ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 17 febbraio 2016

Solo qualcosa?

VATICANO II QUALCOSA NON TORNA

    Eppure c’è qualcosa che non torna nel progetto complessivo del Concilio Vaticano II. Una fra tutte le numerose zone d’ombra lascia particolarmente perplessi, insoddisfatti inquieti e riguarda la consapevolezza un "Fatal sbaglio"
di Francesco Lamendola
  
Il Concilio Vaticano II è, e probabilmente resterà, uno di quegli avvenimenti storici che tutti riconoscono – tutti, favorevoli e contrari – come cruciali, imprescindibili, eccetera, ma la cui genesi, la cui strategia di fondo, il cui progetto complessivo conservano qualche cosa di oscuro, di misterioso, di non chiarito, e che sfugge ad un livello approfondito d’indagine, si sottrae a una chiara comprensione, conserva sempre qualche cosa d’ambiguo, d’incomprensibile, e, apparentemente, di contraddittorio, se non addirittura d’irrazionale.
A meno che rispondano a una razionalità diversa da quella che ci aspetteremmo, per il semplice fatto – semplice, per modo di dire – che vi è qualcosa, in quegli avvenimenti, che noi non sappiamo, qualcosa di fondamentale; per cui, non sapendolo, siamo portati a farci le domande sbagliate, o a farcele nella maniera sbagliata, appunto perché non riusciamo a collocarli nella giusta prospettiva e a vederli per quello che realmente sono stati, e non per quello che generalmente si crede.
Molte, moltissime cose si possono dire a proposito della concezione del Concilio, della sua convocazione, della maniera in cui i lavori furono condotti, in cui i prelati si schierarono e si divisero, del peso esorbitante che fu dato, per la prima volta, ai teologi, e soprattutto della pressione mediatica e della maniera addomesticata, fuorviante, pilotata, che i mezzi d’informazione diedero dei lavori e delle ragioni che spingevano in questa o in quella direzione le decisioni e le scelte dei padri conciliari. Ma c’è una cosa, una fra tutte le pur numerose zone d’ombra, che lascia particolarmente perplessi, insoddisfatti, inquieti; una cosa da cui, forse, dipendono tutte le altre: tutte le altre domande e tutte le eventuali risposte. Si tratta di questo: i padri conciliari, e il Pontefice per primo, si resero conto davvero, sino in fondo, della reale portata di quel che stavano facendo, delle possibili conseguenze, delle ripercussioni che tutto ciò avrebbe avuto, senza possibilità di ritorno, per l’orientamento complessivo della Chiesa e per il futuro e la stessa sopravvivenza della religione cattolica romana?
Se non si vuol cedere alla suggestione dei complotti nell’ombra, delle trame inconfessabili, e anche delle infiltrazioni massoniche e anticristiane – che pure vi furono, innegabilmente!; non fu lo stesso Paolo VI a parlare, chiaro e tondo, del “fumo di Satana in Vaticano”? -, resta pur sempre il fatto che si registra una discrepanza clamorosa, talmente evidente che chiunque poteva e può vederla, pur senza essere affatto un esperto vaticanista, o un teologo, o uno storico delle religioni, fra lo spirito fiducioso, e quasi ingenuo, quasi spensierato, di “apertura”, di “dialogo”, di “collaborazione” con il mondo moderno, con la società laica (dopo quasi un secolo e almeno sei papi successivi che furono di tutt’altro indirizzo e di tutt’altre convinzioni), e la realtà palese, evidente, tangibile, innegabile, di un orientamento non solo irreligioso, ma programmaticamente anticristiano, da parte appunto di quel “mondo” verso il quale i padri conciliari stavano traghettando la Chiesa, a braccia aperte, con inverosimile tranquillità e confidenza.
