Lo “storico” incontro tra Francesco e Kirill
(di Roberto de Mattei) Tra i tanti successi attribuiti dai mass-media a papa Francesco, c’è quello dello “storico incontro”, avvenuto il 12 febbraio a L’Avana, con il patriarca di Mosca Kirill. Un avvenimento, si è scritto, che ha visto cadere il muro che da mille anni divideva la Chiesa di Roma da quella di Oriente.
L’importanza dell’incontro, secondo le parole dello stesso Francesco, non sta nel documento,
di carattere meramente “pastorale”, ma nel fatto di una convergenza verso una meta comune, non politica o morale, ma religiosa.
Al Magistero tradizionale della Chiesa, espresso da documenti, papa Francesco sembra dunque voler sostituire un neo-magistero, veicolato da eventi simbolici. Il messaggio che il Papa intende dare è quello di una svolta nella storia della Chiesa. Ma è proprio dalla storia della Chiesa che occorre partire per comprendere il significato dell’avvenimento. Le inesattezze storiche sono infatti molte e vanno corrette perché è proprio sui falsi storici che spesso si costruiscono le deviazioni dottrinali.
Innanzitutto non è vero che mille anni di storia dividono la Chiesa di Roma dal Patriarcato di Mosca, visto che questo è nato solo nel 1589. Nei cinque secoli precedenti, e prima ancora, l’interlocutore orientale di Roma era il Patriarcato di Costantinopoli. Nel corso del Concilio Vaticano II, il 6 gennaio 1964, Paolo VI incontrò a Gerusalemme il patriarca Atenagora per avviare un “dialogo ecumenico” tra il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Questo dialogo non è riuscito ad andare avanti a causa della millenaria opposizione degli ortodossi al Primato di Roma. Lo stesso Paolo VI lo ammise in un discorso al Segretariato dell’Unità per i cristiani del 28 aprile 1967, affermando: «Il Papa, noi lo sappiamo bene, è senza dubbio l’ostacolo più grande sul cammino dell’ecumenismo» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, pp. 192-193).
Il patriarcato di Costantinopoli costituiva una delle cinque sedi principali della cristianità stabilite dal Concilio di Calcedonia del 451. I patriarchi bizantini sostenevano però che dopo la caduta dell’Impero romano, Costantinopoli, sede del rinato Impero romano d’Oriente, sarebbe dovuta divenire la “capitale” religiosa del mondo. Il canone 28 del Concilio di Calcedonia, abrogato da san Leone Magno, contiene in germe tutto lo scisma bizantino, perché attribuisce alla supremazia del Romano Pontefice un fondamento politico e non divino. Per questo nel 515, papa Ormisda (514-523) fece sottoscrivere ai vescovi orientali una Formula di Unione, con cui essi riconoscevano la loro sottomissione alla Cattedra di Pietro (Denz-H, n. 363).
Tra il V e il X secolo, mentre in Occidente si affermava la distinzione tra l’autorità spirituale e il potere temporale, in Oriente nasceva intanto il cosiddetto “cesaropapismo”, in cui la Chiesa viene di fatto subordinata all’Imperatore che se ne ritiene il capo, in quanto delegato di Dio, sia nel campo ecclesiastico che in quello secolare. I patriarchi di Costantinopoli erano di fatto ridotti a funzionari dell’Impero bizantino e continuavano ad alimentare un’avversione radicale per la Chiesa di Roma.
Dopo una prima rottura, provocata dal patriarca Fozio nel IX secolo, lo scisma ufficiale avvenne il 16 luglio 1054, quando il patriarca Michele Cerulario dichiarò Roma caduta nell’eresia per motivo del “Filioque” ed altri pretesti. I legati romani deposero allora contro di lui la sentenza di scomunica sull’altare della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. I principi di Kiev e di Mosca, convertiti al Cristianesimo nel 988 da san Vladimiro, seguirono nello scisma i patriarchi di Costantinopoli, di cui riconoscevano la giurisdizione religiosa. Le discordie sembravano insormontabili ma un fatto straordinario avvenne il 6 luglio 1439 nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, quando il Papa Eugenio IV, annunciò solennemente, con la bollaLaetentur Coeli (“che i cieli si rallegrino”), l’avvenuta ricomposizione dello scisma fra le Chiese di Oriente e di Occidente.
