ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 19 dicembre 2015

La Verità non è mai un male

TRIPLICE NATURA DELL'UOMO

    Essere coscienza felicità: la triplice natura dell’uomo. Che corrisponde anche alla tripartizione fondamentale della filosofia: l’ontologia scienza dell’essere la gnoseologia scienza del conoscere e l'etica scienza del bene e del male                   di F. Lamendola  



L’uomo, in primo luogo, è – o, quanto meno, presume di esserci; in secondo luogo, è cosciente di esistere, lo sente, lo respira, lo vive, se ne stupisce, ne gode, ne soffre, si fa mille domande, a molte delle quali non trova le risposte; in terzo luogo, egli cerca la felicità, perché il bisogno di essere felice è l’impulso invincibile che lo tiene legato al mondo ed a se stesso, che lo accompagna nei tratti perigliosi del suo cammino terreno, che lo sprona ad andare sempre avanti, confidando, se il suo presente non è felice, che il domani sarà migliore dell’oggi.

Ora, essere significa partecipare della realtà dell’Essere, ossia dell’Assoluto; sapere di essere, significa partecipare alla realtà del conoscere, che è la ricerca della Verità; essere felici significa essersi pienamente realizzati, aver trovato quella Verità che si cercava e goderne pienamente e irrevocabilmente, perché la felicità suprema, quella di divenire tutt’uno con l’Essere e con la Verità, una volta conquistata, non può andare mai più smarrita: è per sempre. Questa è la triade fondamentale della condizione umana: essere, coscienza, felicità; che corrisponde anche alla tripartizione fondamentale della filosofia: l’ontologia, o scienza dell’essere; la gnoseologia, o scienza del conoscere; e infine l’etica, o scienza del bene e del male, da cui dipende la possibilità di realizzarsi, e pertanto di essere felici.
Lo sciocco e superficiale edonismo della cultura moderna suggerisce, e persino afferma, che la felicità è premio a se stessa e che consiste, semplicemente, nella rimozione o nella sospensione di tutto ciò che ostacola o impedisce il benessere della coscienza; è una concezione che risale ad Epicuro ed è, oltre che molto povera, anche di segno puramente negativo. Ma la felicità non può essere solo una condizione definibile in negativo, cioè come assenza del dolore; senza contare che il dolore non è necessariamente un impedimento alla felicità, intendendo quest’ultima nel senso più profondo della parola. La felicità deve essere una condizione attiva e naturale della natura umana, dal momento che l‘anima tende verso di essa con tutte le sue forze. Di conseguenza, non si può neppure immaginare che la felicità non sia connaturata al destino umano: e l’unica condizione che soddisfa tali premesse è che la felicità debba consistere non nel possesso di questo o quel bene, transitorio e fuggevole, ma del Bene in se stesso.
Ma il Bene è anche la Verità, perché non possiamo certo supporre che in esso risieda qualche traccia di menzogna. Se così fosse, non sarebbe il Bene, ma uno dei tanti beni contingenti: non beni assoluti, ma relativi; beni che hanno in se stessi anche il proprio contrario. Per esempio: non possiamo immaginare che soddisfare la fame e la sete sia il Bene, anche se, mangiando e bevendo, allontaniamo dalla coscienza una condizione negativa, che le reca sofferenza; infatti, se mangiamo e beviamo oltre il giusto limite, incominciamo a stare male; e ciò renderebbe falsa l’affermazione che il mangiare e il bene sono la Verità. Nella Verità, tutto è sempre e solo Bene: è inimmaginabile che qualcosa divenga l’opposto del bene, se lo era in un primo momento. La Verità non è mai un male, non rappresenta mai un male: non si può fare indigestione della Verità; non si può provarne nausea, non si può provarne disgusto: essa è sempre e solo un bene, anzi, è il Bene.
Ecco, allora, che si delinea una straordinaria deduzione logica: noi siamo fatti per la verità e per la felicità, perché, se così non fosse, non saremmo fatti come siamo fatti; non avremmo in noi la brama dell’Assoluto e non continueremmo ad avere fame e sete di verità e di felicità, anche dopo esserci imbattuti in cose vere e buone. Se fossimo fatti in modo da accontentarci delle piccole verità e delle piccole felicità, allora ci basterebbe quel che possiamo conoscere umanamente e quel che possiamo godere umanamente; invece, anche l’uomo più sapiente avverte il morso doloroso della propria ignoranza, e anche l’uomo più felice avverte il pungolo angosciante della propria finitezza, della propria limitatezza e della propria provvisorietà. Se ci bastassero il sapere ed il godere puramente umani, da dove deriverebbero questa scontentezza, questa insoddisfazione? Perché non dovrebbe bastarci quel che possiamo conoscere sul piano intellettuale, e perché non saremmo appagarti dal piacere che possiamo raggiungere, semplicemente, qui ed ora?
L’uomo, invece, è sempre proiettato in avanti; è sempre un poco oltre se stesso. Secondo la psicologia materialista, questo è un male: è una forma di nevrosi, che deve essere curata, perché impedisce all’uomo di essere felice. Secondo la philosophia perennis, invece, questo non solo è un bene, ma è la garanzia e, in un certo senso, la caparra della vocazione ad una felicità soprannaturale; è la testimonianza viva della coscienza a se medesima, un costante richiamo ad una mèta più alta, ad un destino ulteriore, che non finisce con la morte fisica, ma che si proietta verso l’Infinito. Per duemila anni, il pensiero occidentale è stato, in prevalenza, di questa opinione; solo con l’avvento della modernità le cose sono cambiate; solo con la Ragione illuminista l’uomo ha “scoperto” che le piccole felicità sono tutta la felicità cui può aspirare, e ha deciso di perseguirle con tutte le sue forze, persino d’imporle agli individui ed ai popoli che non ne siano persuasi, scordandosi o cancellando il ricordo di quell’altra Felicità, quella totale, incondizionata, soprannaturale, che, da Platone in poi, è sempre stata la mèta suprema tanto della filosofia che della vita pratica, e che il cristianesimo ha mostrato coincidere con la ricerca e il “possesso” di Dio da parte della coscienza: itinerarium mentis in Deum.
Così scriveva Fritjhof Schuon in «L’esoterismo come principio e come via» (titolo originale: «L’Esoterisme comme principe et comme voie», Paris, Dery Livres, 1987; traduzione dal francese di Giorgio Jannaccone, Roma, Edizioni Mediterranee, 1984, pp. 101-03):

