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domenica 27 marzo 2016

Il fine della vita cristiana

L'ACQUISTO DELLO SPIRITO SANTO

Il fine della vita cristiana per s. Serafino di Sarov è l’acquisto dello Spirito Santo. Il ritiro dal mondo la preghiera incessante e la contemplazione servono a predisporre l’anima per ricevere il dono della Grazia 
di Francesco Lamendola



Nato a Kursk, circa 300 km. a sud di Mosca, il 19 luglio 1859 e morto a Sarov il 2 gennaio 1833, san Serafino è probabilmente il più grande santo della Chiesa ortodossa russa (benché canonizzato solo nel 1903) e una delle figure più dolci e affascinanti di tutta la tradizione monastica cristiana. Nella iconografia devozionale egli è spesso rappresentato con degli animali selvatici, che gli si accostano come a un padre e ad un amico; in particolare, insieme a un orso, al quale egli porge da mangiare. Di quanti secoli è necessario tornare indietro, nella tradizione monastica dell’Occidente, per incontrare questa dimensione francescana di amore universale, di fratellanza con tutte le creature? La sensibilità ecologica di cui tanto si parla oggi, magari declinandola in senso cristiano, non è che il pallido e sbiadito riflesso d’una spiritualità nella quale cadono tutte le zavorre dell’ego, per cui l’anima, ansiosa solo di riunirsi a Dio, non può non sentirsi fraternamente unita a tutti i viventi, in un unico coro universale chiamato a cantare le Sue lodi. E quante lotte con il Diavolo ha dovuto sostenere san Serafino, fisicamente e moralmente, nel suo eremo in mezzo alla foresta!

Ha scritto Paolo Cocco, nel rievocare questa straordinaria figura di santo eremita (nell’articolo San Serafino di Sarov, cuore fiammeggiante della Russia, pubblicato sul periodico Portavoce di San Leopoldo Mandic, Padova, n. 9 del Dicembre 2014, pp. 12-16):

