ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 23 gennaio 2016

La Chiesa con la lettera minuscola

IL GRANDE EQUIVOCO DI HÄRING

 Ma in che senso la Chiesa è per il mondo? Il grande equivoco di Bernhard Häring. H. è stato uno dei massimi ispiratori del Concilio Vaticano II e ha esercitato una vasta influenza nel clima spirituale di quella fase storica                   
di Francesco Lamendola  


 Il tedesco Bernhard Häring (1912-1998), da alcuni considerato come uno dei più grandi, se non il più grande, teologo morale cattolico del XX secolo, è stato, senz’altro, uno dei massimi ispiratori e animatori del Concilio Vaticano II, e ha esercitato una vasta influenza nel clima spirituale di quella fase storica, ovviamente in senso “progressista” e “modernizzatore”. In particolare, si può considerare come l’ispiratore di uno dei documenti conciliari più importanti, la costituzione dogmatica «Gaudium et Spes», dedicata al rapporto fra la Chiesa e il mondo moderno.
Di che pasta fosse fatto, a chi piacesse e a chi piacesse meno, come teologo e come sacerdote, Bernhard Häring, lo si vide quando i nodi postconciliari vennero al pettine: il che accadde abbastanza presto, precisamente il 25 luglio del 1968, quando papa Paolo VI promulgò solennemente l’enciclica «Humanae vitae» (l’ultima del suo pontificato e della sua vita), dedicata alle questioni relative al matrimonio e alla famiglia cristiana. Häring manifestò apertamente il suo profondo dissenso, specialmente per la parte riguardante la condanna di tutti i metodi contraccettivi non naturali, dall’aborto, alla sterilizzazione, alla contraccezione. Fu quella la pietra dello scandalo per i molti cattolici progressisti che non esitarono a dichiarare tutta la loro contrarietà e a stracciarsi le vesti davanti alla “chiusura” e al “conservatorismo” del papa: un tipo di atteggiamento che nessun fedele e nessun membro del clero si era mai permesso di avere, fino a quel momento, nei confronti di nessuno dei pontefici e di nessun documento ufficiale del Magistero ecclesiastico; o, se pure qualcuno lo aveva fatto, si era posto, automaticamente, al di fuori della Chiesa cattolica e ne aveva affrontato le conseguenze. Adesso, invece, la contestazione montava dal basso e anche dall’alto; era aperta, dichiarata, gridata; ad essa si unirono parecchi vescovi e, a partire da quel momento, il principio della gerarchia venne irreparabilmente incrinato, e si fece strada rapidamente, dentro la Chiesa, una nuova tendenza, di tipo “democratico”, secondo la quale i credenti, senza troppe cerimonie, possono dissentire e rifiutare quel che dice il papa; e i vescovi possono fare lo stesso, incuranti di seminare confusione o scandalo tra i fedeli, perché la Verità che essi vedono sta al di sopra di tutto il resto.
Ci si domanda se tutto questo abbia qualcosa a che fare con la teologia di uomini come Bernhard Häring, sostenitori del dialogo a oltranza con il mondo moderno. Nella costituzione pastorale «Gaudium et Spes» (approvata, per la cronaca, non all’unanimità, ma con 2.307 sì e 75 no dei vescovi presenti al Concilio), e promulgata da Pio VI l’8 dicembre 1965, ossia proprio l’ultimo giorno dei lavori conciliari - circostanza invero significativa, come se si volesse troncare definitivamente una discussione che, forse, avrebbe meritato ulteriori approfondimenti - si afferma che la Chiesa deve aprire un dialogo proficuo con il mondo contemporaneo e con la cultura moderna. Si riconosce che il mondo si allontana spesso dalla morale cristiana, e, nondimeno, si dice che esso è pur sempre opera di Dio e che Dio, quindi, vi manifesta la sua presenza; e si conclude che i cristiani, a cominciare dai laici, devono riallacciare rapporti di collaborazione con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose: e questo specialmente sui temi della pace, la giustizia, la libertà e la ricerca scientifica. A noi sembra che, in queste proposizioni, si celi un tremendo equivoco, forse non visto, forse visto e tuttavia promosso allo scopo di forzare, dall’interno, la strategia complessiva della Chiesa nei confronti del mondo.
In ogni caso, ciascuno può andare a rileggersi quel documento, e trarne le conclusioni che gli sembrano giuste; noi, in questa sede, ci limiteremo a riportare una pagina del teologo Häring, dedicata proprio a questo specifico tema, in modo da esplicitare le idee di questo autore, dato che, a differenza della costituzione pastorale, sono state scritte esclusivamente di suo pugno (da: B. Häring, «Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici.» (titolo originale: «Free and Faithful in Christ. Moral Theology for Priest and Laity. III. You arte the Light for the World», 1978-81; traduzione  dall’inglese di Carlo Danna,  Roma, Edizioni Paoline, III, 1981, pp. 170-172):

