ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 27 febbraio 2016

Piccoli immensi preti d’un tempo

CATTOLICESIMO INGENUO E ADULTO

Quei piccoli immensi preti d’un tempo che mostravano alle anime la via del Cielo. La Messa oggi esalta l’uomo quale protagonista del suo destino: è cambiata la dottrina cattolica senza che noi ce ne accorgessimo? 
di Francesco Lamendola

  

 Parlano di molte cose, i preti d’oggi, e anche molti vescovi e cardinali; di molte cose utili e buone, di molte cose lodevoli e importanti: il servizio e la solidarietà, l’accoglienza e l’impegno, la tolleranza e la partecipazione, l’inclusione e la lotta al pregiudizio. Parlano un po’ meno, invece, anzi, molto  meno, della fragilità dell’uomo e della sua insufficienza a fare il bene con le sue sole forze; del peccato e della grazia; della Caduta e della Redenzione. E non parlano quasi più dei novissimi: della morte, del giudizio, dell’inferno e del paradiso. Ci si chiede: è cambiata la dottrina cattolica, senza che noi ce ne accorgessimo? Sono cambiate le cose essenziali per la salvezza dell’anima?
E sono tuttora all’ordine del giorno l’anima e la salvezza, o sono parole e concetti che appartengono al passato, aun cattolicesimo “ingenuo” e un po’ puerile, cui si è sostituito oggi, per nostra immensa fortuna, un cattolicesimo “adulto” e responsabile? Chi ha avuto il destino di ricevere la sua prima formazione religiosa negli anni che hanno preceduto il Concilio Vaticano II, quando la Messa si svolgeva ancora secondo il rito tridentino, con il sacerdote che officiava rivolto al Santissimo e non ai fedeli; quando le formule si recitavano in lingua latina e i fedeli ricevevano il Corpo di Cristo direttamente sulla lingua, invece di prenderlo in mano come si farebbe con un cibo qualsiasi; e quando non ci si scambiavano grandi strette di mano, come “segno di pace”, volgendosi fra i banchi a destra e a sinistra, come ci s’incontrasse in piazza, ma si restava in atteggiamento di perfetta compostezza, le donne col capo velato, tutti vestiti decorosamente; quando, infine, il sacerdote, dal pulpito, non si preoccupava di dire cose gradevoli e simpatiche, ma lasciava che parlasse il Vangelo per la sua bocca, richiamando con forza, se necessario, alla conversione, alla penitenza e al santo timor di Dio: ebbene, chi ha avuto tale destino, non può non restare perplesso davanti al silenzio assordante che avvolge, talvolta, nel modo di officiare la Messa da parte del clero odierno, la dimensione mortale dell’uomo, la realtà del peccato, la necessità della Grazia, la brevità della vita e la prospettiva della vita eterna nelle due possibilità della beatitudine e della dannazione.
Si direbbe che, fra prediche che somigliano a chiacchierate conviviali, con tanto di applausi a scena aperta, battute in dialetto, motti di spirito e atteggiamenti corrivi e piacioni, con l’accompagnamento di chitarre e di canti che poco hanno di mistico, e molto di sguaiato, magari sulle note di Lucio Battisti o di Francesco Guccini, con bambini che corrono qua e là come fossero al parco giochi, e con adulti che non aspettano quasi l’ite, Missa est per formare allegri e rumorosi capannelli ove scambiarsi chiacchiere e pettegolezzi a ruota libera, quasi non vi fosse luogo al mondo più idoneo che la casa di Dio per fare conversazione, e ciò sotto lo sguardo benevolo, se non compiaciuto, del sacerdote, il quale, a sua volta, non vede l’ora di andare a sbarazzarsi dei suoi ”ingombranti” (o imbarazzanti?) paramenti per mescolarsi ai fedeli, in giacca e pantaloni, preferibilmente senza nemmeno un minuscolo crocifisso al collo o qualsiasi altro segno che lo faccia riconoscere come sacerdote (per carità, sarebbe mancanza di tatto verso il mondo moderno, laico ed aconfessionale!|), sia scomparso del tutto il senso del sacro; sia stato messo fra parentesi il soprannaturale; e, invece di innalzare l’umano verso la sfera mistica e rarefatta del divino, questa sia stata abbassata verso la sfera dell’umano. Si direbbe, insomma, che lo scopo della Messa non sia più quello di rinnovare il mistero del Sacrificio di Cristo, ma di esaltare l’uomo, quale protagonista del suo destino.
Sarà merito della tanto decantata e magnificata “svolta antropologica”, che i teologi post-conciliari ci hanno ammannito come l’ultimaconquista del cattolicesimo “adulto” e “responsabile”, e tale, finalmente, da non farci sfigurare né al fianco dei fratelli protestanti, notoriamente più dotti e più aggiornati dei poveri cattolici perennemente arretrati, né verso i laicisti arrabbiati e gli atei militanti, i quali pure sono fratelli dotati di pari dignità umana (il che è verissimo) e depositari di altrettanta verità, sapienza e saggezza filosofica, teologica e morale dei cattolici (il che, per un uomo di fede, è falsissimo)? Sarà per questo che dobbiamo ringraziare con tutto il cuore quei teologi e membri del clero i quali, dopo duemila anni di oscurantismo e superstizione, hanno finalmente compreso quale sia la maniera giusta di adorare Iddio, e ce ne hanno trasmesso la “scoperta” e i relativi benefici?
Eppure, abbiamo l’impressione che si sia smarrito, fra le pieghe di tanto “dialogo con il mondo”, di tanta “apertura”, di tanta “inclusione”, qualche cosa di essenziale; qualche cosa che non era “solo” la vecchia liturgia, con il latino, l’organo e il canto gregoriano (per quanto la liturgia sia tutt’altro che una cosa secondaria, non essendo affatto una semplice “veste” delle sacre cerimonie, ma il segno visibile di ciò che è invisibile): che si sia smarrito il senso stesso della relazione dell’uomo a Dio, che è relazione amorevole, sì, ma creaturale: non “da pari a pari”, ma da creatura al suo Creatore, e dunque carica di devozione, di abbandono e fiducia illimitata, che non si possono realizzare se non si sgombra l’anima dalla malattia dell’ego, dal tumore delle brame illimitate, a cominciare dalla brama di onniscienza e onnipotenza, che ottenebra la mente dell’uomo moderno.
A noi piace pensare che i sacerdoti e, in genere, le persone consacrate a Dio, uomini e donne, possano tornare ad essere, come lo sono state per due millenni, coloro che indicano la strada alla massa dei fedeli, che additano la via del Cielo fra le tenebre del mondo, che mostrano l’eterno in mezzo a ciò che è perituro; e che tornino a parlare delle realtà eterne, dei novissimi, della destinazione finale del nostro cammino terreno, anche a costo di parlare un po’ meno di cose pur buone e giuste in sé, ma non specificamente religiose e non essenziali per la Buona Novella, come la giustizia sociale: che non spetta ai cristiani realizzare, anche se ad essa sono chiamati a cooperare, come del resto tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti. Perché questo si addice, in ultima analisi, a nostro avviso, al sacerdote, al monaco, alla suora: mostrare con parole, con atti e con modi di vivere, la via del Cielo, per quanto possibile alla fragilità umana; tenere gli occhi rivolti in alto, e la Speranza fissa sul Redentore; e riporre ogni fiducia in Dio Padre, in Gesù Cristo, e nell’aiuto, sempre tramite la preghiera, della Madonna, degli Angeli e dei Santi, affinché preservino gli uomini dalle tentazioni del Diavolo e degli altri spiriti immondi.
Forse, tanti preti moderni dovrebbero ritrovare, nella loro spiritualità, qualche tratto “antico”, proprio dei vecchi preti dell’epoca pre-conciliare; non che ci sia qualcosa di sbagliato nel Concilio, ma certo, dopo di esso, vi sono state forzature e accelerazioni imprudenti e, a volte, insensate, e, quel che è peggio, vi è stato un impoverimento e quasi una svalutazione della spiritualità stessa, quasi che le “opere”, che pure sono un vanto della teologia cattolica (a differenza di quella protestante, la quale le  svaluta in partenza) siano tutto, e il raccoglimento, la preghiera, la ricerca di Dio siano nulla, o alcunché di secondario e accessorio: mentre sono le fondamenta stesse della fede, senza le quali nessun edificio potrà essere eretto, che sia solido e sicuro.
Vogliamo adesso riportare, a mo’ di ritratto ideale del sacerdote “spirituale”, ovvero dell’autentico pastore di anime, quel che fu detto di uno dei tanti parroci di paese che guidarono le loro comunità di fedeli negli anni precedenti il Concilio: uno dei tanti, dei tantissimi, praticamente scelto a caso, tale è l’imbarazzo della immensa scelta: don Luigi Ceccato, che fu arciprete di Fonte, un paese ai piedi delle Prealpi trevigiane, dal 1938 al 1957, riportando le parole di uno dei suoi successori, mons. Erasmo Pilla (da: Gabriele Ferronato, «Storia di Fonte. Un comune veneto della collina tra Brenta e Piave», San Zenone degli Ezzelini, Giovanni Battagin Editore, 1998, pp. 256-258):

