La via tedesca al discernimento e la prudenza di S.Tommaso
Come rileva La Nuova Bussola quotidiana il Sinodo, alla fine, si gioca su di un problema di coscienza. In ballo c’è il rapporto tra coscienza e legge morale. E il nodo potrebbe non essere sciolto nella Relatio finale.
La questione è tutta nelle relatio del circolo Germanicus, specialmente nella seconda relatio, laddove si fa riferimento al principio di prudenza (epikeia) di S.Tommaso d’Aquino, quello stesso principio che già il cardinale Kasper aveva richiamato nella famosa relazione al concistoro 2014. E a cui si riferisce espressamente il cardinale Schonborn in questa intervista rilasciata al portale Vatican Insider. (vedi QUI)
Il testo della Relatio è in verità piuttosto generico, ma non si fa fatica a capire dove possa (o voglia) arrivare, soprattutto se si richiama alla mente che già dopo la pubblicazione dell’Enciclica Familiaris Consortio del 1981, come anche della Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristia da parte di fedeli divorziati risposati del 1994, da più parti si invocò il principio di epicheia per “bypassare” il divieto ivi presente, appoggiandosi sul fatto che i casi particolari non possono essere semplicemente dedotti da leggi universali.
Ma cos’è la tanto invocata epicheia? Essa è una virtù che permette di vivere secondo il bene indicato e protetto dalla legge, laddove questa risulti difettosa a motivo della sua universalità. La legge è infatti per definizione universale: essa punta al bene comune, senza poter tener presente tutta la casistica immaginabile. Possono perciò presentarsi situazioni non previste dal legislatore, nelle quali, per mantenersi fedeli alla mens della legge (e quindi al bene comune), sia necessario agire contrariamente alla sua lettera.
San Tommaso stesso fa un esempio semplice, ma molto chiaro: “la legge stabilisce che la roba lasciata in deposito venga restituita, poiché ciò è giusto nella maggior parte dei casi; capita però talvolta che sia nocivo: p. es. “se chi richiede la spada è un pazzo furioso fuori di sé, oppure se uno la richiede per combattere contro la patria” (Summa Theologiae, II-II, q. 120, a. 1). E’ chiaro: per conseguire il bene comune promosso dalla legge, in questo caso si deve necessariamente contravvenire alla sua applicazione letterale. San Tommaso esplicita: “se nasce un caso in cui l’osservanza della legge è dannosa al bene comune, allora essa non va osservata” (Summa Theologiae, I-II, q. 96, a. 6). Tuttavia, poco dopo, l’Aquinate precisa: “se l’osservanza letterale della legge non presenta un pericolo immediato, da fronteggiare subito, non spetta a chiunque precisare ciò che è utile o dannoso alla città, ma spetta solo a coloro che comandano” (Ivi). L’inciso è importante: il bene comune è qualcosa di oggettivo e non può essere lasciato in balìa del giudizio del singolo o al consenso di un gruppo. E’ dunque doveroso, se non si è gravemente impediti, riferirsi all’autorità competente, per essere certi che la contravvenzione alla lettera della legge raggiunga davvero lo scopo della salvaguardia del bene comune. Altrimenti si aprirebbe un varco all’arbitrio (anche se in buona fede) e quindi alla dissoluzione del sistema giuridico qua tale.
Da quanto detto, seppur per necessaria brevità, risulta chiaro che l’epicheia:
- non è un’eccezione alla legge, né la tolleranza di un male, né un compromesso: essa è invece principio di una scelta oggettivamente buona ed è la perfezione della giustizia;
- è una virtù che entra in gioco solo quando l’applicazione della lettera della legge fosse nociva al bene comune oggettivo e non quando l’osservanza della legge risultasse in alcuni casi difficoltosa o esigente; nemmeno si può ricorrere all’epicheia nel caso in cui la legge sembra non essere adeguata e pertinente al singolo caso.