Nel corso del Concilio di Firenze (1439), al quale avevano partecipato l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo e il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, si era trovato l’accordo su tutti i problemi, dal Filioque al Primato Romano. La Bolla pontificia si concludeva con questa solenne definizione dogmatica, sottoscritta dai Padri greci: «Definiamo che la santa Sede apostolica e il Romano pontefice hanno il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice è il successore del beato Pietro principe degli apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che Nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pp. 523-528).
Fu questo l’unico vero storico abbraccio tra le due chiese nel corso dell’ultimo millennio. Tra i più attivi partecipanti al Concilio di Firenze, c’era il metropolita di Kiev e di tutta la Russia, Isidoro. Appena tornato a Mosca egli diede pubblico annuncio della avvenuta riconciliazione sotto l’autorità del Romano pontefice, ma il principe di Mosca, Vasilij il Cieco, lo dichiarò eretico e lo sostituì con un vescovo a lui sottomesso. Questo gesto segnò l’inizio dell’autocefalia della chiesa moscovita, indipendente non solo da Roma ma anche da Costantinopoli. Poco dopo, nel 1453, l’Impero bizantino fu conquistato dai Turchi e travolse nel suo crollo il patriarcato di Costantinopoli. Nacque allora l’idea che Mosca dovesse raccogliere l’eredità di Bisanzio e divenire il nuovo centro della Chiesa cristiana ortodossa. Dopo il matrimonio con Zoe Paleologo, nipote dell’ultimo Imperatore d’Oriente, il Principe di Mosca Ivan III si diede il titolo di Zar e introdusse il simbolo dell’aquila bicefala. Nel 1589 fu costituito il Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia. I Russi diventavano i nuovi difensori dell’“ortodossia”, annunciando l’avvento di una “Terza Roma”, dopo quella cattolica e quella bizantina.
Di fronte a questi eventi, i vescovi di quella zona che allora si chiamava Rutenia e che oggi corrisponde all’Ucraina, e a una parte della Bielorussia, si riunirono, nell’ottobre 1596, nel Sinodo di Brest e proclamarono l’unione con la sede romana. Essi sono conosciuti come, Uniati, a motivo della loro unione con Roma, o Greco-cattolici, perché, pur sottomettendosi al Primato romano, conservavano la liturgia bizantina.
Gli zar russi intrapresero una persecuzione sistematica della Chiesa uniate che, tra i tanti martiri, annoverò il monaco Giovanni (Giosafat) Kuncevitz (1580-1623), arcivescovo di Polotzk, e il gesuita Andrea Bobola (1592-1657), apostolo della Lituania. Entrambi furono torturati e uccisi in odio alla fede cattolica e oggi sono venerati come santi. La persecuzione si fece ancora più aspra sotto l’impero sovietico. Il cardinale Josyp Slipyj (1892-1984), deportato per 18 anni nei lager comunisti, fu l’ultimo intrepido difensore della Chiesa cattolica ucraina.
Oggi gli Uniati costituiscono il più numeroso gruppo di cattolici di rito orientale e costituiscono una testimonianza vivente dell’universalità della Chiesa cattolica. È ingeneroso affermare, come fa il documento di Francesco e Kirill, che il «metodo dell’uniatismo», inteso «come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa», «non è un modo che permette di ristabilire l’unità» e che «non si può quindi accettare l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni».
