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mercoledì 13 gennaio 2016

Ci troveremo in Purgatorio, o ci siamo già?

Il Purgatorio perduto

Avrebbe dovuto dare speranza ai peccatori e lustro al Giubileo. Ma il Luogo santo della purificazione sembra ormai dimenticato. La Chiesa l’ha riconsegnato a Dante

Ludovico Carracci, “Un angelo libera le anime del Purgatorio”, 1610 (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana)

“Vi ringrazio tanto. Adesso vi do la benedizione. A presto, se non ci vediamo più qui, ci troveremo in Purgatorio”
(Papa Francesco, 8 settembre 2013)

Già Voltaire, e si parla di tre secoli fa, diceva che parlare di inferno, diavoli e supplizi eterni era cosa “da domestiche e da sarti”. Poi è arrivato il Novecento, con le sue dotte elucubrazioni e l’enorme fraintendimento del pensiero di Hans Urs von Balthasar, che fin quasi in punto di morte si ribellò per quello che gli avevano messo in bocca, e cioè che l’inferno sarebbe vuoto: “Che razza di espressione! Sono state ripetutamente travisate le mie parole”, sbottava: “Chi spera nella salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, spera l’inferno vuoto”. Dire che lì non ci sia nessuno, insomma, è tutt’altro paio di maniche. Poi è arrivato Francesco, che del Diavolo parla ad abundantiam, mettendo sul chi va là il fedele gaudente che magari non saprà farsi il segno della croce (il selfie sì, ça va sans dire), ma di Satana ha ancora timore.
Se del Paradiso nessun cristiano mette in dubbio l’esistenza, il gran problema è rappresentato dal Purgatorio, il luogo di mezzo e di passaggio che è scomparso dalle prediche domenicali, per non parlare del catechismo, dove i bambini diventano grandi artisti a forza di far disegni e cartelloni ma dei fondamenti della dottrina (e non si parla di San Tommaso somministrato in pillole) poco e niente. Come se non esistesse, insomma: quasi che il Purgatorio sia solo frutto della sublime immaginazione di Dante, il poeta che arrivato sulla spiaggia dell’Antipurgatorio prometteva di cantare “di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno”.

Non se ne parla neanche ora che si è immersi nell’Anno Santo, per tradizione momento votato all’espiazione delle colpe e alla ricerca del perdono per i propri peccati. Nulla, non una parola (se non scarni accenni), almeno non alle latitudini europee. “Eppure io non sarei così sicuro che non ci siano preti che oggi parlano del purgatorio”, dice al Foglio John W. Martens, teologo e direttore del Master of Arts in Theology alla St. Thomas University, negli Stati Uniti. “Di certo è un argomento difficile. Probabilmente, un’omelia non offre il tempo sufficiente per esplorare a pieno la complessità della questione. Mi è stato chiesto di recente di discutere del Purgatorio davanti a un gruppo di giovani cattolici di Minneapolis: ho parlato per un’ora. Forse un po’ troppo, ma penso che l’incontro sia stato utile per esaminare questo concetto fondamentale”. Ed è questo il problema principale, che poi è anche il pensiero ricorrente pure tra i sacerdoti delle parrocchie nostrane interpellati a taccuini chiusi sul tema: è arduo dire cosa il Purgatorio sia, definirlo in modo accessibile ai più, alle signore che la domenica puntuali siedono nel primo banco col foglietto “La Domenica” in mano (quello con le letture del giorno e le preghiere troppo lunghe per essere imparate a memoria) e i gentiluomini che affollano le ultime file chiacchierando fino al trillo del campanello.

