ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 14 dicembre 2015

La scomparsa del senso del peccato


COLPA O PECCATO ?





La società moderna laicizzata e secolarizzata non vuol più sentir parlare di "peccato", la parola è stata abolita sostituita da “colpa” o essendo troppo severa da "errore": l’essenza del peccato è il rifiuto dell’amore di Dio 
di Francesco Lamendola  


  
La società moderna, laicizzata e secolarizzata, non vuol più nemmeno sentir parlare di “peccato”; la parola, insieme al relativo concetto, è stata abolita e sostituita da quella, puramente giudica o, al massimo, ispirata ad un’etica laicista, dalla “colpa” – beninteso, quando anche questa espressione non suona un po’ troppo severa e arcigna, nel qual caso ci si affretta a sostituirla con “errore” (per il quale, ovviamente, ci sono mille attenuanti). Si tratta di una evoluzione normale, se “normale” è giungere a determinati esiti, una volta poste determinate premesse.
Ciò che appare un po’ meno normale, se la coerenza logica e quella concettuale hanno ancora un senso (il che potrebbe anche non essere vero, visti il relativismo, l’indifferentismo e il nichilismo imperversanti ovunque), è che una analoga evoluzione si sia verificata anche nell’ambito della cultura cristiana, nella pratica dei credenti, negli stessi teologi e negli stessi vescovi della Chiesa cattolica, o, comunque, in una parte non piccola di essi.
Anche lì si è attuata una profonda trasformazione, o involuzione, che dir si voglia; e, in tale ambito, la cosa si è consumata estremamente in fretta, molto più in fretta che nella cultura laica e laicista: anche lì si sente sempre meno parlare del peccato e del suo necessario correttivo, la Grazia, quasi che il peccato fosse divenuto un elemento secondario, e quasi accessorio, nella vita dell’anima.
Anche la vita dell’anima, a dire il vero, è divenuta una espressione un po’ desueta: oggi molti teologi e molti preti preferiscono parlare dei problemi ambientali, delle questioni sociali, della sostenibilità ecologica e dello sfruttamento dei poveri; tutte cose legittime, intendiamoci: ma sono le cose caratterizzanti della religione cristiana? E, soprattutto, vengono prima del mistero del Bene e del Male, del Peccato e della Redenzione? Si può ancora parlare del cristianesimo, e parlarne da cristiani, ignorando il suo nocciolo: il dramma dell’uomo che tende al bene ma che subisce la tentazione del male, e che, senza Dio, non trova pace, né salvezza?
Uno dopo l’altro, quasi tutti i Comandamenti sono caduti in disuso. Pare che non sia più peccato tralasciare di santificare le feste, né offendere e maltrattare il padre e la madre; e che siano peccati lievi, e senz’altro remissibili, il desiderio della donna altrui e dei beni altrui. Gli atti impuri non si sa più nemmeno cosa siano; dire falsa testimonianza è diventata una marachella da bambini; bestemmiare il nome di Dio, una sgradevole maleducazione, o giù di lì; adorare altri delle altre divinità – il Denaro, il Potere, il Successo – una pratica perfettamente compatibile e conciliabile con l’ossequio formale nei confronti del Dio cristiano – come è testimoniato dallasostituzione della messa domenicale con il rito domenicale neo-pagano dello shopping consumista nei centri commerciali e le serate da sballo in discoteca.
La scomparsa del senso del peccato, e la sua sostituzione con il concetto laicista di “colpa”, è il risultato di un processo psicologico e culturale che parte da lontano e che presuppone un atteggiamento di sopravvalutazione dell’uomo rispetto a se stesso, un travisamento del suo statuto ontologico, e quindi, in ultima analisi, è riconducibile a un vero e proprio errore filosofico. L’uomo non è Dio: è creatura. Come creatura, e creatura intelligente e dotata di libero arbitrio, può fare il bene oppure il male; ma certo non è capace di perseverare nel bene senza l’aiuto soprannaturale della grazia, perché la sua natura è stata ferita dal Peccato originale, ed è divenuta imperfetta. Attenuare, minimizzare o, addirittura, negare la realtà del peccato, equivale ad attenuare, minimizzare o negare l’imperfezione della natura umana e il fatto che solo in Dio essa trova il suo completamento e la sua piena e armoniosa realizzazione. Significa, in altri termini, disconoscere la sua mèta, il suo scopo, il suo fine; significa ignorare il fatto che l’uomo si realizza veramente come uomo quando riconosce il proprio limite creaturale ed invoca l’aiuto del suo Creatore, ne celebra le lodi, lo ringrazia per la Sua bontà e magnificenza. Tutto questo, per alcuni, sa di vecchio catechismo, di Chiesa pre-conciliare? Niente affatto, e quei tali se ne facciano una ragione: questo è il Vangelo; questo è il cristianesimo; e questa è la Chiesa eterna, fondata sui due pilastri della Scrittura e della Tradizione.
Scriveva Eugen Walter nel libro «Sorgenti d’acqua viva» (titolo originale: «Quellen Lebendigen Wassers», Freiburg, Verlag Herder, 1953; traduzione italiana di Salvatore Marsili, Alba, Edizioni Paoline, 1956, pp. 142-44):

