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martedì 20 ottobre 2015

Vivere con fede

FEDE NELLA PROVVIDENZA

   
Vivere con fede significa affidare a Dio il timone della propria navicella. La fede è, prima di tutto, non un agire o un essere, ma un atteggiamento complessivo dell’anima di fronte a Dio, la pre-condizione di tutto il resto 
di Francesco Lamendola  




Si parla della fede come se fosse una qualità o una virtù; sovente la si contrappone alla religione, come lo spirituale starebbe al materiale; si trascura il fatto – essenziale, secondo noi – che la fede è, prima di tutto, non un agire o un essere, ma un atteggiamento complessivo dell’anima di fronte a Dio; in un certo senso, la pre-condizione di tutto il resto: l’essere religiosi e il sentire, il pensare, l’agire in coerenza con tale modo di essere.

Ebbene, la caratteristica fondamentale dell’atteggiamento di fede è l’abbandono: la rinuncia al sapere e al potere dell’uomo e l’affidarsi completo e incondizionato a Dio. Ciò, naturalmente, non significa che la persona di fede debba smettere di agire e di darsi da fare; significa, invece, che il suo agire e il suo darsi da fare assumono una tonalità del tutto nuova: si tratta, d’ora in poi, di un agire e un darsi da fare che hanno per attore principale Dio stesso, e la persona umana come semplice esecutrice e come semplice strumento.
Ma questo che cosa significa, in pratica? Significa che Dio, per la persona di fede, entra a pieno titolo, come una presenza costante e irrinunciabile, nel suo orizzonte esistenziale e si assume la direzione della sua vita, come il capitano che prende in mano il timone della nave, o, se si preferisce, che si pone alle spalle del timoniere e, con la sua sola presenza, pur restando in silenzio, lo rassicura e lo sprona a dare il meglio di se stesso. Il timoniere avverte la sua presenza benevola e sa di poter contare sulle sue indicazioni, in qualsiasi frangente.
La Provvidenza, per il credente, non è semplicemente una reminiscenza manzoniana o un fattore di cui altri hanno fatto esperienza: è la stella polare della sua vita, la sua costante certezza, la sorgente inesauribile della sua speranza. A differenza della barca dei Malavoglia che portava quel nome, essa non potrà mai fare naufragio, perché sarebbe come dire che Dio non c’è o che si è distratto, abbandonando gli uomini al loro destino; ma quale Padre potrebbe mai dimenticarsi dei suoi figli, tradendo la loro fiducia piena e incondizionata?
Di fatto, riconoscere i segni della Provvidenza non è sempre così facile come il non credente potrebbe supporre: la fede è rischio, e, senza scomodare Abramo, Kierkegaard e il suo “paradosso della fede”, la Provvidenza non si presenta di certo come un deus ex machina, che arriva al momento opportuno per raddrizzare le situazioni pericolose o difficili; ma si nasconde negli angoli bui della vita del credente e lo interpella misteriosamente, lo sollecita a farsi avanti quando egli non ne avrebbe il coraggio, pretende da lui un supplemento di fede e di abbandono quando già si sente mancare il terreno sotto i piedi e non osa più fidarsi nemmeno di se stesso.
In altre parole, la Provvidenza esiste, ma non si manifesta a chi non è pronto per essa: per manifestarsi, ha bisogno della collaborazione umana; non è l’espressione della presenza di un Dio che vuol fare tutto da solo, ma di un Dio che richiede all’uomo di riconoscerlo e di fidarsi di Lui, liberamente e spontaneamente. Infatti, essa non agisce così come il credente, umanamente, si aspetterebbe: se così fosse, altro non sarebbe che un prolungamento del sentire e dell’agire umano. La tecnica potrebbe benissimo prenderne il posto, o la scienza, o la ragione, o qualche altro umano ritrovato ed espediente.
Dunque: la Provvidenza ci interpella, ma si nasconde; è efficace, ma secondo i disegni di Dio e non secondo le nostre aspettative. Non sempre ci dà quello che chiediamo, perché non sempre chiediamo le cose giuste; e non sempre scioglie i nostri dubbi, perché non sempre ciò sarebbe un bene per noi. Appunto perché essa è il nostro bene, non sempre riusciamo a capirne il linguaggio. Sarebbe troppo bello: sono ben pochi gli uomini che arrivano a pensare il proprio bene in termini assoluti, e non relativi; a riconoscere ciò che è veramente bene per loro, senza confonderlo con ciò che è utile, o gradevole, o attraente.
Abbiamo detto che fidarsi della Provvidenza è un rischio e vogliamo fare un esempio: un marinaio che vede la sua nave, inspiegabilmente, respinta dalla sua rotta abituale, come da una forza soprannaturale. Si tratta di un vecchio e bravo marinaio, al comando di una vecchia e buona nave: perché mai essa non risponde ai comandi e sembra volersene andare per conto proprio, quasi ribellandosi alla volontà umana? Questo potrebbe sembrare un apologo, una metafora letteraria: invece è una storia vera, una storia realmente accaduta, di mare e di marinai, al tempo della navigazione a vela. Il lettore giudicherà poi da sé.
Riportiamo quella storia, dunque, così come la riferisce lo scrittore statunitense Vincent Gaddis (nato in una località dell’Ohio il 28 dicembre 1913 e morto ad Eureka, in California, il 26 febbraio 1897) nel suo libro «Prigionieri degli abissi» (titolo originale: «Invisible Horizons: True Mysteries of the Seas», 1965; traduzione dall'americano di Loredana Musso, Milano, Gruppo Editoriale Armenia, 1998, pp. 77-79):