Il prezzo che papa Francesco ha dovuto pagare per queste parole richieste da Kirill è molto alto: l’accusa di “tradimento” che ora gli viene rivolta dai cattolici uniati, da sempre fedelissimi a Roma. Ma l’incontro di Francesco con il patriarca di Mosca va ben oltre quello di Paolo VI con Atenagora. L’abbraccio a Kirill tende soprattutto ad accogliere il principio ortodosso della sinodalità, necessario per “democratizzare” la Chiesa romana. Per quanto riguarda non la struttura della Chiesa, ma la sostanza della sua fede, l’evento simbolico più importante dell’anno sarà forse la commemorazione da parte di Francesco dei 500 anni della Rivoluzione protestante, prevista per il prossimo ottobre a Lund, in Svezia. (Roberto de Mattei)
«L’Ucraina ha subito un altro cinico colpo di Stato».Le accuse che fanno tremare Kiev
La follia, che ha portato molti commentatori e giornalisti a definire l’Ucraina “un grande circo”, si è consumata nella serata di ieri. Dopo una lunga giornata, piena di tira e molla, rumors politici sulla caduta di Arsenij Yatsenyuk e richieste di dimissioni pubbliche, alla fine la Rada ha deciso di graziare il primo ministro e leader del Fronte Popolare. Mentre nella piazza antistante al Parlamento quasi 5.000 persone si erano riunite per chiedere a gran voce le dimissioni del premier, all’interno dell’aula parlamentare si è consumato un piccolo giallo.
Intorno alle 16 ora locali Yatsenyuk si è presentato davanti ai “deputati del popolo”, leggendo la relazione sull’attività del proprio governo, sciorinando numeri e aumentando le stime sull’economia. Tutto vanamente, perché qualche minuto dopo l’aula ha votato, bocciando la relazione del primo ministro con 247 voti a favore (il minimo richiesto era 226). Nel frattempo nei corridoi della Rada si raggiungeva il numero necessario di 158 firme (il minimo richiesto era 150, in questo caso) per la discussione di una mozione di sfiducia nei confronti del governo. E’ a quel punto che tutti hanno pensato allo scenario più scontato: governo dichiarato insoddisfacente, sfiducia e tutti a casa.
E invece no, perché alle nove di sera, quando lo speaker Volodomyr Groismann ha posto in votazione la mozione, i deputati che hanno votato a favore sono stati solo 194. Un numero insufficiente per dimissionare Yatsenyuk (il minimo richiesto era 226). Così adesso Kiev si ritrova di fronte a un paradosso, con un governo ritenuto insoddisfacente dallo stesso Parlamento che non vuole sfiduciarlo. «L’Ucraina – ha scritto stamattina Bloomberg in un lungo articolo – si sta dirigente verso una situazione di stallo tra i due uomini politici più potenti […] il risultato sta mettendo a repentaglio l’economia e miliardi di dollari di aiuti esteri».
Ora, infatti, una nuova mozione di sfiducia per rimuovere Yatsenyuk, secondo la Costituzione ucraina, potrà essere solo alla fine di questa sessione del parlamento, che si concluderà soltanto nel mese di luglio «Gli ucraini e i sostenitori stranieri – si legge ancora nell’articolo di Bloomberg – stanno perdendo la pazienza a causa dei ritardi nella lotta alla corruzione, alla modernizzazione del paese e alla recessione dell’economia».
Ora, infatti, una nuova mozione di sfiducia per rimuovere Yatsenyuk, secondo la Costituzione ucraina, potrà essere solo alla fine di questa sessione del parlamento, che si concluderà soltanto nel mese di luglio «Gli ucraini e i sostenitori stranieri – si legge ancora nell’articolo di Bloomberg – stanno perdendo la pazienza a causa dei ritardi nella lotta alla corruzione, alla modernizzazione del paese e alla recessione dell’economia».
Secondo Dmitry Polevoy, capo economista per la Russia e i paesi della CIS del colosso bancario-assicurativo ING, «il processo politico in Ucraina ha chiaramente bisogno di essere razionalizzato, per consentire al paese di rimettere in moto l’afflusso di finanziamenti esterni da parte del FMI e altri creditori ufficiali».