Essi, a dirla tutta, si comportarono un po’ come degli strateghi - se ci si passa il paragone profano, e che non vuol essere irriguardoso - i quali mandino allo sbaraglio le truppe di prima linea, gli umili fanti, facendo loro credere che tutto si risolverà in una specie di passeggiata, e, forse, in un abbraccio ed una fraternizzazione, mentre invece le mitragliatrici del nemico sono in posizione, pronte a crepitare e a fare strage di quanti si avvicineranno alle trincee protette dal filo spinato. Che cosa si dovrebbe pensare di simili strateghi, e di simili comandanti? Bastano le manifestazioni di buona volontà, per far tacere le mitragliatrici, e per ammansire un nemico che ha giurato di vincere, ad ogni costo, e di deporre le armi solo dopo aver fatto scomparire fin l’ultimo rappresentante dell’esercito contrapposto? Può darsi che a qualcuno non piaccia questo paragone, perché gli potrebbe sembrare troppo militaresco. Benissimo: allora parliamo di pecore, di lupi e di pastori. Gesù, nel corso della sua missione terrena, lo aveva detto ai discepoli, e senza tanti giri di parole: «Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». Non aveva nascosto loro le difficoltà, i pericoli, le insidie. Al contrario: aveva dichiarato loro la fortissima probabilità di dover affrontare il martirio. «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; perché non c’è servo superiore al padrone». Poi aveva paragonato se stesso al buon pastore, e aveva precisato: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore ama le sue pecore, ed esse conoscono la sua voce; e lui è pronto a dare la vita per loro. Invece i mercenari non si preoccupano del gregge e lasciano le pecore e scappano, allorché esse vengono minacciate dai lupi».
Un gesuita francese, Joseph Thomas (1915-1992), filosofo e storico, che fu cappellano generale dell’Unione sociale degli ingegneri cattolici e del Movimento degli ingegneri e dei capi d’industria dell’Azione cattolica, fu uno dei tanti sacerdoti che vennero a Roma, da ogni parte del mondo, spinti dal desiderio di assistere, almeno per qualche giorno, ai lavori del Concilio: che seguì con entusiasmo, con trepidazione, con speranza. Ne sarebbe scaturito uno scritto, «Il Concilio visto da Joseph Thomas», poi pubblicato, insieme ad altri punti di vista e ad altre testimonianze (di Robert Aubert e Claude Soetens; di  Siri; di Marie-Dominique Chenu; di Neophytos Edelby; di Agostino Bea; di  Ratzinger e di alcuni altri), pubblicato sui «Quaderni del Concilio». Sua è una espressione molto azzeccata per designare il particolare tipo di società con cui i padri conciliari avevano a che fare, e alla quale rivolgevano i loro inviti e le loro esortazioni al dialogo fraterno: “umanesimo dell’indifferenza”. Ecco in quali termini riporta le impressioni di padre Thomas, come già abbiamo avuto occasione di ricordare in un precedente articolo (cfr. «L’Europa si allontana da Dio perché si è votata all’umanesimo dell’indifferenza», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 16/02/2016), e come pone, partendo da esse, la domanda decisiva, il filosofo francese André Glucksmann (da: A. Glucksmann, «La terza morte di Dio. Perché l’Europa è ormai un continente ateo e nel resto del mondo invece si uccide per fede»; titolo originale: «La troisième mort de Dieu, Paris, Nils Éditions, 2000; traduzione dal francese di Elisabetta Sartori, Roma, Liberal Edizioni, 2004, pp. 31-34):