Paradossalmente, nota Martens, i problemi li ha creati la Commedia dantesca: “Il Purgatorio è stato plasmato nell’immaginario cristiano da Dante, che parla di esso come d’un processo di purificazione ma al contempo descrive il Monte Purgatorio, un luogo concreto che si può scalare espiando i sette peccati capitali, arrivando al Paradiso terrestre. Non c’è alcun particolare problema teologico con la grande opera di Dante – nota Martens – a parte il fatto che si tratta di fiction”, e benché ciò sia ovvio “tanti potrebbero concepire il Purgatorio come un luogo fisico”.

ARTICOLI CORRELATI Italia sempre più scristianizzata. Così numeri e dati raccontano un cattolicesimo malconcio La Cei è in piazza: pro unioni civili L’anno del Papa buonoGli artisti medievali e del primo Rinascimento avevano risolto la questione della sua identificazione con le allegorie, ritraendo questo “luogo” come un’irta montagna ove purificarsi per poi ascendere al Cielo. Nei secoli seguenti, all’immagine s’è preferito dar spazio alla mera spiegazione teologica, che di certo ha complicato le cose. Durante il Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II chiarì innanzitutto che “questo termine non indica un luogo, ma una condizione di vita. Coloro che dopo la morte vivono in uno stato di purificazione sono già nell’amore di Cristo, il quale li solleva dai residui dell’imperfezione”. Quel che è fondamentale, aggiungeva Karol Wojtyla, è che “lo stato di purificazione non è un prolungamento della situazione terrena, quasi fosse data dopo la morte un’ulteriore possibilità di cambiare il proprio destino”.

Sul tema, ci tornò con più insistenza il suo successore, Benedetto XVI. Lo fece il 12 gennaio del 2011, nell’udienza generale – “che ci è di grande aiuto per capire i termini della questione”, sottolinea Martens – dedicata a Santa Caterina da Genova, “nota soprattutto per la sua visione sul Purgatorio”. Ratzinger ricordava subito che “il primo tratto originale riguarda il ‘luogo’ della purificazione delle anime. Nel suo tempo lo si raffigurava principalmente con il ricorso a immagini legate allo spazio: si pensava a un certo spazio, dove si troverebbe il Purgatorio. In Caterina, invece – aggiungeva l’allora Pontefice – il Purgatorio non è presentato come un elemento del paesaggio delle viscere della terra. E’ un fuoco non esteriore, ma interiore”. Per calare il concetto su un piano più accessibile, bisogna tornare alla Spe salvi, enciclica del 2007. Benedetto XVI partiva dal dato di fatto che con la morte la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva. E questa è la scelta che – per chi crede – sarà giudicata. Vi è chi ha preferito il male e la menzogna, una “prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere” e chi, invece, era in odor di santità mentre ancora poggiava i piedi su questa terra. Ratzinger, presentate le due categorie, osservava che “né l’uno né l’altro è il caso normale dell’esistenza umana”, visto che “nella gran parte degli uomini rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio”, ma che nell’esperienza quotidiana questa apertura risulta “ricoperta da nuovi compromessi col male”. Ecco che per queste anime inquiete c’è il fuoco, “da attraversare in prima persona per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell’eterno banchetto nuziale”.