«Parlare di don Luigi, arciprete di Fonte  per oltre 19 anni non è cosa facile.
Sacerdote di profonda e ardente pietà, passava lunghe ore in chiesa a pregare, quando camminava se non studiava, pregava. Sacerdote che bruciava d’amore per l’Eucarestia e per la Madonna, della quale parlava sempre con passione e alla quale affidò la sua anima perché Maria Santissima è “la via regia che conduce a Cristo” (dal suo testamento).“Avevo sortito un temperamento incandescente e ipersensibile e quindi estremamente emotivo ed eccitabile” (dal suo testamento). Ed eco che non contento di chiedere perciò anche pubblicamente perdono, don Luigi Ceccato puniva se stesso con cilici, catenelle, flagelli, uniche ricchezze rinvenute nei suoi cassetti chiusi a chiave. Lo sforzo enorme e continuo per vincere se stesso dovette influire indubbiamente a che sul suo fisico, apparentemente robusto, e probabilmente questa continua compressione gli anticipò la morte. Preghiera e penitenza egli faceva per il suo popolo, per i peccatori e ciò traspariva soprattutto nelle grandi occasioni per esempio di missioni o grazie straordinarie. Viveva per la chiesa: godeva dei suoi trionfi, una tristezza mortale, paragonabile talvolta all’agonia di Gesù nell’orto, colpiva invece il suo cuore quando vedeva il male trionfare. Ugualmente soffriva per l’indifferenza dei buoni di fronte  al bene da compiere, allo scandalo del male da combattere e da contrastare. In ogni caso però, l’ultima parola era data dalla fede. Non una conversazione veniva fatta che egli non richiamasse i novissimi: morte, giudizio, inferno, Paradiso.
Uomo d’intelligenza spiccatissima, di cultura sacra e profana eccezionale, oratore insigne, instancabile, era stimato e ricercato in diocesi e fuori, non parlava alla leggera, ma esponeva sempre dottrina soda, dottrina ch’egli andava attingere dalla sacra Scrittura e dai Santi Padri ch’egli conosceva profondamente. Con le sue predicazioni egli portò tanto bene alle anime. Ardito era detto dal popolo della zona per il suo aspetto esteriore, talora brusco, eppure era di una umiltà sorprendente! Quante volte chiedeva egli consiglio non solo al suo confessore, ma anche al suo cappellano, ch’egli amava intensamente. Ardito però era veramente quando si trattava  di diritti di Dio. Scrittore capace ed efficace, si vide proibito dal fascismo un suo libro dal titolo “Il tipo specifico della chiesa cattolica” da uomo che non conosceva i compromessi della politica, ma solo la rettitudine, non piegò mai  alla tirannide di nessun tipo o colore,  perché amava e difendeva per sé e per gli altri la pace, la verità, la giustizia, la libertà. Musicista distintissimo, coltivò sia la musica  sacra quanto la profana, amava particolarmente Perosi, probabilmente perché a lui più simile sotto molti aspetti. Ampliò l’asilo, rifece la gradinata e l’organo della chiesa,  la pavimentò totalmente, fece la casa vicino al campanile, motorizzò le campane. Ultima sua opera, che gli fruttò umiliazioni, dispiaceri e sacrifici innumerevoli, il Centro Addestramento Professionale che sorge ai piedi della collina vicino alla strada. Con la collaborazione dei sacerdoti del mandamento, incoraggiato dai vescovi di Treviso e Padova, lasciò quest’opera in piena attività.  Suo scopo: dare un pane onorato ai giovani emigranti facendo loro apprendere un mestiere e creare così le premesse sicure per riportare il mondo del lavoro a Cristo. La sua vita fu tutta croce e martirio. Di coscienza delicata fino a rasentare lo scrupolo, riusciva però a nasconderlo molto spesso con lo scherzo vivo, scintillante, allegro. Il suo popolo l’ha molto pianto e a suo suffragio innumerevoli so o state le officiature e non sono pochi che pregando invocano il suo aiuto. Spirò improvvisamente sulla via a sili 62 anni con la corona in mano, ch’egli recitava sempre quando camminava  o andava in bicicletta, come avvenne mentre andava dai suoi ammalati a Castelfranco [a 12,6 km!]»