Anche perché l’economia ucraina rimane fragile. Il paese è in recessione da 18 mesi consecutivi, la grvina, la moneta nazionale, nei primi due mesi di quest’anno ha già perso il 10 per cento del proprio valore e sullo sfondo aleggia lo spettro di una causa internazionale contro la Russia per il rimborso mai eseguito dei 3 miliardi di Bond emessi da Mosca poco prima della caduta di Yanukovich.
Nelle ultime ore lo scenario politico è addirittura peggiorato. Le prime uscite dalla coalizione di maggioranza sono state quelle di Patria, di Yulia Tymoshenko, e di Samopomich, il partito del sindaco di Lviv. «L’Ucraina – ha scritto Samopomich in una nota – ha subito un colpo di Stato cinico, organizzato dal presidente, il primo ministro, la parte cleptocratica della coalizione e il blocco degli oligarchi. Ogni regola di normalità è stata ignorante. Il processo è stato governato dall’inganno, la tirannia, la dipendenza dal denaro e dalla completa ignoranza dei bisogni della gente».
Quanto successo ha fornito un assist anche a Mikhail Saakashvili, che da mesi sta tramando per sostituire Yatsenyuk. «Ieri è stato restaurato il vecchio regime», ha scritto sulla propria pagina Facebook. «Nel paese – ha continuato – c’è stato un colpo di Stato oligarchico. Akhmetov gli altri hanno ancora una volta preso il controllo della situazione nelle proprie mani».
di Eugenio Cipolla
Papa Francesco non piace all'Espresso interventista e
imperiale
di Bruno Steri*
(Marx21)
(Marx21)
La politica internazionale è storicamente stata per i comunisti un dirimente banco di prova per definire i tratti distintivi della propria identità (della propria "diversità") e per decidere chi debba essere o no un loro alleato: guerre e crediti di guerra hanno separato i destini di socialisti (pacifisti inconseguenti e perfino guerrafondai) e comunisti (coerentemente pacifisti e antimperialisti). La storia si ripete.
L'articolo de L'Espresso che pubblichiamo qui di seguito è un esempio di ciò - tanto più allarmante in quanto proposto appunto da un foglio che nell'opinione diffusa non è di destra, ma di fatto collocabile sul versante di centro-sinistra - dove non si esita a usare toni sprezzanti nei confronti della massima autorità cattolica, papa Francesco, colpevole di ricercare soluzioni che sventino il precipitare di una deflagrazione bellica planetaria. Leggere questo pezzo è più che inquietante, ma comunque istruttivo per misurare le dimensioni attuali di un rischio di cui purtroppo non vi è oggi chiara consapevolezza.
L'articolo de L'Espresso che pubblichiamo qui di seguito è un esempio di ciò - tanto più allarmante in quanto proposto appunto da un foglio che nell'opinione diffusa non è di destra, ma di fatto collocabile sul versante di centro-sinistra - dove non si esita a usare toni sprezzanti nei confronti della massima autorità cattolica, papa Francesco, colpevole di ricercare soluzioni che sventino il precipitare di una deflagrazione bellica planetaria. Leggere questo pezzo è più che inquietante, ma comunque istruttivo per misurare le dimensioni attuali di un rischio di cui purtroppo non vi è oggi chiara consapevolezza.
L’articolo colpisce per il tono, oltre che per le consuete menzogne di regime. Non va proprio giù al nostro opinionista la riconciliazione del mondo cattolico con la Chiesa ortodossa, sugellata dall’incontro del papa con il patriarca russo Kirill. Un incontro che, per colmo di sfrontatezza, si è deciso di celebrare a L’Avana, in territorio per così dire neutrale, “dove in realtà di libero e di neutrale non c’è nulla”!
Non si sopporta che Bergoglio, in questa sua attenzione per la Cuba rivoluzionaria, sia recidivo; e che lo scorso settembre, in occasione di un’altra sua visita, ”non vi compì uno solo dei tanti gesti di ‘misericordia’ che semina ovunque” nei confronti degli anticastristi e delle loro famiglie. Cotanto nostrano risentimento sarebbe forse stato placato se papa Francesco avesse fatto tappa a Miami, anziché a L’Avana, e fosse andato ad omaggiare la mafia anticastristra e il terrorista Posada Carriles ivi rifugiato sotto la protezione della Cia.