«Esistono indubbiamente dei principi e degli atteggiamenti permanenti e sempre vincolanti nel rapporto tra chiesa e mondo. La norma e il criterio è costituito dal rapporto di Dio verso il mondo, quale ci è  rivelato in Gesù Cristo. Egli viene come Redentore e offre la medicina nella sua qualità di servo. E benché sia stato glorificato dal Padre, vuole che la chiesa da lui fondata continui la sua missione e la sua presenza quasi sacramentale al mondo e sia una chiesa che lo segue radicalmente come una che serve.
Il mondo non è per la chiesa; piuttosto la chiesa è per il mondo. Come dice bene un eminente teologo ortodosso: “L’ecclesiologia, se non viene vista nella sua vera prospettiva cosmica (”per la vita del mondo”), se non viene vista come la forma cristiana della “cosmologia”, è sempre ecclesiolatria: una chiesa esistente “in se stessa” e non (come dovrebbe essere) la nuova relazione tra Dio, l’uomo e il mondo”(A. Schmemann, “For the Life of World”, New York, 1968, p.  68).
In forza della chiamata e della grazia divina la chiesa è “santa”, ma anche “mondo” nei significati biblici del termine. Essa è quella parte privilegiata del mondo, in cui l’accettazione divina dovrebbe diventare chiaramente visibile ed efficace. Ma i detentori dell’ufficio e le strutture della chiesa possono anche manifestare il rifiuto di Cristo servo e quindi il rifiuto del modo in cui Dio accetta il mondo. Nella chiesa e per la chiesa vi è la pienezza delle redenzione, ma possono coesistervi anche i segni della solidarietà nel peccato:. Essa non è sempre e dappertutto semplicemente la “civitas Dei”; essa è sempre chiamata (“ekklesia”) da Dio a uscire dal mondo peccaminoso verso la santità. E questa chiamata e grazia rende il peccato nella chiesa ancor più peccaminoso. La chiesa del Verbo incarnato può legittimamente integrare alcune forme di pensiero e strutture della cultura e della società concretamente esistenti. Ci sono molte cose che essa può giustamente assumere dal mondo Il Concilio Vaticano II , dopo aver riflettuto sull’aiuto che la chiesa è in grado di offrire agli individui, alla società e alle attività umane, parla esplicitamente dell’”aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo” (“Gaudium et Spes”, 44). Essa non ha il monopolio di tutto ciò che è vero, buono e bello; si rende sempre meglio conto di come la sua storia  sia intessuta con quella di tutto il mondo.
Dovendo essere visibile ed efficace, la chiesa ha bisogno di strutture istituzionali  che possono s’ cambiare secondo le mutevoli condizioni storiche e sociali, ma anche rendersi in qualche misura indipendenti dal loro scopo originario. Gli elementi istituzionali possono diventare sovraccarichi a spese della missione e così via. In tempi di persecuzione e, in modo diverso, nei periodi spiritualmente spiritualmente vigorosi le strutture istituzionali possono essere ridotte al minimo, mentre la vita di fede e la testimonianza dei membri della chiesa possono essere eccellenti.
Ma la chiesa è sempre una “socialis compago” (“Lumen Gebtium”, 8), un’entità sociale visibile.. “Lo voglia o no, la chiesa, in quanto entità sociale,  è una realtà che ha un certo impatto sul campo sociale e politico, è un “sociologicum”, un “politicum” e anche un “oeconomicum” di peso considerevole. Questo peso non fa parte dell’essenza della chiesa; il cristianesimo   dei primi tempi non lo possedeva; ma oggi esso esiste su scala mondiale, benché in forma e gradi diversi nelle diverse parti del mondo.  In tutti questo settori la chiesa non può, anche se lo volesse,  evitare che la sua azione e le sue omissioni esercitino una notevole influenza.   Da ciò derivano una serie di responsabilità, che abbracciano tutto   il campo dell’interazione tra chiesa e mondo”.  (O. von Nell-Breuning, “Soziale Sicherheit? Ecc.”, Freiburg, 1979, p.  202).»