Qualche anno fa, padre Livio Fanzaga proponeva una efficace schematizzazione della questione: ci sono due realtà che rimarranno per sempre, l’inferno (o perdizione eterna) e il paradiso (o beatitudine eterna). “Questo sarà lo sbocco definitivo del dramma della vita e del dramma della libertà umana”. E il Purgatorio? “E’ una realtà escatologica”, diceva Fanzaga, “che dura soltanto fino alla fine del mondo e fino al giudizio universale. Dopo il giudizio universale ci sarà soltanto o la gioia eterna o l’odio eterno come possibilità delle scelte della nostra libertà”. Nient’altro. Il Purgatorio è, precisava, “lo stato di coloro che sono morti nella pace di Cristo ma non sono ancora così puri da poter essere ammessi alla visione di Dio”. Di certo, “è il luogo in cui già è presente la preghiera e l’amore anche se non è presente la visione di Dio”. Il fatto, afferma Martens, è che “il Purgatorio ha avuto una storia strana, con tanti cattolici che oggi non hanno più una chiara idea di cosa sia. E se i protestanti a lungo hanno rifiutato il Purgatorio in quanto ‘cosa’ cattolica che non ha alcun fondamento nella Bibbia, i riformatori del Sedicesimo secolo hanno avuto qualche problema – per usare un eufemismo – con le indulgenze e l’organizzazione ecclesiastica di allora, ed è anche per questo che non si sono dati troppo da fare per difendere” questa “terra di mezzo”. E poi non va dimenicato che “non esiste un passaggio biblico chiaro che cita per nome il Purgatorio. Uno dei passaggi chiave per i cattolici – dice Martens – che corrobora l’idea che questo ‘stato’ esista si trova nel Secondo libro dei Maccabei (12, 39-45), testo accettato dai cattolici ma non dai protestanti né dagli ebrei”. C’è poi il passaggio della Lettera di San Paolo ai Romani (12,17-21) in cui s’afferma che “se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo”. Proprio sui carboni, aggiunge il teologo americano, ci s’è domandati se sia un riferimento al ‘fuoco interiore’ purificatore”. Ma è un altro – a giudizio di Martens – il punto chiave che forse sgombra il campo da ogni dubbio, e lo si trova nel Vangelo di Matteo (18, 32-35): “Qui il servo non perdonato e consegnato dal padrone agli aguzzini non è comunque condannato per l’eternità, ma solo finché non restituirà tutto il dovuto, anche se il debito è enorme. Quindi c’è una fine. Questo non è l’Inferno. Quando Matteo parla dell’Inferno, usa un linguaggio particolare, con la persona gettata ‘nelle tenebre, là dove ci sarà pianto e stridore di denti’. L’evangelista usa questo linguaggio in sei occasioni nel suo testo”. Qualcosa, insomma, vorrà pur dire.

A ogni modo, la questione rimane aperta, anche in campo teologico, e questa è la ragione, secondo il nostro interlocutore, del dibattito “o della mancanza di dibattito” nel mondo cattolico circa il Purgatorio, influenzato dai dubbi sulla natura di questo “ambiente”, su cui ancora s’arrovellano i teologi, nonostante le parole chiare dei papi che si sono succeduti al Soglio di Pietro. Anche il Concilio, dopotutto, aveva confermato l’esistenza del Purgatorio, e Paolo VI, nell’omelia a conclusione dell’Anno della fede del 1968, chiariva che “noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’Aldilà della morte”. Certo, ricorda Martens, la chiesa una definizione del Purgatorio l’ha data, e basta recuperare il punto 1031 del Catechismo, ove si legge che “la chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati. La chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze e di Trento. La Tradizione della chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, parla di un fuoco purificatore”.
Il cambiamento “di prospettiva”, con il minor peso dato a indulgenze e pene temporali, fu reso palese con il Giubileo del 2000. Lo rilevò la storica Lucetta Scaraffia, che proprio quell’anno mandò in stampa un saggio (edito dal Mulino) in cui si metteva in risalto la mutazione avvenuta. In origine, scriveva Scaraffia, “la celebrazione giubilare era nata nella certezza del Purgatorio e dalla possibilità di intervenire, con l’aiuto delle indulgenze, per modificare le pene destinate ai peccatori nell’Aldilà. Si giustificava solo in funzione di un’Aldilà molto concreto, descritto e raffigurato con ricchezza di dettagli, e con la fiducia di poter intervenire nel regno immateriale con strumenti materiali: le offerte, le penitenze, il pellegrinaggio”. Ciò che fece Giovanni Paolo II, secondo la storica, fu di porre l’accento sulla “spiritualizzazione”, mettendo in qualche modo da parte indulgenze e pene temporali. E il copione si sarebbe in qualche ripetuto per quest’Anno Santo voluto da Francesco. John Martens, però, non è del tutto concorde: “Indulgenze e pene temporali dovrebbero essere questioni centrali, come del resto il Papa ha previsto con la speciale indulgenza plenaria di cui ha parlato nella lettera inviata lo scorso settembre a mons. Rino Fisichella: ‘Desidero che l’indulgenza giubilare giunga per ognuno come genuina esperienza della misericordia di Dio, la quale a tutti va incontro con il volto del Padre che accoglie e perdona, dimenticando completamente il peccato commesso’. Purgatorio e misericordia sono strettamente connesse”, nota il docente della St.Thomas University, che aggiunge: “Per presentarsi dinanzi a Dio bisogna essere preparati, e giacché Dio è santo, è necessario prepararsi per quando si sarà in presenza della santità. Questo è il processo di purificazione, durante il quale gli effetti delle nostre imperfezioni e dei nostri peccati vengono bruciati”.
di Matteo Matzuzzi | 13 Gennaio 2016 ore 17:47