Ma il dato più insopportabile per questo contributo “embedded” è che Bergoglio non si curi del fatto che dietro la Chiesa ortodossa si profili l’ombra della Russia di Putin, cioè – secondo l’articolo – del “primo attore” quanto ad attività bellica in Ucraina e in Medio Oriente. Ci si scandalizza del fatto che “per Francesco l’abbraccio con il patriarca di Mosca vale di più, come segno di pace, che dar retta alle popolazioni cattoliche di quelle regioni”. E qui la disinformazione di regime raggiunge il suo culmine. Ovviamente, per questi signori quel che succede in Ucraina non è determinato dal colpo di stato che, su ispirazione dei servizi segreti dell’Occidente e degli Usa in particolare, ha insediato al centro del continente europeo un regime para nazista; ma dalle “mire egemoniche” della Russia di Putin. E, parimenti, in Medio Oriente – a sentir l’articolo - le popolazioni cattoliche non sono insidiate, violentate dalle orde barbariche dell’Isis e di Al Qaida, ma (sic!) dall’intervento russo (ricevuto invece proprio da quelle popolazioni cattoliche se non proprio come una liberazione almeno come un primo concreto contrasto alla furia jhadista).
Ma la “geopolitica di Francesco” non piace per nulla a L’Espresso: “la giornata di preghiera e digiuno indetta dal papa nel settembre del 2013 per scongiurare ogni intervento armato occidentale in Siria” fa il paio con “la rinuncia di Barack Obama ad abbattere il regime sciita di Damasco”. Il papa ha così mostrato di non volere un intervento militare dell’Occidente per abbattere Assad: “la diplomazia vaticana lega molto più con l’asse sciita che ha il suo epicentro in Iran, specie dopo l’accordo sul nucleare, che con il mondo sunnita”. Quel mondo sunnita – aggiungiamo noi – che, con Arabia Saudita, Qatar e Turchia in testa, ha foraggiato con soldi e armi il terrorismo dell’Isis.
Immaginiamo che giornali e giornalisti di tale risma non aspettino altro che l’intervento militare in Libia e facciano il tifo per un’invasione della Siria da parte di truppe congiunte di Arabia Saudita e Turchia: ciò che vorrebbe dire l’anticamera di un confronto globale tra Usa e Russia. Sarebbe finalmente ora di contrastare questi aspiranti dottor Stranamore con il rilancio di un movimento contro la guerra e contro la Nato.
L'articolo de L'Espresso:
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351228
*Pubblicato su Marx 21. Riproposto su gentile concessione dell'autore
*Pubblicato su Marx 21. Riproposto su gentile concessione dell'autore
La Terza Roma
Se la Russia è considerata il bastione della difesa dei valori della Tradizione contro il mondo occidentale che corre verso derive imponderabili, l’incontro di l’Avana tra il Papa e il Patriarca di Mosca non può essere bollato come incontro fugace tra due leader religiosi. È evidentemente qualcosa di più: dopo mille anni Mosca e Roma si incontrano di nuovo. E vanno d’accordo.
DI LORENZO VITA - 17 FEBBRAIO 2016
Nella sala d’attesa dell’aeroporto di l’Avana, quasi come due amici che si ritorvano fugacemente in un posto inaspettato. Già solo per questo palcoscenico, l’aeroporto della capitale castrista e socialista che diventa sede di un incontro tra due leader religiosi mondiali è qualcosa che lascia meravigliati. Se poi aggiungiamo che uno è il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie e l’altro è il Papa della Chiesa Cattolica, è altrettanto evidente che non è soltanto un incontro della Storia quello che rende grande questo episodio, ma è un incontro che regola il presente e perché no, considera il futuro in una nuova prospettiva. E se la Storia la conosciamo, e le divisioni tra le Chiese cattolica e ortodossa rappresentano ormai un deposito di riti e teologie che sono a conoscenza di chiunque voglia analizzarle, il presente e il futuro sono ancora quasi sconosciuti, e, sicuramente, densi di sentimenti contrastanti.