Dunque, vediamo. Per Häring la Chiesa (che egli scrive sempre con la lettera minuscola) è una parte del mondo: quella che ha deciso di accettare fedelmente la parola di Dio. Aggiunge che il criterio di fedeltà a Dio della Chiesa è che essa si rivolga al mondo nella maniera in cui gli si è rivolto Dio; e che il mondo non è per la chiesa, ma il contrario. Ma qual è il modo in cui Dio si è rivolto al mondo? Gli si è rivolto, nella persona di Cristo, in qualità di servo; dunque, anche la chiesa deve servire. Benissimo. Dal Vangelo, però, non risulta affatto che Cristo si considerasse servo del mondo; al contrario, si considerava (come nella lavanda dei piedi, durante l‘Ultima Cena) servo dei suoi discepoli, cioè servo della chiesa stessa. Dunque, non è vero che la chiesa è, semplicemente, quella parte del mondo che ha accolto la parola di Dio: essa è molto di più; è l’incarnazione visibile dell’amore di Dio sulla terra, che non santifica, di per se stesso, il mondo così com’è, ma, al contrario, lo chiama alla conversione e al mistero della Redenzione. Al mistero, ripetiamo (Häring è assai restio ad usare questa parola, che pure è una parola-chiave della teologia cattolica): perché l’uomo non si salva da solo; se così fosse, non vi sarebbe il peccato e non vi sarebbe alcuna necessità della Grazia e dell’azione salvifica di Dio.
Poi Häring dice che, nella Chiesa, i detentori dell’ufficio e le strutture ecclesiali possono diventare peccaminosi, se rifiutano di amare il mondo come Dio lo ha amato; e già questo ci sembra un grosso errore teologico. La Chiesa, in quanto struttura umana (e solo in quanto struttura umana) può, certamente errare e peccare: ma il peccato più grave che essa può commettere è quello di tradire la parola di Dio, e non quello di rivelarsi manchevole nella sua applicazione pratica. Per fare un esempio concreto: papa Alessandro VI Borgia errò certamente nella condotta pratica e fu, da quel punto di vista, un cattivo cristiano, cioè un peccatore; ma non errò, come papa, nella proclamazione e nella difesa della dottrina cristiana: e questo sarebbe stato un peccato molto più grave, una infedeltà ben più terribile rispetto a Dio. Fa qui capolino una tendenza, tipicamente protestante, di certo cattolicesimo post-conciliare (a proposito: quel che pensa Häring del Concilio e del post-Concilio è riassunto nel titolo di uno dei suoi numerosissimi libri: «Il Concilio comincia adesso»; la data?, il 1966, cioè un anno dopo la fine dei lavori): quella secondo la quale il buon cristiano deve essere un “santo”, deve avere una vita esemplare, tale da testimoniare, da se stessa, la fedeltà al Vangelo. Questo, a nostro avviso, è un altro errore teologico. Ben lungi dal negare che il cristiano sia chiamato alla santità, neghiamo però recisamente che tale obiettivo sia il segno irrinunciabile dell’essere cristiani: il cristiano non è colui che riesce ad essere santo, anche perché non ci riesce nessuno, se non con la grazia speciale di Dio; ma colui che si sforza di seguire il Vangelo, evitando di stravolgerlo secondo le sue personali aspettative e adattandolo ai suoi personali intendimenti (ricordiamo le tre tentazioni di Cristo nel deserto, al principio della sua vita pubblica). Il cristiano non è mai pienamente giusto, non è mai giustificato davanti a Dio, fino all’ultimo istante ella sua vita: pensare una cosa del genere, significherebbe tornare all’ebraismo, alla Legge mosaica, secondo la quale chi osserva i comandamenti in modo ineccepibile, è giustificato davanti a Dio. Ma, di nuovo: in tal caso, non c’era bisogno dell’Incarnazione; come osserva san Paolo (nella Lettera ai Romani), Cristo si è fatto uomo proprio per salvare gli uomini, i quali, davanti alla Legge, sono tutti inesorabilmente peccatori.