«La colpa differisce dal peccato? Evidentemente è più facile sentir parlare di colpa che di peccato. In altre parole: Il fatto come realtà è così innegabile che non se ne può venir fuori senza parlarne, neppure quando, per un qualunque motivo, si vuole evitare la parola peccato. Ma perché l’uomo si riconosce più facilmente in colpa che in peccato? Il peccato include sempre un riconoscimento di Dio; è quindi un concetto religioso,  mentre la colpa rimane nel vago, in     quanto non chiarisce di fronte a chi essa è tale, denominando solo un’esperienza della coscienza morale. Vi è nell’uomo una strana inclinazione. Quando infatti egli fissa il suo occhio nella faccia vuota di sguardo  di una potenza anonima, gli sembra di sentirsi più libero, che non sotto gli occhi di una guida giusta e misericordiosa, dotata di personalità: è come uno strano allettamento, magico e pervertitore, verso l’abisso. Egli afferma allora che non vi è scampo dalle spire del destino, che il peso della colpa è insopportabile. Ma insieme trova che la dignità dell’uomo, il superiore valore della personalità è proprio lì che trova la sua espressione, e che quindi egli deve perciò stesso piuttosto spezzarsi sotto il peso della sua colpa, che lasciarsene scaricare da una divina grazia misericordiosa. L’uomo preferisce scegliere piuttosto la parte del tragico eroismo, che non riconoscere un Dio personale, che giudica e grazia. Il peso della colpa “può in verità essere tristezza, dolore, angustia dello spirito, anche castigo, - e un castigo, più spesso di quel che si creda, terribile -, ma la remissione della colpa sarebbe, ammesso che sia possibile, - sia pure per grazia divina -, un male, e precisamente un male più grande che non il portare la colpa, poiché sarebbe veramente un male morale, e cioè: l’umiliazione e l’avvilimento dell’uomo, la dichiarazione della sua schiavitù”. E chi parla così non è per casi un Esistenzialista, ma N. Hartmann. Il dovere morale e i valori morali vengono qui certo visti in tutta la loro purezza e superiorità, ma questa dignità morale dell’uomo viene anche pagata con una mancanza assoluta e terribile di ogni via d’uscita.
Orbene noi vogliamo dimostrare che la colpa è certamente il più grave dei mali, ma non tuttavia tale che debba privare l’uomo della sua dignità e condannarlo alla disperazione. Nella istanza stessa così terribile della colpa, c’è già una indicazione di salvezza. Quelli che non hanno voluto riconoscere come vero un Legislatore eterno e un Custode dell’ordine morale, hanno tentato di considerare la colpa come un residuo dell’istinto di pericolo dell’uomo. Il senso di paura che aveva l’uomo primitivo, che si credé già esposto alla mercé di molte potenze, e che perciò ascriveva ogni disgrazia al castigo e alla vendetta di queste potenze, in seguito alla lunga abitudine, avrebbe lasciato come ultimo residuo il sentimento della colpa. Questa dunque non sarebbe altro che un cupo timore di fronte ad una potenza che può castigare, oppure anche potrebbe essere il pervertimento di un istinto originariamente estroverso: “In tempi di pace l’uomo guerriero cade su se stesso” (Nietzsche).
Dovrebbe naturalmente essere facile potersi scuotere di dosso questo peso, e potere così camminare liberi e dritti nella vita, e ad ogni modo almeno i migliori dovrebbero poter giungere a questo, anche se i Primitivi credono di non poter far altro che trascinarselo appresso. Al contrario la colpa aderisce inseparabile dall’uomo, come la sua ombra. Esperienza umana questa che i Greci hanno giustamente messo in rilievo, quando l’hanno identificata con le Erinni, tristi dee dell’ira, che perseguitano il colpevole percotendolo con serpi annodate al flagello.
Difficile poter descrivere la natura ella colpa.  Noi la percepiamo come un PESO, che grava su di noi, che ci opprime, che ci impastoia, come un ELEMENTO DISTURBATORE del nostro interiore equilibrio, della nostra libertà, come un INTRISTIMENTO del nostro senso interiore. E tuttavia, con questo, non è solo un senso di infelicità, che può disturbare la nostra intima pace o mettere in subbuglio il nostro spirito, poiché la colpa è una ferita, un colpo di spada che ci trapassa senza molta pietà. La colpa non trova nulla cui paragonarsi, e un qualunque paragone ci fa solo comprendere che la colpa è tutt’altra cosa, una cosa più dura e grave.
L’onore vale per noi più che la ricchezza o qualunque altro avere, e  se questo nostro onore viene ferito, noi sentiamo questa ferita molto più che qualunque altra perdita e qualunque ingiustizia subita. Ma tutto questo in confronto della colpa, è al di fuori di noi, e noi possiamo in questi casi ritirarci nel nostro intimo, per ritrovare in noi stessi la nostra unità, per starcene soli con noi stessi. Al contrario LA COLPA PRODUCE UNA SEPARAZIONE NELLA PARTE PIÙ INTIMA DEL NOSTRO ESSERE, per cui qualcosa in noi si muove contro di noi e ci pone in stato di accusa. E in questo fatto risiede anche un momento di profonda vergogna di fronte a noi stessi, che nasce dalla costatazione di una nostra deficienza.
La presenza della colpa ci fa sentire che  Dio non è qualcosa di estraneo, né un Legislatore a noi lontano, ma al contrario che egli è quello che di più intimo è in noi, che la parte migliore di noi stessi è dichiaratamente in favore di Dio, e che quindi il peccato non è soltanto un’offesa a Dio, ma una distruzione apportata nella parte più intima del nostro essere, in quanto naturalmente si può in questo caso parlare di distruzione. È la stessa cosa che l’uomo prova, in senso positivo, quando si tratta del bene. Il bene infatti che egli vuole e che fa, produce in lui un senso di unità di sé con se stesso e con Colui - Dio - che in lui vuole assolutamente e santamente realizzato il bene. Ma l’uomo tuttavia è così fatto che tutto questo maggiormente sperimenta proprio quando perde questa sua interiore unità.»