Contrastanti perché corollario di quella che è a tutti gli effetti la nascita di un nuovo Impero euroasiatico che non si regge soltanto su guerra e forza, ma impone una sua visione del mondo per certi versi opposta a quella che l’Occidente ha fatto sua. È La Russia di Kirill (e di Putin). È una Russia che oggi rappresenta tutto ciò cui il mondo tradizionalista occidentale aspira e cui l’Europa ha abdicato. È uno scoglio su cui in molti cercano rifugio nel naufragio della Tradizione. Ma è soprattutto un’ancora di salvezza nel mare del nulla che attanaglia l’Occidente, quell’àncora che oggi la Chiesa di Roma non riesce più a rappresentare, dopo averlo fatto per secoli se non per millenni. Circondata da lotte per i cosiddetti “diritti civili”, lacerata dalla mancanza di Fede ma soprattutto di spiritualità, più volte sconfitta dai prodigi della tecnica, la prima Roma vede nella Terza Roma quel che oggi non può (o non vuole) più rappresentare.
Ma è altrettanto evidente che l’incontro storico tra Francesco e Kirill è anche un segno di come la Russia sia ormai a tutti gli effetti l’attore chiave della politica mondiale, sia contro lo derive occidentali della libertà individuale a ogni costo, sia rispetto alla Cina atea e votata all’industria, sia anche contro i nemici comuni, cioè il terrorismo internazionale e i suoi alleati. Se a l’Avana non è andata in scena né la firma di una Santa Alleanza né la stretta di mano per il ritorno all’ecumenismo cristiano, c’è stato, seppur simbolicamente, una sorta di passaggio di consegne non solo nella spiritualità ma anche nella politica. Quello che Roma ha rappresentato per secoli, oggi lo rappresenta Mosca: la Terza Roma. E se l’Occidente la considera un nemico perché erede di una Tradizione e creatrice di un sistema politico non consono ai suoi dettami libertari, c’è nel cuore e nella culla dell’Occidente, cioè Roma, un ponte che collega le Russie all’Europa: ed è la Santa Sede.
Tra NATO che rinforza i confini e Europa e Stati Uniti che proseguono nella loro scellerata politica di sanzioni e isolamento, il Papa ha sdoganato del tutto la Russia, dopo l’incontro con Putin e questo incontro, di portata storica, con il Patriarca di Mosca. Perché forse, ci si è resi conto anche al di là del Tevere, che pur nelle sue ineluttabili volontà di potenza e di controllo del territorio, e nonostante sia abbastanza chiaro che non è il tempo di santi guerrieri né di crociate, oggi la Russia rappresenta l’unica difesa della Chiesa contro i suoi avversari più impavidi: i sostenitori del modernismo a tutti i costi e il terrorismo dell’Isis contro la cristianità d’oriente. La Russia ha preso posizioni nettamente più dure e aspre contro questi nemici, sia in qualità di Chiesa ortodossa, sia in qualità di politica e di Stato. Finito il comunismo, dove la Russi era vista come “paradiso del socialismo” e dell’ateismo mondiale, la Russia del Terzo Millennio è curiosamente diventata il “paradiso tradizionalista”, e lotta non solo contro i suoi nemici, ma anche contro quelli che sono nemici di un’eredità che l’Occidente ha voluto abbandonare per finire nel baratro del Nulla.
Avanzata Usa/Nato a Est e Sud
Accusando la Russia di «destabilizzare l’ordine della sicurezza europea», Usa e Nato hanno riaperto il fronte orientale, trascinando l’Europa in una nuova guerra fredda, voluta soprattutto da Washington per spezzare i rapporti Russia-Ue dannosi per gli interessi statunitensi.