http://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del-foglio/2016/01/13/il-purgatorio-perduto___1-v-136979-rubriche_c791.htm

Che ne sarà dei non-cristiani dopo la morte? Lasciamo fare a Dio…  “Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit; qui vero non crediderit, condemnabitur” (Mc 16, 16).

Extra Ecclesiam nulla salus”. Concilio di Firenze, 1438.
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Quella lapidaria frase di Gesù pronunciata, secondo l’Evangelista [1]; dall’altro, timore e sincera preoccupazione per tutti quei nostri fratelli che non conoscono Cristo o, avendolo conosciuto, lo hanno rifiutato. Infatti la dottrina della Chiesa ha sempre professato, dichiarato, insegnato che “Extra Ecclesiam nulla salus”,principio che reca in sé un ricchissimo significato teologico, dottrinale e pastorale, perché ci rammenta costantemente che Gesù, il Messia, il Cristo, il Verbo di Dio incarnatosi per la nostra redenzione, ha patito ed è morto offrendo Sé stesso in sacrificio per la salvezza di tutta l’umanità, quella salvezza che l’Uomo, il capolavoro di Dio, aveva perduto con il peccato originale e che non avrebbe mai potuto riguadagnare con le sue sole forze, ma solo con un intervento da parte del suo Creatore, motivato da quell’immenso e inenarrabile amore che Egli nutre per tutte le sue creature e che neppure la disubbidienza umana era riuscita a cancellare. Quindi saremmo autorizzati a pensare che tutti coloro i quali, in piena libertà (altro immenso dono del Padre), coscientemente e deliberatamente rifiutano il Cristo, rifiutando una così sublime offerta di amore, votano se stessi alla dannazione eterna.
Marco, al momento della Sua Ascensione, ha sempre suscitato in me sentimenti contrastanti. Da un lato, conforto e speranza – perché so di essere stata battezzata il giorno dopo la mia nascita, mentre adesso (chissà perché) nelle nostre parrocchie si assiste al Battesimo di bambini che ormai hanno raggiunto l’età giusta per frequentare la scuola materna
Ma stanno veramente così le cose? Secondo me, cattolica “bambina” che si abbevera costantemente al Catechismo di S. Pio X, non ci sono dubbi; ma il mondo moderno ne dubita e, come rifiuta il concetto di peccato e accetta con difficoltà perfino l’idea di una vita ultraterrena, così finisce per non credere più all’esistenza dell’inferno e si lusinga di pensare che, se è vero che l’anima sopravvive alla morte fisica, allora si vada tutti in Paradiso, “buoni” e “cattivi”, perché la misericordia di Dio è talmente grande che accoglie tutti senza distinzioni.  Vale allora la pena di riflettere un po’ su questo problema.
Il concetto di redenzione traeva origine, nell’Antico Testamento, dal diritto di famiglia e della tribù:  le famiglie potevano pagare un riscatto per liberare un parente caduto in schiavitù. Nella trasposizione religiosa, la categoria di redenzione perde la  connotazione giuridica e l’idea del pagamento ”dovuto” a qualcuno. Infatti, facendolo uscire dall’Egitto, Dio“redime” il Suo popolo gratuitamente, senza dovere nulla a nessuno, in virtù del vincolo che Egli ha stretto con esso e della fedeltà di Dio a Sé stesso e all’uomo.  