Il 14 agosto 1786 è consacrato monaco col nome di Serafino, e dopo poco tempo è ordinato diacono. Si prepara con lunghi digiuni e preghiere alle celebrazioni liturgiche; al termine di quella di Giovedì santo rimane immobile, in estasi, per tre ore. Nel 1793 è ordinato presbitero. Celebra ogni giorno l’eucaristia, cosa non usuale nelle Chiese d’Oriente.
muore Pacomio, l’abate che lo aveva accolto e sostenuto nella formazione. Con il permesso di Isaia, l’abate successivo, Serafino il 20 novembre 1794 va a vivere nella foresta, in un’isba da lui qualificata “piccolo deserto lontano”, a una certa distanza dal monastero. La sua attività principale diventa la lettura della Bibbia e la preghiera incessante, compiuto congiungendo mente e cuore, riscaldato dalla grazia, e invocando lo Spirito Santo. Lì Serafino intercede per la salvezza del mondo, conducendo contro il maligno una lotta molto aspra. Si racconta che egli abbia continuato a gridare per mille giorni e mille notti, quasi immobile: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Osserva un rigoroso digiuno, cibandosi solo di pane e ortaggi. A un certo momento si sfama solo della pianta di egopodio, e così il suo corpo diventa diafano. Il pane lo offre agli animali che di notte vengono a visitarlo (è diffusa l’immagine che lo raffigura mentre offre cibo a un orso). Si reca regolarmente nel monastero per la liturgia domenicale e vi trascorre la prima settimana di Quaresima., tempo dedicato al digiuno comunitario assoluto. Il 12 settembre 1804 tre ladri lo minacciano e lo colpiscono. Un confratello lo trova quasi morto. È trasportato al monastero. Anche questa volta si riprende grazie all’intervento della Madonna, apparsa assieme ai due apostoli. I briganti che lo avevano colpito sono identificati, ma Serafino si adopera risolutamente perché siano perdonati. Rimessosi in forze, ottiene il permesso di tornare alla sua isba, votandosi a un assoluto silenzio e ricevendo in dono quella pace che si irradia e procura la salvezza di molti; egli stesso, infatti, così insegna: “Acquista la pace interiore e migliaia intorno a te troveranno la salvezza”.
L’8 maggio 1810 un confratello, che settimanalmente si reca da lui per portargli un po’ di pane e di legumi, gli trasmette l’ordine di tornare a vivere in monastero. Serafino obbedisce. In monastero, riceve il permesso di vivere recluso in una cella arredata, come l’isba,  solo con un’icona, una stufa e un ceppo come sedia. Ogni giorno, col volto coperto, riceve da Paolo, suo confratello, un po’ di cibo. Ogni settimana legge tutti i libri del Nuovo Testamento e li commenta a voce alta. Dal settembre 1815 allenta la reclusione, tenendo la porta aperta. Poi comincia a parlare, prima con i confratelli e in seguito anche con altri.
La Madonna stessa, in un apparizione, gli ordina di accogliere i visitatori. Per questo motivo nel novembre 1825 torna a vivere nel “piccolo deserto”, la sua isba, salutando chi viene a fargli vista con il gioioso saluto pasquale: “Buon giorno, mia gioia! Cristo è risorto!”. Innumerevoli sono le persone che si recano da lui per chiedergli aiuto e preghiere. Si rivolgono a lui anche persone benestanti e importanti. Egli tratta tutti senza discriminazioni. Sua è l’esortazione: “Accostandoci agli uomini, dobbiamo essere puri da parole e in spirito, uguali verso tutti, senza mai adulare nessuno, altrimenti la nostra vita sarà inutile”. Invita tutti a condurre una vita veramente cristiana: Ricordati sempre della presenza di Dio e del suo santo nome”.
Anche Antonio, abate di un’altra comunità, riceve da lui un grande insegnamento: “Sii una madre per i tuoi monaci, piuttosto che un padre. Ogni superiore deve essere, e rimanere, una madre ragionevole per le sue pecore. Una madre che ama non vive per se stessa ma per i figli. Sopporta con amore le debolezze degli infermi; purifica e lava con dolcezza e attenzione quelli che sino sporchi; li veste con abiti puliti e nuovi; dà loro le scarpe, li riscalda, li nutre, li consola e cerca di essere loro vicina in modo da non dover mai sentire da parte loro il minimo rimprovero. I figli, allora, cresceranno affezionati alla madre. Così anche ogni superiore deve vivere non per se stesso ma per le sue pecore.  Dev’essere indulgente verso le loro debolezze; sopporti con amore le loro malattie; fasci i mai dei peccatori con le bende della misericordia; rialza con dolcezza quelli che cadono, purifichi nella pace quelli che si sono macchiati di qualche vizio e imponga loro una razione supplementare di preghiera e di digiuno; li ricopra di virtù attraverso l’insegnamento e l’esempio; li segua costantemente e protegga la loro pace interiore in modo da non dover mai sentire da parte loro il minimo rimprovero. Allora anche loro faranno il possibile per garantire al loro igumeno la tranquillità e la pace”.
Serafino tiene acceso un cero nella sua isba come espressione di intercessione per chi si rivolge a lui. Ed esorta: “Guardando un cero acceso, soprattutto in chiesa, pensiamo sempre all’inizio, allo svolgimento e alla fine della nostra vita: come si scioglie un cero acceso davanti al volto di Dio, così la nostra vita diminuisce ad ogni istante, avvicinandosi al termine. Questo pensiero ci aiuterà a non distrarci in chiesa, a pregare con più fervore, a fare il possibile affinché la nostra vita assomigli a un cero fabbricato con cera pura, che brucia e si spegne senza puzzare”.