Quando, poi, Häring sostiene che la Chiesa può integrare alcune forme di pensiero e strutture della società moderna, si mette su un terreno insidiosissimo; e che non sia uno scivolone involontario, lo ribadisce quando afferma che la Chiesa riceve aiuto dal mondo contemporaneo (citando la «Gaudium et Spes», ossia citando se stesso). E qui torniamo al punto iniziale: alla «Gaudium et Spes», appunto. Il fatto che il mondo sia opera di Dio, non significa, di per sé, che vi si rifletta la sua presenza, se non in senso molto generale: anche nel Paradiso terrestre si riflette la presenza di Dio, ma ciò non toglie che Adamo ed Eva abbiano peccato e volto le spalle all’amore di Dio. Il mondo ha voltato le spalle all’amore di Dio: negare questo fatto, significa non saper leggere la storia moderna. In nessun modo si può sminuire questo fatto: vi sono una alternativa e una opposizione radicale fra il mondo e la comunità dei cristiani, cioè la Chiesa: non si possono servire entrambi i padroni. Bisogna scegliere. Häring parla delle persecuzioni come di eventi lontani: evidentemente, gli sfugge che il XX secolo è stato l’epoca delle persecuzioni per antonomasia, e che nel mondo moderno, a partire dalla Rivoluzione francese in poi, passando per l’Unione Sovietica e la Cina comunista, sono stati perseguitati, torturati e uccisi molti più cristiani che in tutte le epoche precedenti.  Häring legge la storia con un occhio solo: il sinistro. Quello che non conviene alla sua lettura della realtà storica e sociale, lo ignora addirittura; così come non vede ciò che contraddice la sua lettura, faziosa e parziale, del Vangelo.
La «Gaudium et Spes» rivolge un appello ai cristiani, e specialmente ai laici, affinché collaborino con tutte le persone di buona volontà sulle questioni riguardanti la pace, la giustizia, la libertà e la scienza. Son questioni importanti, senza dubbio; ma il cristiano non può affrontarle con spirito laico, come se fossero questioni puramente umane. Sono questioni, come tutte le questioni umane, che investono anche la dimensione soprannaturale, perché l’uomo è collegato a Dio, ha bisogno di Dio e cerca in Dio l’indicazione, la guida e il conforto per affrontare il suo cammino terreno. Ora, quel che sta facendo la Chiesa, oggi, sulle orme di quanto auspicato da teologi come Häring, è “collaborare” con il mondo moderno su singoli temi non religiosi, o di etica non religiosa, attinenti la dimensione politica e sociale. Eppure, è un fatto che essi vengono continuamente strumentalizzati e risucchiati in una prospettiva, in un modo di agire, che non sono quelli propriamente cristiani. Per fare un esempio: la loro presenza è ben accetta quando si tratta di rivendicare diritti per le minoranze, o per i singoli individui: diritti ad ampliare la sfera delle libertà, delle garanzie, di ciò che è legittimo. Però non è gradito che essi esprimano a voce alta il loro dissenso riguardo alla negazione del diritto alla vita mediante l’aborto, o riguardo lo stravolgimento del