«L’intelligenza umana è essenzialmente oggettiva, dunque totale: essa è capace di giudizio disinteressato, di ragionamento, di meditazione assimilante e deificante, se la grazia aiuta.  Il carattere d’oggettività  appartiene anche alla volontà - proprio esso la rende umana - e appunto perciò la nostra volontà è libera,  ossia atta al superamento, al sacrificio, all’ascesi; il nostro volere non attinge soltanto ai nostri desideri, ma fondamentalmente alla verità, che indipendente dai nostri interessi immediati.  Del pari per la nostra anima, la nostra sensibilità, la nostra capacità d’amare umana è oggettiva per definizione, quindi imparziale nella sua essenza o nella sua perfezione primordiale e innocente, è capace di bontà, di generosità, di compassione.  Vale a dire che essa è atta a trovare la sua felicità in quella altrui,  e a scapito delle proprie soddisfazioni; così essa è atta a trovare la sua felicità  al di sopra di se stessa, nella sua personalità celeste  che non le appartiene ancora del tutto. Da questa natura specifica,  fatta di totalità e di oggettività, derivano  la vocazione dell’uomo, i suoi diritti e i suoi doveri.
 Dire che la prerogativa della condizione umana è la capacità d’essere oggettivi, equivale a riconoscere che il contenuto quintessenziale e la ragion d’essere finale di tale capacità è l’Assoluto: difatti l’intelligenza è oggettiva qualora non annoti soltanto ciò che è, bensì tutto ciò che è; un’intelligenza che rifiuta l’Assoluto  non dà contezza del Reale totale al quale è proporzionata; essa non è più umana e non putendo essere animale poiché in realtà è quella dell’uomo, non ha che la scelta di essere satanica. La volontà invece è oggettiva non solo a misura che mira a uno scopo attuabile e utile o a un bene reale, ma pure, anzi soprattutto, al Sommo Bene, e alle cose nella loro connessione vicina o lontana con questo Bene. E l’anima è oggettiva qualora ami ciò che è degno di essere amato, e la cui essenza trascendente è la Divina Bellezza e il divino Amore.
Il soggetto umano tende necessariamente al contingente perché anch’esso è contingente e a misura che lo è; e tende all’Assoluto appunto perché per la sua capacità d’oggettività partecipa dell’Assoluto, e perché questa capacità gli rivela che all’Assoluto appartiene ogni realtà positiva, dunque tutto quello che denominiamo un bene.
Evidentemente l’oggettività non è che la verità, nella quale il soggetto e l’oggetto coincidono nei limiti del possibile, e in cui l’essenziale prevale sull’accidentale - o il necessario sul contingente - sia estinguendolo in certo qual modo, sia reintegrandolo, a seconda dei diversi aspetti ontologici della relatività medesima.
L’uomo è stato definito un animale ragionevole, il che, pur essendo insufficiente e disdicevole, suggerisce di meno ellitticamente una realtà incontestabile: difatti la facoltà razionale indica la facoltà trascendente dell’uomo rispetto all’animale. L’uomo è ragionevole perché possiede l’Intelletto, che per definizione, è capace d’assoluto e quindi del senso del relativo in sé; e possiede l’Intelletto in quanto è fatto “a immagine di Dio”, cosa che peraltro manifesta - è appena il caso di ricordarlo - con la forma fisica, il dono della parola, e la capacità di produrre e di costruire. L’uomo è una teofania, e per la sua forma e per le sue facoltà; negarlo significa negare indirettamente Dio. Senza apertura verso la trascendenza, l’intelligenza umana sarebbe un lusso tanto inesplicabile quanto inutile.