DI MANLIO DINUCCI - 17 FEBBRAIO 2016
I ministri della difesa Nato hanno deciso di «rafforzare la presenza avanzata nella parte orientale della nostra Alleanza». Ciò serve a «difenderci dalle elevate minacce provenienti dalla Russia», ha chiarito il segretario Usa alla difesa, Ash Carter. A tale scopo gli Usa quadruplicano i finanziamenti per l’«Iniziativa di rassicurazione dell’Europa» che, con una rotazione di forze (circa 6mila soldati), permetterà più esercitazioni militari Nato (non sono bastate le oltre 300 effettuate nel 2015), il potenziamento di aeroporti, il preposizionamento di armamenti pesanti, lo schieramento permanente a Est di unità corazzate. Ciò, ha sottolineato Carter, «permetterà agli Usa di formare in Europa una forza armata ad alta capacità, da dispiegare rapidamente nel teatro regionale».
Accusando la Russia di «destabilizzare l’ordine della sicurezza europea», Usa e Nato hanno riaperto il fronte orientale, trascinando l’Europa in una nuova guerra fredda, voluta soprattutto da Washington per spezzare i rapporti Russia-Ue dannosi per gli interessi statunitensi.
Allo stesso tempo Usa e Nato preparano altre operazioni sul fronte meridionale. A Bruxelles il capo del Pentagono ha «ospitato» (considerando l’Europa casa sua) i ministri della difesa della «Coalizione globale contro l’Isis», di cui fanno parte sotto comando Usa, assieme all’Italia, l’Arabia Saudita e altri sponsor del terrorismo di «marca islamica». La riunione ha varato un non meglio precisato «piano della campagna militare» in Siria e Iraq. Qui le cose vanno male per la coalizione, non perché l’Isis sta vincendo ma perché sta perdendo: sostenute dalla Russia, le forze governative siriane stanno liberando crescenti parti del territorio occupate da Isis e altre formazioni, che arretrano anche in Iraq. Dopo aver finto per anni di combattere l’Isis, rifornendolo sottobanco di armi attraverso la Turchia, gli Usa e alleati chiedono ora un cessate il fuoco per «ragioni umanitarie». In sostanza chiedono che il governo siriano cessi di liberare dall’Isis il proprio territorio, poiché —ha dichiarato il segretario di stato John Kerry capovolgendo i fatti— «più territorio conquista Assad, più terroristi riesce a creare». Allo stesso tempo la Nato rafforza le «misure di rassicurazione» della Turchia, che mira a occupare una fascia di territorio siriano nella zona di confine.
In Nordafrica, la coalizione a guida Usa si prepara a occupare, con la motivazione di liberarle dall’Isis, le zone costiere della Libia economicamente e strategicamente più importanti. L’intensificazione dei voli dall’hub aereo di Pisa, limitrofo alla base Usa di Camp Darby, indica che l’operazione «a guida italiana» è già iniziata con il trasporto di armi nelle basi da cui essa sarà lanciata.
Nello stesso quadro strategico si colloca la decisione dei ministri della difesa, «su richiesta congiunta di Germania, Grecia e Turchia», di dispiegare nell’Egeo il Secondo gruppo navale permanente della Nato, oggi sotto comando tedesco, che ha appena concluso «estese operazioni con la marina turca».
Missione ufficiale della flotta da guerra «non è fermare o respingere le imbarcazioni dei rifugiati, ma fornire informazioni contro il traffico di esseri umani», collaborando con l’agenzia Frontex della Ue. Per lo stesso scopo «umanitario», vengono inviati, su richiesta Usa, anche aerei radar Awacs, centri di comando volanti per la gestione del campo di battaglia.
«La mobilitazione atlantica è un buon segno», commenta «Il Fatto Quotidiano» (12 febbraio), ricordando che «non è la prima volta che l’Alleanza s’impegna in un’azione umanitaria». Esattamente come in Jugoslavia, Afghanistan, Libia.
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