significato della famiglia, mediante il riconoscimento del matrimonio omosessuale e l’adozione di bambini da parte delle coppie omosessuali. Di fatto, è da un pezzo che i cattolici, anche quelli molto attivi nella vita sociale e politica, hanno smesso di parlare dell’aborto: si sono rassegnati e adattati, puramente e semplicemente. In compenso, non si astengono dal dire la loro, anche con petulanza, quando si tratta di alzare la voce contro regimi o partiti politici che essi, da un punto di vista progressista (che non è il punto di vista cristiano, perché le categorie ideologiche sono estranee alla prospettiva cristiana), considerano inaccettabili, e la cui sola esistenza procura loro conati di vomito. Insomma: non aprono bocca di fronte all’uccisione quotidiana di migliaia di nascituri; ma ritengono un sacro dovere, precisamente in quanto cristiani, manifestare in piazza contro partiti legalmente costituiti o contro governi democraticamente eletti, solo perché da loro giudicati “reazionari”. Questa è una totale distorsione del concetto dell’impegno cristiano nel mondo politico-sociale: e le sue radici vanno individuate nell’approccio secolarista e laicista di teologi come Häring.
Questi signori hanno creduto di sfruttare il vento in poppa quando pareva, negli anni Sessanta del secolo scorso, che esso soffiasse irresistibilmente verso sinistra, cioè verso il comunismo. Hanno fatto i salti mortali per mettersi al passo coi tempi, per non apparire in ritardo, insensibili alle questioni sociali; dimenticando che la chiesa si occupa da duemila anni di questioni sociali, ma in forma non politica; e che è stato mille volte miglior educatore e miglior pastore un don Bosco, che ha dedicato la sua vita ai ragazzi difficili, che un don Milani, che ha saputo solo polemizzare con i suoi superiori e incitare i suoi fedeli alla disobbedienza e allo spirito di contestazione contro le autorità civili e religiose. Tutti costoro han voluto far vedere che erano più “aperti”, più “moderni” e “dialoganti” di chiunque altro; e hanno smesso di amare la propria identità, il messaggio specifico di cui erano portatori. Per parlare al mondo, si sono scordati che lo spirito del mondo è per forza di cose nemico del Vangelo, essendo lo spirito di attaccamento, di egoismo e di peccato, proprio della natura umana lontana dalla luce della Rivelazione. Perciò, anche l’enfasi sulla collaborazione con gli atei e con i seguaci delle altre religioni, non è sempre moneta buona, come potrebbe sembrare: si dimentica di dire che il cristianesimo è la trasmissione della Verità, non di una verità; e che le altre verità, per forza di cose, non possono essere tali, se si pongono fuori e contro di esso. Una cosa, pertanto, è collaborare con tutti gli uomini di buona volontà; e un’altra cosa, ben diversa, è che tutte le strade portino a Roma. Questo è un altro gravissimo errore teologico: così grave da configurarsi come apostasia. Cristo ha detto di se stesso di essere la Via, la Verità e la Vita; e che chi segue lui, arriva alla casa del Padre; chi lo rifiuta, no. Ignorare questo aspetto, vuol dire essere fuori del cristianesimo. Si può dialogare con il mondo; ma non si può fare finta che anch’esso porti a Dio…



Ma in che senso la Chiesa è “per il mondo”? Il grande equivoco di Bernhard Häring

di Francesco Lamendola

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