista, che esamina con occhio attento, che confronta, che cataloga mentalmente, che cerca la spiegazione razionale per ogni fenomeno – l’inversione termica, ad esempio, per cui, nelle conche boschive di montagna, le specie arboree dei climi più freddi si incontrano più in basso di quelle dei climi meno rigidi. C’è il modo del poeta, del pittore, del musicista, che cerca l’ispirazione per i suoi versi, per i suoi dipinti, per le sue armonie; o meglio, che lascia alla foresta il prodigio di dettargli le parole e la musica, di guidargli la mano sulla tela. E c’è il modo del pensatore, che vi trova infiniti spunti di riflessione, di meditazione, di comprensione: più che in qualsiasi aula universitaria, più che al cospetto del più grande studioso, esperto, specialista di questo o quel ramo dello scibile umano.
Per noi, che abbiamo la fortuna incomparabile di abitare non lontano dalla seconda foresta d’Italia per estensione, quella del Cansiglio, al confine tra Veneto e Friuli – la prima è non lontanissima, e si trova sempre in Friuli: la Foresta di Tarvisio – è uno spettacolo sempre nuovo e un’esperienza sempre diversa e commovente quella di entrarvi, di goderne i diversi colori nelle differenti stagioni, di ritrovarvi sempre un medesimo incanto, un medesimo alone di mistero, uno stesso fremito di vita: dal tenero verde primaverile, alle mille sfumature di verde vivo dell’estate, al giallo, all’arancio e al sontuoso marrone autunnali, fino al gran manto di neve bianca dell’inverno – perché lassù, a oltre mille metri d’altezza, e nelle pieghe di un altipiano circondato da cime più elevate, l’invero è rigidissimo, e le temperature notturne scendono, a volte, fino a venti, fino a trenta gradi sotto lo zero.
Tuttavia, come dicevamo, la foresta non dice all’uomo tutto quel che ha da dire, se l’uomo si ostina a guardarla solo e unicamente dal punto di vista materiale: se vuole imporre ad essa il suo supposto sapere razionalista, scientista, meccanicista, ed imporle di recitare, per lui, un copione già preconfezionato: se l’uomo vi entra con un tale spirito, essa non gli dirà nulla, assolutamente nulla, e il suo segreto gli resterà precluso ed ermeticamente sigillato. Meno ancora gli parlerà se egli vi entra al solo scopo di saccheggiare le sue ricchezze, il suo legname, i suoi frutti, la sua fauna: se vi entra da predone e da sfruttatore, senza rispetto e senza riguardi. E che cosa potrà dire al turista distratto, al villeggiante che si mette le cuffie nelle orecchie per seguire la partita di calcio, o che si sprofonda nelle conversazioni al telefono cellulare, senza occhi per quello che ha intorno, senza orecchi per i suoni ed i fremiti delle piante secolari? Che cosa mai potrà dire al bambino che, invece di spalancare gli occhi, colmi di meraviglia, e stupirsi d’ogni cosa, continua ad affannarsi sul suo tablet, sul suo smartphone, sui suoi costosi ed inutili gingilli tecnologici, regalatigli con troppa leggerezza da adulti che non riflettono a sufficienza?
Le cose ci parlano quando noi siamo pronti ad ascoltarle: questa è la legge. Finché non siamo pronti, non ci diranno un bel nulla, per quanti tesori avrebbero da comunicarci. E noi passiamo loro accanto, come sonnambuli presuntuosi, come manichini viventi, senza sensibilità, senza attenzione, senza partecipazione, senza amore: ciechi che credono di vedere e sordi che credono di udire. Ma quel che udiamo, quel che vediamo, è sempre e soltanto il riflesso del nostro ego: ogni foglia, ogni farfalla, ogni scintilla di luce sull’acqua del torrente, ogni goccia di pioggia rimasta sospesa sui rami, ci rimanderanno la nostra stessa immagine, ossessionante, all’infinito: l’immagine del nostro io prigioniero di se stesso, intrappolato nelle proprie spire, soffocato dalle proprie brame. E così la foresta: essa parla a chi la ascolta, a chi la interroga; ma resta muta e silenziosa davanti agli altri, a quelli che non sanno fare silenzio, né fuori, né dentro di sé.
Questa è, anche, una grande lezione: una lezione di umiltà, di saggezza, di vita; una lezione nella quale non valgono più i titoli accademici, non contano più i curricula universitari, e nemmeno il numero delle pubblicazioni che si possono vantare al proprio attivo; una lezione nella quale una persona semplice, un guardacaccia, un boscaiolo, un uomo o una donna che hanno fatto solo la quinta elementare, possono sapere, e soprattutto capire, molte più cose di quante ne possa comprendere un intellettuale di città, proprio perché sanno ascoltare. Il segreto è ascoltare: tutto il resto viene dopo, per conseguenza. E non basta saper ascoltare le voci dellaforesta; bisogna anche saper ascoltare le voci nella foresta. Perché la foresta – come la grotta, come la sorgente, come la montagna, come il fiume – è un luogo magico: un luogo privilegiato ove cadono i veli delle cose e si rivela la loro essenza più segreta.
Al centro della foresta del Cansiglio vi è una minuscola radura, con un altare di pietre abbellite dai fiori ed una statua della Vergine Maria: Nostra Signora del Cansiglio, legata ad un’apparizione miracolosa e frequentata da devoti silenziosi, che vi si recano a pregare. Al di sopra della radura, un breve squarcio di cielo fa capolino tra le cime dei faggi, che stormiscono piano. Tutto è pace e silenzio; tutto è vita e mistero; tutto palpita e sussurra il Nome dei nomi: quello di Dio fatto uomo…

 di Francesco Lamendola

Francesco Lamendola

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