Un prete che passa ore e ore in chiesa a pregare? Ma via, non ci sono tante cose più importanti da fare, nell’ambito del “sociale”? Un prete che fa penitenza col cilicio, che castiga se stesso per sforzarsi di essere più autenticamente cristiano, per concentrarsi tutto nel pensiero e nell’amore di Dio? Eh, che esagerazione! Non era per caso un po’ represso, un po’ nevrotico? Non avrebbe fatto meglio a dedicare le sue energie nelle forme visibili dell’azione pastorale? Per esempio, a insegnare ai bambini il rancore di classe per la professoressa cattiva, travestito da sentimento di giustizia, come faceva il “grande” don Lorenzo Milani a Barbiana? Un prete che raccomanda di pregare la Madonna e di rivolgersi a Lei per arrivare a Cristo? Suvvia, è chiaro che quel prete ha poca dimestichezza con gli ultimi risultati della critica biblica, che attribuiscono al culto di Maria una funzione tardiva e inessenziale rispetto al Vangelo! E poi, diciamola tutta: che è questo continuo pregare, questo parlar sempre della morte e del giudizio? Forse un cattolicesimo “adulto” ha ancora bisogno di tali storielle per vecchiette un po’ suonate? E ha bisogno di preti che muoiono d’infarto per andare a trovare gli ammalati, facendosi 25 km. in bicicletta, col sole o con la pioggia, e che lungo la strada, per non perder tempo, recitano il Rosario? Noi siamo convinti di sì. Un prete che non riponga tutta la sua fede in Dio e in Dio solo, non potrà mai guidare le anime verso di Lui…

Quei piccoli, immensi preti d’un tempo che mostravano alle anime la via del Cielo

di Francesco Lamendola


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