«Ritornando con emozione e fervore al Concilio Vaticano II, padre Joseph Thomas, S. J., fra le tante lodi, azzarda una critica: “Questo concilio fu un’affermazione serena  della fede della Chiesa.  Una fede che la Chiesa vorrebbe proporre a tutti gli uomini, con la bella audacia tranquilla che le dona lo Spirito e che si irradiava dalla personalità di Giovanni XXIII. Ma la fede non è una cosa ovvia. I padri conciliari non si sono mai chiesti perché, al giorno d’oggi, è così difficile credere. Si sono comportati come se la Chiesa intera fosse già costituita da uno stuolo di veri credenti. Hanno presupposto l’esistenza di una fede robusta presso i cristiani e di disponibilità a credere presente in tutti gli uomini” (Vaticano II”, Cerf, 1989, pp. 115-116.) Difficile considerare una tale lacuna come una svista curiosa. Se è vero che i nostri buoni padri “non si sono mai chiesti perché al giorno d’oggi è così difficile credere”, è necessario concludere che essi hanno continuato a picchiare nel buio contro un ostacolo sconosciuto, proprio mentre l’estrema urgenza di affrontarlo veniva proclamata “urbi et orbi”. Come si può sradicare un’incredulità  di cui s’ignora il motivo?»

Ed è veramente una constatazione inquietante, tale da far perdere il sonno a chi vi rifletta con un minimo di serietà e di consapevolezza; una constatazione che, più vi si pone mente, e più appare priva di sbocchi, di risposte, di spiegazioni ragionevoli – a meno, appunto, che si cambi completamente lo scenario, con tutti i suoi presupposti, e s’immagini un qualche cosa di totalmente diverso da quel che sappiano, o che crediamo di sapere, a proposito del Concilio Vaticano II, della sua genesi e delle sue prospettive.
Glucksmann, citando padre Thomas, dice testualmente: «I padri conciliari […] si sono comportati come se la Chiesa intera fosse già costituita da uno stuolo di veri credenti. Hanno presupposto l’esistenza di una fede robusta presso i cristiani e di disponibilità a credere presente in tutti gli uomini». Fin qui, padre Thomas: e già le sue riflessioni hanno un che di vagamente inquietante, mettono un po’ i brividi a chi le legga con autentica attenzione. Ma ecco l’allarmante riflessione di Glucksmann: difficile considerare una tale lacuna come una svista curiosa. Ma allora, se non è stata una svista, peraltro assai curiosa (per usare un eufemismo), che cosa è stata? Di che cosa si è trattato? I pastori hanno portato le loro pecorelle in mezzo ai lupi per qualcosa di diverso da una semplice svista, da un umano errore di valutazione? Che cosa si deve pensare di tutto ciò? Se il pastore ha condotto il gregge fuori dal tratturo, nel bel mezzo dei più gravi pericoli, semplicemente perché lui stesso non conosceva la via; perché ha sottovalutato i rischi; e se è fuggito perché ha avuto paura davanti ai lupi: ebbene, tutto questo è certamente deplorevole, ma fa ancora parte delle debolezze umane, degli errori umani, dei quali è costellata la storia dell’umanità – e, non di rado, anche la storia della Chiesa cattolica, per quella parte almeno che cammina sulle gambe degli uomini, e che non è ispirata o sorretta dall’Alto; o, almeno, che non lo è sempre, certo a causa della loro fragilità e non per una svista o dimenticanza del Cielo.
Eppure, c’è sempre qualcosa che non torna. Qualcosa che non si lascia spiegare, “semplicemente”, in termini di umano errore, di semplice ingenuità, di sottovalutazione dei rischi. Certo: se un medico non sa diagnosticare un tumore maligno, se lo scambia per un tumore benigno, per una cosa da poco, si dirà che quel medico era inadeguato, impreparato, irresponsabile; ma insomma, benché spiacevoli, sappiamo bene che cose del genere possono accadere, anzi, che capitano con una certa frequenza, e che, secondo ogni probabilità, continueranno sempre ad accadere, per quanta cura si ponga nella preparazione del personale medico, nella serietà dei piani di studio delle facoltà di medicina, nella scrupolosità degli esami diagnostici. Ma un’altra cosa, e ben diversa, si verifica allorché il medico, pur vedendo benissimo di essere in presenza di un tumore maligno, lo tratta come se se fosse benigno; se tace deliberatamente al paziente la gravità del suo stato; se si limita ad una cura blanda, a una terapia di basso profilo, quasi che vi fosse tutto il tempo di questo mondo per valutare, pensare, rimandare, e infine, ma con la massima calma, stabilire il da farsi. Che cosa si dovrà pensare, di un medico siffatto? Certo non si penserà ch’egli sia stato inadeguato, impreparato, irresponsabile: si penserà qualcosa di diverso, e di ben più grave.
«I padri conciliari – dice padre Thomas - si sono comportati come se la Chiesa intera fosse già costituita da uno stuolo di veri credenti; hanno presupposto l’esistenza […] di disponibilità a credere presente in tutti gli uomini». Vale a dire che i padri conciliari hanno sbagliato “diagnosi” sia dentro che fuori la Chiesa: “dentro”, perché l’hanno considerata come se fosse formata da cristiani ben saldi e radicati nella loro fede, quasi che i venti del dubbio e del relativismo non avessero soffiato anche su di loro; “fuori”, perché, incredibilmente, inverosimilmente, hanno supposto che tutti gli uomini fossero pronti ad aprire gli orecchi ed il cuore all’annunzio del Vangelo, a sentir parlare di Dio: laddove qualunque professorino di liceo avrebbe saputo spiegare benissimo che l’Europa laica e secolarizzata si era attestata, da due secoli almeno, su posizioni dichiaratamente e deliberatamente anticristiane; che tutto il progetto storico della modernità ruota attorno alla distruzione del cristianesimo, e specialmente del cattolicesimo; e che qualunque studentello di provincia avrebbe potuto prevdee quel che sarebbe successo nell’incontro fra una Chiesa fiduciosa nel dialogo e nel mutuo scambio di sensibilità, di impegno, di attenzioni, ed una società laica dominata da poteri occulti fortissimi, soprattutto di natura finanziaria, i quali controllano l’informazione, la stampa, le televisioni, la cultura, le università, e che hanno preso il solenne impegno di distruggere quel che resta della presenza cristiana in Europa e nel mondo, ma partendo proprio dall’Europa.
Del resto, basta leggere Kierkegaard, che scriveva verso la metà dell’Ottocento, ma che si scagliava indignato, già allora, contro la pretesa della cristianità di essere realmente, effettivamente cristiana, per capire quanto vi è di assurdo, d’inconcepibile, d’inverosimile, nello sbaglio - se tale è stato – commesso dai padri conciliari: non tutti, ma quelli di orientamento “modernista” e “progressista”…

Eppure c’è qualcosa che non torna nel progetto complessivo del Concilio Vaticano II

di Francesco Lamendola

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