Il Nuovo Testamento collega il valore della “salvezza” operata da Gesù con la Sua morte alla “redenzione”, al “sacrificio”, al “riscatto”, ma non li realizza più solo in un gesto rituale, ma nel dare la sua vita: “Sumite: hoc est corpus meum … Hoc est sanguis meus novi testamenti , qui pro multis effunditur” (Mc 14, 22 – 24). Queste parole pronunciate da Gesù sopra il calice dovettero essere sommamente rivelatrici per gli apostoli,  poiché in esse appariva spiegato il senso che avevano avuto i sacrifici dell’Antica Alleanza che fu di preparazione e di anticipo. Infatti Gesù aveva parlato spesso della Sua morte come redenzione. Gli esempi da fare sarebbero molti, ma il primo che mi viene in mente è: “ … appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20, 28). S. Paolo, dal canto suo, ribadisce: “Dio … vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 6); “Gesù Cristo … ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità …” (Tt 2, 14).
E così, dopo questo lungo preambolo, eccomi giunto al punta cui volevo arrivare che si riassume in una domanda brevissima:quale sarà il destino eterno dei non cristiani? Con quella espressione io intendo riferirmi non solo a coloro che appartengono a civiltà diverse da quella ebraico – cristiana, e quindi sono stati educati in religioni diverse, ma anche a coloro (soprattutto le persone colte) che hanno conosciuto Cristo ma, ciò nonostante, lo hanno rifiutato. Infatti,  poiché tutti sappiamo che la fede in Cristo, Verbo di Dio, è un dono dello Spirito Santo, supportato dall’educazione e dall’esempio ricevuti, ci si può domandare come mai per costoro lo Spirito non abbia operato. Ma il nome di Gesù significa “Dio salva” e allora se tutto quello che Egli ha detto in merito alla salvezza è vero, come ci ha dimostrato Lui stesso con la Resurrezione, allora si può ben comprendere che non si può equivocare sul significato del principio “Extra Ecclesiam nulla salus” che, con altrettanta icasticità delle parole di Gesù, ci insegna che non può esserci salvezza al di fuori della Chiesa fondata da Cristo perché “mediante l’Incarnazione, Egli si è unito a tutti gli uomini in modo tale che non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (CCC 432, 433, 434). Lo hanno affermato i Padri della Chiesa, San Tommaso d’Aquino, i Concili, i Papi; perciò non possiamo nutrire dubbi sulla sua veridicità.
Ma che significa quel “per molti”, espressione usata da Gesù al momento di istituire il Sacramento dell’Eucaristia e recepita dall’Ordinario della S. Messa secondo il rito di S. Pio V, che ora la Liturgia Eucaristica del Messale Romano ha tradotto con“per tutti”? Questa formula deve intendersi in senso letterale, o piuttosto come una metonìmia, indicante cioè una parte per il tutto? Nel primo caso – che sembra avvalorato dalle stesse parole di Gesù che ho citato in epigrafe – è evidente che i “molti”non sono “tutti”, ma solo coloro che, avendo accettato il Vangelo, si saranno fatti battezzareNel secondo caso sembrerebbe che la salvezza eterna sia offerta a tutti e tutti raggiunga, che siano stati battezzati o no.  Il Catechismo della Chiesa Cattolica sembra interpretare quel “per molti” in senso non restrittivo, ma estenderlo all’insieme di tutta l’umanità perché con la Sua morte di Gesù “compie la redenzione definitiva degli uomini” (nn. 613-614) e  con la Sua incarnazione offre “a tutti la possibilità di venire in contatto , nel modo che Dio conosce, con il mistero Pasquale”. Al riguardo cita addirittura un’icastica immagine di S. Rosa da Lima: “Al di fuori della Croce non vi è altra scala per salire al cielo”(n. 618).