- riguarda solo il caso concreto, che, a motivo dell’universalità della legge, non è stato possibile prevedere nella norma e non può perciò derogare ad altri casi particolari già previsti dal legislatore.
Veniamo adesso alla questione della Comunione ai divorziati risposati (e quindi della necessaria previa assoluzione sacramentale).
L’epicheia non può essere invocata per fare qualche benevola eccezione a qualsivoglia caso concreto; e su questo punto la seconda Relatio del Circolus Germanicus sembra essere d’accordo. Tuttavia occorre notare che proprio il testo propone la virtù di epicheia in un contesto in cui si parla dell’unione tra la giustizia e la misericordia, favorendo perciò un’interpretazione inadeguata dell’epicheia, come una sorta di mitigatio legis.
Non si può sostenere che seguire letteralmente la normativa magisteriale e canonica sulla questione possa ledere il bene comune. Al contrario, essa tutela il bene comune, soprattutto quando richiede l’accertamento dell’esistenza del vincolo di un precedente matrimonio, come previsto dal can. 1085 § 2: “Quantunque il matrimonio precedente sia, per qualunque causa, nullo o sciolto, non per questo è lecito contrarne un altro prima che sia constatata legittimamente e con certezza la nullità o lo scioglimento del precedente”. La normativa mette al riparo dall’arbitrarietà, anche in buona fede, per ancorarsi alla realtà effettiva. La difficoltà di certe situazioni concrete – che non si vuole affatto minimizzare – non implica la lesione del bene comune, condizione necessaria per potersi rifare alla virtù di epicheia.
Sia Familiaris Consortio, 84, che la succitata Lettera della Congregazione della Dottrina della Fede, come anche il Codice di Diritto Canonico, prendono esplicitamente in considerazione il caso particolare di persone che sono soggettivamente convinte della nullità della propria precedente unione. Quindi non si rientra neppure nell’ambito di una situazione per cui il legislatore non ha potuto prevedere tali casi concreti. Anzi, san Giovanni Paolo II, nel Discorso alla Rota Romana del 1995 afferma esplicitamente: “Si situerebbe fuori, ed anzi in posizione antitetica con l’autentico magistero ecclesiastico e con lo stesso ordinamento canonico – elemento unificante ed in qualche modo insostituibile per l’unità della Chiesa – chi pretendesse di infrangere le disposizioni legislative concernenti la dichiarazione di nullità di matrimonio. Tale principio vale per quanto riguarda non soltanto il diritto sostanziale, ma anche la legislazione di natura processuale. Di questo occorre tener conto nell’azione concreta, avendo cura di evitare risposte e soluzioni quasi «in foro interno» a situazioni forse difficili, ma che non possono essere affrontate e risolte se non nel rispetto delle vigenti norme canoniche. Di questo soprattutto devono tener conto quei Pastori che fossero eventualmente tentati di distanziarsi nella sostanza dalle procedure stabilite e confermate nel Codice. A tutti deve essere ricordato il principio per cui, pur essendo concessa al Vescovo diocesano la facoltà di dispensare a determinate condizioni da leggi disciplinari, non gli è consentito però di dispensare «in legibus processualibus»”.
Occorre inoltre ricordare che l’epicheia si applica solo a singole situazioni eccezionali, che oltretutto, secondo san Tommaso, presentano un pericolo immediato. Pensare all’epicheia come principio per risolvere un problema generale (quella dei divorziati risposati convinti della nullità del proprio matrimonio) porterebbe ad una contraddizione. D’altra parte non si vede perché la certezza “in foro interno” della invalidità della propria unione (che, lo ricordiamo, non è una persuasione, per quanto forte), condivisa ed approvata anche da uno o più sacerdoti esperti, non possa trovare conferma in un regolare tribunale. La certezza è tale solo se comprovata con elementi oggettivi, in qualche misura verificabili; altrimenti è facile che resti una convinzione personale, per quanto rispettabile. Ecco perchè il Sinodo è una “questione di coscienza.”
(di Luisella Scrosati)
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