«…Nella storia del Capitano George L. Howland, proprietario della baleniere "Canton", troviamo un altro misterioso salvataggio.
Nel giugno 1887, il "Canton" partì da New Bedford, nel Massachusetts, per la caccia alle balene nell'Atlantico  del Sud. Quando i grossi cetacei furono uccisi e squartati, la nave risalì a nord verso S. Helene per scaricare i barili di olio di balena e fare il carico d'acqua.
In settembre, il Canton iniziò un nuovo viaggio per la caccia ed invece di seguire la rotta e il vento, la nave cominciò ad andare dove voleva. Il Capitano Howland tentò ripetutamente di riportarla nella giusta direzione,ma ogni volta la nave sembrava ribellarsi e riprendeva il suo bizzarro cammino mentre le vele, quasi per protesta, sbattevano.
il capitano era un uomo molto religioso, timorato di dio; volgendo gli occhi al cielo disse: "Questa è una buona nave, non c'è nessuna ragione per cui non debba rispondere ai comandi. Deve essere in mano della Provvidenza che la guida, lasciamola andare dove vuole. Dio sa dove ci porterà".
Nei due giorni successivi, Howland rimase quasi sempre appoggiato al parapetto in silenzio, dando ordini tranquillamente. Il terzo giorno il primo ufficiale, Antonio Cruz, notò numerosi strani puntini sulla superficie del mare davanti alla nave. Quando il "Canton" fu più vicino i puntini si rivelarono piccole barche,sparse qua e là, cariche di uomini sparuti che agitavano le mani e gridavano con voce roca.
Si seppe poi che erano i superstiti del mercantile britannico "Monarch". La nave, che trasportava più di 200 casse di dinamite, aveva preso fuoco a 7 miglia circa al largo del Capo di Bona Speranza. Non si era riusciti a domare le fiamme e così la nave era stata abbandonata. Tormentati dalla fame e dalla sete, i passeggeri e i membri dell'equipaggio erano stati trasportati per circa 150 miglia.
"ringraziate iddio - disse il capitano ai naufraghi - è stato lui che ci ha guidato fino  a voi. Ringraziatelo in tutte le vostre preghiere".
I superstiti furono poi condotti al Capo di Buona Speranza,. In seguito, il governo inglese donò al Capitano Howland una pesante teiera d'argento e la Liverpool Shipwreck and Humaine Society gli conferì una medaglia d'oro.
Questa fu l'unica volta che il "Canton" tenne un simile comportamento, e sì che aveva navigato per molti anni.
William H. Tripp, direttore di un museo marino sulla caccia alla balena, in un libretto intitolato "Brief History of the Bark “Canton'", nella descrizione della nave dice che "era un po' vecchio stile, con la prua smussata" (era stata infatti costruita a Baltimora nel 1835), ma aggiunge che "navigava perfettamente con ogni vento e non faceva acqua".
Il Capitano Howland viveva sul mare da quando aveva 16 anni, aveva fatto il giro del mondo ed era considerato un esperto navigatore. Morì nel 1923, all'età di 70 anni.»