Sorge allora un serio e, secondo me, anche un po’ angoscioso interrogativo: che ne sarà di coloro che non hanno conosciuto Cristo ovvero, avendolo conosciuto, non hanno ricevuto la Grazia dello Spirito Santo? La Chiesa ha sempre insegnato che possono salvarsi anche coloro che, senza loro colpa, non lo abbiano conosciuto come, forse, l’umanità vissuta prima della Sua venuta o le popolazioni dei popoli indigeni prima del contatto con i cristiani, vale a dire coloro che sono vissuti osservando la legge eterna del diritto naturale che, nella tradizione ebraico – cristiana, si incarna nel Decalogo, ma è condivisibile da tutti i popoli di ogni civiltà e di ogni cultura. Ma chi, oggigiorno, tra le persone colte non cristiane non conosce Cristo e non ha mai sentito parlare di Lui? Forse che il Dalai Lama o il Gran Muftì di Gerusalemme non conoscono i fondamenti del Cristianesimo? Il grande poeta indiano Rabindranath Tagore, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1941 e il Mahatma Gandhi, entrambi induisti, furono affascinati dalla figura di Gesù ma non si convertirono, forse per il pessimo esempio ricevuto da tanti cristiani. Ma allora bisogna intendersi sull’esatto significato di “salvezza” perché se rifiutiamo di pensare che questi grandi uomini siano all’inferno, dobbiamo ammettere  che anche loro ora siano in Paradiso, ma così finiamo per contraddire il principio dogmatico che al di fuori della Chiesa non c’è salvezza.
Lo stesso Dante era ben consapevole di questa aporìa teologica, tanto è vero che, nella Divina Commedia, pone in una posizione speciale i “buoni” – come il suo “maestro” e “autore” Virgilio – i quali, essendo vissuti nei secoli precedenti la nascita del Redentore, non potevano averlo conosciuto. Costoro vivono nell’anti – inferno: non sono dannati, ma neppure beati; non “soffrono le pene dell’inferno”, ma neppure godono della visione beatifica di Dio. Secondo Dante, sono nel “limbo”, ipotesi che però non è mai stata fatta propria dalla Chiesa perché ritenuta lontana da diversi punti importanti della fede cristiana. Ma come ha osservato il Prof. Massimo Viglione – che rispose on line a un quesito da me postogli in questo senso e che ora mi guida nella mia riflessione – cosa siamo autorizzati a pensare dei grandi spiriti, sicuramente degni di stima e ammirazione, ma vissuti prima di Cristo come, per esempio, Aristotele? Quest’ultimo, non cristiano, non può essere in Paradiso, “ma possiamo immaginarcelo travolto dal fuoco eterno, lui, l’istitutore della logica umana fondata sul diritto naturale, il teorizzatore della dimostrabilità dell’Atto Puro (Dio), l’esplicatore del principio di causa – effetto su cui si regge il divenire nel tempo e nello spazio, il pensatore politico della politeia”?  E, aggiungo io, come tutti gli altri grandi spiriti dell’antichità greco – romana, da Omero a Platone, ai grandi tragici Eschilo, Sofocle ed Euripide, a Giulio Cesare, a Cicerone, ad Augusto, sulle cui opere è fondata la nostra civiltà? Io, cattolica “bambina”, concordo col Prof. Viglione nel dire che sarei felicissima di incontrarli nell’Aldilà, anche loro redenti. Ma non dipende da noi. E altrettanto dicasi per Tagore e per Gandhi, con la differenza che questi ultimi hanno ben conosciuto il Cristianesimo, ma lo Spirito Santo non li ha illuminati. Perché?