Un tempo – e questo è stato certamente un errore, ma più sul piano didattico che su quello teologico – si insisteva troppo, forse, sul fatto che il peccato è una offesa recata a Dio; si sarebbe dovuto chiarire meglio, nella pastorale, e specialmente in quella rivolta ai bambini, che l’offesa fatta a Dio è anche un’offesa fatta dall’uomo a se medesimo, perché Dio è perfetto Amore e, dunque, tende al bene ovunque e in tutte le creature; per cui la scelta del male da parte della libera creatura umana – tale è il senso autentico del peccato – corrisponde a una ferita, ad uno sfregio, che tale creatura infligge a se stessa e, attraverso se stessa, all’intero creato. Peccando, l’uomo offende il Suo creatore, ma non nel senso – troppo antropomorfico – in cui un servo potrebbe offendere il suo signore, bensì nel senso che rifiuta il Suo progetto di amore universale, che, per realizzarsi, ha bisogno della collaborazione di tutti e di ciascuno. Quindi il peccato corrisponde ad un male fatto a se stessi, agli altri uomini e alle creature tutte; quanto a Dio, l’uomo non può fare del male al Suo creatore (non lo potrebbe, neppure se lo volesse coscientemente, per la differenza di statuto ontologico che li separa: ed è questo che rende grottesca la pratica del satanismo); ma può – diabolicamente – ostacolare il suo progetto di bene universale. In questo senso egli l’offende, e solo in questo senso.
Se ci è consentita una similitudine molto, troppo umana, l’uomo che voglia offendere Dio somiglia ad un minuscolo nanetto che voglia fare del male ad un gigante: tempestandolo di pugni, si stanca e fa del male a se stesso, non al gigante. Il gigante lo vede, ne soffre, ma non può farci nulla: vorrebbe soccorrere quel nanetto, vorrebbe por fine al suo strazio: ma non al prezzo di trasformarlo in una marionetta, perché lo ama troppo. L’amore di Dio verso la creatura umana si manifesta nel libero arbitrio: non c’è dono più grande di questo, che Egli abbia fatto a lei. Senza libero arbitrio, l’uomo sarebbe un bruto; il bene ed il male, per lui, non esisterebbero; non esisterebbe nulla di ciò che lo rende, specificamente, uomo: il pensiero, la ricerca, l’amore, il dubbio, la scelta, l’ansia di verità, di bellezza, di giustizia.
Ecco perché quei sedicenti teologi i quali negano la realtà dell’Inferno, o, in subordine, la sua eternità, non sanno letteralmente ciò di cui parlano. L’Inferno non è il castigo che Dio riserva all’uomo malvagio: è il destino che riserva a se stesso l’uomo che ha rifiutato l’amore di Dio. Non si può anteporre, o contrapporre, il concetto della misericordia divina a quello della divina giustizia: questo sarebbe un gravissimo errore teologico. Dio è Amore e Giustizia, contemporaneamente: l’una e l’altra s’illuminano a vicenda. Come potrebbe Dio costringere qualcuno ad entrare in Paradiso, contro la sua volontà? Perché l’essenza del peccato è questa: il rifiuto dell’amore di Dio…
Colpa o peccato?

di Francesco Lamendola

2 commenti:

  1. Ma si può saper, caro Brontolo, chi è sto lamendola e dove lo vai a prendere??? In alcune cose mi trovo d'accordo, in altre meno, in altre ancora per niente ma non è questo il punto! E' che non l'ho mai sentito nominare eccetto qui!

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    1. Caro Anonimo, anch'io ho gli stessi tuoi pensieri, e pubblico di lui le cose che mi paiono più oneste e condivisibili del sito dove pubblica che é quello riportato nel link dei suoi articoli, dove puoi trovare le sue note biografiche.
      Non credo sia un tradizionalista, ma certo non un modernista, e tanto mi basta.

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