Ciò che maggiormente colpisce, in questa storia vera, non è tanto il fatto del salvataggio “miracoloso” in se stesso; chi ha studiato il dossier relativo ai misteri del mare, e non solo del mare, sa che esso è voluminosissimo, e che esistono decine e centinaia di casi documentati di salvataggi apparentemente inspiegabili, originati da visioni avvenute in sogno (o anche ad occhi aperti), da precognizioni, da casi di telepatia, da bilocazioni e perfino da apparizioni di morti o di morenti: sono moltissime le persone che devono la propria salvezza a simili circostanze, e, fra esse, i naufraghi in mare rappresentano sicuramente una bella percentuale.
Quello che maggiormente colpisce, dunque, nella vicenda della nave «Canton», non è il salvataggio in se stesso, ma il tipo di atteggiamento spirituale che lo rese possibile: quello del capitano Howland, vecchio lupo di mare dalla grandissima esperienza e dalle mille risorse, ma anche uomo pieno di fede. In lui la fede è stata così grande da mettere a tacere gli scrupoli del navigatore: non era cosa da nulla perdere dei giorni di navigazione utile (dopotutto, non andava per mare a scopo di diporto, ma per guadagnarsi la vita; e aveva la responsabilità, tutta intera, sia della nave, sia dei beni e dell’intero equipaggio) per correre dietro ad una fisima, ad una vaga sensazione, a un qualcosa di assolutamente impalpabile e invisibile.
Ma era un uomo “timorato di Dio”: ciò significa che non contava solo e unicamente su se stesso, ma era pronto ad affidarsi a Lui: era pronto a riconoscere la mano di Dio e l’ispirazione di Dio nelle vicende della vita quotidiana, a lasciarsi guidare per mano e ispirare da Dio, vale a dire dalla Sua infinita e misericordiosa Provvidenza. Chi possiede un tale genere di fede, non arretra più davanti a nulla, anche se, umanamene parlando, è al buio, e forse pieno di dubbi, come qualsiasi altro essere umano. L’uomo di fede non è un superuomo, non è un semidio: è una povera creatura, fragile e insicura, come qualsiasi altra: se possiede una marcia in più, essa non fa parte dl suo bagaglio: è un dono che viene dall’alto, e che egli ha l’umiltà di accogliere, facendosi piccolo, anche quando, umanamente parlando, ci sarebbero motivi per dubitare, e, talvolta, ci sarebbero persino motivi per disperare.
La Provvidenza, dunque, è ispirazione al bene, che viene donata all’uomo non per suo merito, ma per la gratuita bontà di Dio; e, più in generale, è un disegno complessivo volto al bene, disegno cosmico, che tutto abbraccia e tutto comprende, avvolgendo ogni cosa d’infinito amore, dal filo d’erba alla più lontana galassia: c’è una Provvidenza anche per i passeri, afferma Gesù Cristo, e neppure uno di essi potrebbe cadere a terra, senza che ciò accada secondo il volere di Dio (Matteo, 10, 29); e c’è una Provvidenza per gli esseri umani, i quali pur si preoccupano di cento e cento cose, sebbene il Padre celeste sappia benissimo ciò di cui essi hanno bisogno. Questa è la ragione per cui, sovente, non è facile riconoscere l’azione della Provvidenza: perché gli uomini si aspettano che essa si manifesti secondo le loro aspettative e i loro desideri, e non secondo la volontà di Dio. E questo, come avrebbe detto il buon vecchio Nietzsche - che, a suo modo, credeva in Dio, e ci credeva certo assai più di certi credenti dichiarati, ma tiepidi e insipidi, è ancora e sempre qualcosa di umano, troppo umano.
Non è detto che la Provvidenza ci salvi dal naufragio della nostra navicella. Ma questo non significa che essa si sia scordata di noi: significa, semplicemente, che quel naufragio era necessario per il bene della nostra anima; che avevamo bisogno di riflettere seriamente, di compiere una profonda revisione delle cose che per noi sono importanti: e che non esisteva un altro mezzo più sicuro ed efficace di quello. Ma, obietterà il ricco, nel naufragio ho perso tutti i miei tesori. Benissimo: erano proprio quelli che ti facevano da zavorra e ti impedivano di levare lo sguardo verso il Cielo. Ma, obietterà un altro, nel naufragio ho peso la mia bellezza, la mia prestanza, la mia giovinezza: ne sono uscito invecchiato, indebolito, malato. Benissimo: avevi bisogno di perdere la tua bellezza, la tua forza e la tua salute, per rinascere al cospetto di Dio. Ma, dirà un terzo: nel naufragio ho perso me stesso e sono piombato nella disperazione. Ma sarà proprio vero? Forse il tuo cuore si era così indurito, che solo la disperazione avrebbe potuto scioglierlo e farlo ricominciare a battere per Dio…

Francesco Lamendola


Vivere con fede significa affidare a Dio il timone della propria navicella

di

Francesco Lamendola

1 commento:

  1. La fiducia in Dio e quindi l'abbandono richiedono preliminarmente la conoscenza di Dio così come Egli è e non come noi vorremmo che fosse. Occorre quindi prima di tutto accettare ciò che Dio rivela di Se stesso solo dopo sarà possibile affidarsi completamente a Lui. La Fede è innanzitutto una Virtù che consiste nell'adesione dell'intelletto alle Verità rivelate non perché ragionevoli ma perché provenienti da Dio che non può ingannarsi ne ingannare. Fatta questa irrinunciabile premessa(per evitare di cadere negli atteggiamenti alla Brosio), posso dire che l'articolo è edificante e molto bello! Che Dio ci aiuti a lasciarLo guidare la nostra anima nelle tempeste e nei marosi della vita!

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