L’anima ama la bellezza e si impegna così nella virtù, che è la bellezza e la felicità dell’anima; la bellezza, e l’amore della bellezza, donano all’anima la felicità cui aspira per sua natura. L’anima ama la bellezza, desidera la felicità, e pratica la bontà; dire che l’anima è fondamentalmente felice solo per la bellezza equivale a dire che è felice soltanto nella virtù.
Le bellezze sensibili sono poste al di fuori del’anima, e il loro incontro con essa è più o meno accidentale; se l’anima vuol essere felice in modo assoluto e permanente, deve recare in se stessa il bello; ora la bellezza interiore non è che la coscienza della Sorgente d’ogni armonia; è il senso del sacro ed è la fede, il “sì” dell’anima che incontra Dio. E di qui scaturiscono le virtù, che comunicano la bellezza dell’anima, e più fondamentalmente quella del Sommo Bene.
La virtù consiste nel messaggio di bellezza costituito dalla bontà. Ora la bontà si diversifica estrinsecamente secondo le circostanze: accade che debba farsi adamantina, invece folgorante, a contatto con quanto si oppone ad essa; ma tali veli sono sempre rivestiti dalla bontà. Il bene non combatte il male cessando di essere il bene, ma perché è il bene.
La virtù significa lasciare un varco libero, nell’anima, alla Bellezza di Dio.
Sat, Chit, Ananda: Essere, Coscienza, Felicità. Essere, dunque Potenza; Coscienza, dunque Sapienza;  Felicità, dunque Bellezza.  Al ternario divino corrisponde, nel microcosmo umano,  il ternario volontà, intelligenza, sentimento; o attività, conoscenza, amore.
Si potrebbe esprimere la dottrina delle tre dimensioni umane in modo del tutto semplice e immediatamente plausibile:  il bene che l’uomo è capace di conoscere, lo deve parimente volere a misura che  può essere un oggetto della volontà; e lo si deve inoltre amare, e contemporaneamente amare la conoscenza di questo bene e la volontà  verso di esso; come deve volerne e amarne i riflessi terreni e contingenti  secondo ciò che esige o permette la loro natura. Non ci si può votare alla conoscenza senza amarla e senza volerla, come non si può volere  qualcosa senza conoscerla  e senza amarne l’attuazione; e on si può amare senza conoscere  un oggetto né senza volerlo amare.»

Essere, coscienza, felicità: ecco la triplice realizzazione dell’uomo; ecco la mèta, lo scopo supremo della vita umana: trovare se stessi, realizzare se stessi, ricongiungersi a Dio. L’uomo esiste, perché è parte dell’essere, e non un accidente derivante dal Caso; e sa di esistere, perché possiede i mezzi per interrogarsi e per interrogare il mondo, e per comprendere il valore della verità, senza la quale ogni opera umana e ogni umano pensiero divengono inutili, sterili, ingannevoli; infine, sa che tutto quanto di buono egli può desiderare e immaginare, anzi, un bene ancora più grande, è il destino finale della sua esistenza, se egli sarà abbastanza tenace e perseverante da non deflettere nel suo cammino alla ricerca della Verità.
È un pensiero estremamente consolante, che dovrebbe darci la forza di affrontare e superare anche i momenti più difficili. Non veniamo dal nulla, non siamo destinati al nulla, e il nostro sentire e il nostro cercare non sono nulla: sono qualcosa; sono piccoli passi sul cammino della Verità, che è anche il cammino del ritorno a Dio e della nostra piena, felice, ineffabile realizzazione suprema…


Essere, coscienza, felicità: la triplice natura dell’uomo

di  Francesco Lamendola

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