E che dire dei bambini morti senza Battesimo? A questo punto il discorso si fa sempre più difficile, ma anche più interessante e sempre di più stimola la mia curiosità sia umana che spirituale. Quale sarà il destino dei bambini  appartenenti a famiglie non cristiane, educati dai loro genitori secondo la loro fede e morti anzitempo, o esclusi dal Battesimo perché nati morti (come accadeva molto spesso, nei secoli passati, senza colpa dei genitori) o uccisi ancora allo stato embrionale (come invece accade spesso oggi), o abortiti, o vittime di infanticidio appena nati, o morti annegati nell’attraversamento del Mediterraneo, come purtroppo è successo spesso negli ultimi tempi? Non è certo per colpa loro che queste disgraziate creature hanno ignorato Cristo. A me piace pensare che il Padre, infinitamente più amorevole di qualunque padre terreno, non li abbandoni nello stato di “limbo” , ma se ha consentito che la Chiesa, con l’autorità conferitale da Lui stesso, proclamasse Santi e commemorasse il 28 dicembre gli “Innocenti Martiri”, ossia tutti quei bambini dai due anni in giù, coetanei di Gesù,  nati come Lui a Betlemme, uccisi dalla follia omicida di Erode, (Mt 2, 16), i quali non fecero in tempo a conoscere  quel loro piccolo coetaneo, Figlio di Dio, e a giocare con Lui, altrettanto farà con quelle disgraziate creature escluse dall’incontro con il Redentore,  non certo per loro colpa, ma a causa dell’egoismo e della crudeltà degli adulti.
Concludendo questa mia riflessione, mi rendo conto di sollevare una vera aporìa, ossia un problema teologico e filosofico enorme la cui soluzione, non solo è ben lontana dall’essere stata trovata,  ma forse non lo sarà mai e meno che mai potrà essere risolta da me, umilissima cattolica “bambina”. Se il principio “Extra Ecclesiam nulla salus” è fuori discussione, mi azzardo a pensare che la Parola di Cristo, anche se difficile e strettamente legata alla Croce, è la strada più certa e sicura per arrivare in Paradiso, anche spesso impervia e irta di difficoltà. Per quanto riguarda tutte le altre strade … beh, anche in questo concordo con il Prof. Viglione: non poniamoci troppi problemi e lasciamo fare a Dio che sa bene quello che fa e non sbaglia mai. Negare l’esistenza dell’inferno è eresia, ma è eresia anche pensare che  le altre religioni siano del pari salvifiche, anche se è un’opinione molto diffusa e non sufficientemente contrastata da chi avrebbe il potere e l’autorità per farlo. La stessa Madre di Dio ha mostrato l’inferno ai bambini di Fatima ma la Chiesa, se ha il potere di proclamare i Santi e di venerarli nel giorno del loro transitus, non ha mai steso un elenco dei dannati, né cristiani né pagani, perché esso è di competenza solo di Dio. Quindi fidiamoci ciecamente della saggezza di Lui, infinitamente superiore alla nostra,  preghiamoLo affinché mandi lo Spirito Santo a tutti i nostri fratelli in umanità e lodiamo Gesù Cristo, rimanendo sempre abbarbicati a Lui.
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[1] Questa prassi, motivata (si dice) dal fatto che la mortalità infantile è stata praticamente sconfitta, mi lascia molto perplessa sull’effettiva fede dei genitori. Chi ha la gioia di diventare padre e madre non dovrebbe essere ansioso e felice  di vedere il proprio bambino diventare il più presto possibile cristiano, figlio di Dio, membro della Chiesa , ricevendo la Grazia Santificante? Invece neppure i parroci invitano a un Battesimo sollecito per raggruppare parecchi bambini in un’unica cerimonia rallegrata da applausi come in un teatro. E’ il segno dei tempi.

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