Ricevo questa riflessione da un uomo di Chiesa, non italiano, che sul suo nome chiede giusto riserbo. E che ha in animo di scriverci ancora altre "lettere dalla periferia".
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PASTORALE CASO PER CASO ANZICHÉ ANNUNCIO. UN GIOCO RISCHIOSO
di ***
Dopo il sinodo, alcuni vescovi e cardinali hanno dichiarato che la Chiesa dovrebbe "essere attenta", "discernere" e "accompagnare" con più attenzione. Si va alla ricerca dell‘"arte della cura d‘anime" e dell‘"inclusione", con uno stile pastorale che imbeve non solo il documento finale del sinodo ma anche molti degli interventi di persone del mondo ecclesiale.
Certo, si è alla ricerca di un approccio sensibile all’uomo di oggi. Io personalmente sono lieto che il sacerdote nel confessionale, al posto di prendermi a schiaffi con il catechismo, mi venga incontro con sensibilità cercando di comprendere la mia situazione particolare. Ma è questo un approccio adatto anche per i mezzi mediatici? Cosa succede se la comunicazione pubblica viene dominata da una mentalità del "caso per caso"? Parlare della preoccupazione per il singolo individuo può forse sostituire l’annuncio? La tensione di fondo tra liberali e conservatori ha forse a che fare anche con l’incombente minaccia che l’annuncio dell’insegnamento vada sempre più svanendo?
Il sistema mediatico odierno, con le sue innumerevoli reti digitali, è una grande sfida. La globalizzazione della comunicazione mediante piattaforme interattive cambia il processo della formazione dell’opinione pubblica. L’atteggiamento della Chiesa dinanzi a questa realtà richiede un ragionamento diverso da quello della cura pastorale locale.
Se un bravissimo pastore d’anime, che vuole bene alle persone, dice ad un omosessuale di non volerlo condannare, questa è una cosa buona. Se però, caso puramente ipotetico, il bravissimo pastore d’anime si trova su un aereo e dice la stessa cosa a dei giornalisti, a questo punto le sue parole si inseriscono nello spazio commerciale e politico dello sfruttamento mediatico.
Quasi tutti mezzi mediatici occidentali sono d’impronta laica o agnostica e interpretano i temi ecclesiali a livello orizzontale, cioè politico, storico, sociologico e non a livello verticale, in direzione di Dio. E la dimensione trascendente di un messaggio? Il peccato originale? No, ciò che conta è solo lo scoop. Il lettore e lo spettatore vogliono solo una storia che faccia notizia: "La Chiesa non giudica più gli omosessuali". Questa sì, che è una notizia. E il capitolo successivo? "La Chiesa cambia la morale sessuale". E poi: "La validità dei dieci comandamenti dipende dalla decisione della propria coscienza". Se il discorso pastorale sostituisce l’insegnamento della dottrina, è questo il risultato della rappresentazione mediatica della Chiesa.
Ma forse alcuni pastori comprendono molto bene questi meccanismi. Forse capiscono anche la differenza tra la comunicazione nella cura d’anime e la comunicazione nei mass media. Forse hanno solo paura dei media. Hanno paura del mobbing digitale, del martirio nel circo dell’opinione pubblica. Meglio essere un pastore d’anime soft, che non giudica mai nessuno. Si può arrivare perfino a una forma di civetteria verso la stampa o la TV o addirittura alla "sindrome di Stoccolma": allearsi, cioè, con il proprio sequestratore. Alla fine non è questo il desiderio di una Chiesa che trova ampio consenso, una Chiesa privilegiata?
Qualunque siano le cause: la proclamazione della dottrina attualmente è passata in secondo piano. Non si spiega più cosa la Chiesa dichiari essere sempre vero e buono, oppure falso e cattivo. Ci si limita invece solo a spiegare perché non tutti i casi siano uguali. A quali conseguenze porterà? Cosa comporterà per l’unità della Chiesa e la prassi pastorale? E per l’evangelizzazione? Tra i fedeli alla dottrina tutto questo porta confusione e malcontento, lo si può già constatare in molti paesi. Le cerchie progressiste intanto sfruttano l’assenza di un annuncio vincolante per relativizzare l’insegnamento e reclamare un adattamento ai tempi. È un gioco pericoloso. Può portare a uno scisma nella Chiesa: prima nella prassi pastorale e poi addirittura nella dottrina.
Cosa farebbe San Paolo? Al suo tempo, nell’areopago, ai pagani non aveva parlato di cura d’anime adattata alla situazione. Non aveva nemmeno parlato subito di Cristo, ma prima della cultura che aveva lì incontrato. Aveva manifestato loro di aver visto gli dei e i santuari ad Atene e che aveva compreso il loro mondo. Sapeva che quanto meglio avrebbe lui compreso, tanto meglio sarebbe stato compreso.
Senza dubbio anche oggi dobbiamo di nuovo manifestare di aver compreso gli idoli del XXI secolo, come ad esempio il culto dell'ottimizzare, dell’edonismo o della tecnologizzazione, per poter mostrare che abbiamo qualcosa di meglio da offrire. Ma prima dobbiamo riconoscere che non possiamo farlo solo mediante una cura pastorale caso per caso. Per farlo dobbiamo proclamare l’insegnamento della Chiesa. Adatto per i media, ma non adattato ai media. Fedeli alla fede, ma non di vecchio stampo.
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(S.M.) Alla riflessione di *** si può collegare quanto detto in un'intervista ad Aleteia dal gesuita Antonio Spadaro, direttore de "La Civiltà Cattolica", a proposito dello stile comunicativo di papa Francesco.
Alla domanda: "C’è il rischio di essere equivocati? Alcuni parroci si lamentano di fare la figura dei 'cattivi' rispetto ai fedeli che richiedono di accedere alla comunione anche se divorziati perché l’ha detto il papa…", padre Spadaro ha risposto così:
"Il rischio di equivoco sulle parole del papa esiste e fa parte della loro capacità comunicativa. La comunicazione, se reale, è ambigua. Se invece è fatta di comunicati stampa, di formule o di lezioni, la parola è chiara, però non comunica. Il papa ha fatto una scelta precisa: privilegiare la pastorale e parlare alla gente. Certo si presta a possibili fraintendimenti, ma allo stesso tempo, muove, sta smuovendo il popolo di Dio che fa appello ai suoi pastori. I pastori sono allora oggi chiamati a rileggere il Vangelo per poterlo spiegare meglio alla gente che rimane scossa dalle parole di Francesco. La parola del papa non è l’ultima, quella definitiva che produce sentenze, ma è la parola capace di smuovere il popolo di Dio e aprire processi, che è un’altra chiave per capire Bergoglio. Non è un papa che 'fa cose', ma uno che apre processi".
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