Negli ultimi anni della sua vita si dedicò intensamente all’assistenza spirituale di un convento femminile, situato a Diveyevo, nel quale non si recò mai di persona, ma che seguì con la preghiera e il consiglio, contribuendo in maniera decisiva allo sviluppo di quella comunità. E anche questo è caratteristico della spiritualità e dell’ascetismo di san Serafino, e, in generale, di tutta la spiritualità contemplativa: non è necessario andare in molti luoghi per effondere il bene della Grazia sulle anime; non è necessario immergersi in un ritmo di vita frenetico, e sia pure bene intenzionato, per recare sollievo ai propri fratelli. C’è bisogno di ricordare che san Pio da Pietrelcina, che ha operato il bene di numerosissime anime, non si è praticamente mai mosso dal suo convento di san Giovanni Rotondo? Se proprio era necessaria la sua presenza altrove, abbiamo numerose testimonianze relative alle sue bilocazioni: perché Dio concede simili carismi ai suoi discepoli, se essi hanno saputo spogliarsi completamene dalle vanità mondane e sono pronti per usarli con discrezione, nel silenzio e nell’oscurità, facendo anzi di tutto perché non si sappiano troppo un giro, e la gente non ne parli come di semplici eventi miracolosi, perdendo di vista il loro significato spirituale.
Vi sono, nella spiritualità ortodossa, e specialmente nella teoria e nella pratica dell’esicasmo, di cui san Serafino è stato un illustre esponente, dei veri e propri tesori di saggezza, di pace, di armonia e di contemplazione del divino, ai quali i cattolici potrebbero, se lo volessero, rivolgersi per trovare, o ritrovare, quel rapporto diretto, luminoso, beatificante con il divino, che, per un complesso di ragioni storiche, culturali, sociali, si è andato alquanto appannando, fino a scomparire del tutto in certi contesti più influenzati dalle dinamiche della secolarizzazione. Purtroppo, i teologi cattolici del Novecento hanno preferito ispirarsi alla cosiddetta teologia liberale di stampo protestante, a Bultmann, a Tillich, a Bonhoeffer, invece che alla speculazione, profondamente spirituale, di un Solov’ev, di un Florenskij, di un Evdokimov; così come tanti sacerdoti e vescovi hanno preferito concentrare la loro attenzione e le loro energie sulla vita attiva, sull’impegno sociale e perfino su quello politico, a scapito della interiorità, della spiritualità e dell’ascetismo. Abbiamo avuto così, dopo il modernismo di Tyrrell, di Loisy e di Buonaiuti, le correnti neomoderniste o cripto-moderniste le quali, da Rahner, da Schillebeeckx, da Congar, e dagli stessi Maritain e von Balthasar (questi due ultimi poi ravvedutisi, forse un po’ tardi), passando per Hans Küng, arrivano, ai nostri giorni, ai vari Enzo Bianchi, Vito Mancuso e Michela Marzano, i cui massimi problemi speculativi ruotano intorno ad un ecumenismo che equivale ad un relativismo totale, o alla rivendicazione dei “diritti” delle coppie omosessuali, alla liceità o al possibilismo riguardo all’aborto e all’eutanasia; senza tralasciare la teologia della liberazione e il suo “grido” a favore dei poveri che, muovendo da una analisi sociale ed economia tipicamente classista, equivale, di fatto, ad una introiezione della prospettiva marxista. E questo quando appare agli occhi di tutti, anche dell’osservatore più distratto, che il vero problema che attanaglia la cristianità contemporanea, e l’umanità tutta, non è l’insufficiente riconoscimento dei diritti, intesi in senso egoistico ed ultra-individualistico, e in una prospettiva puramente materialista e immanentista, vale a dire più o meno esplicitamente consumista, ma in un oblio della spiritualità cristiana, in una amplificazione patologica dell’ego e delle sue brame, in una perdita della connessione con il divino, con il soprannaturale: tutte cose rispetto alle quali i cattolici avrebbero molto da imparare dalla tradizione ortodossa, vera e propria scuola di distacco dalle passioni terrene, dalle ambizioni umane, dall’edonismo disordinato, e autentica bussola per ritrovare la direzione che porta verso l’essenziale.
Ma cos’è l’essenziale? Ecco una bella domanda, per il cristiano. Alla quale ha dato una risposta esemplare appunto san Serafino di Sarov, parlando con un giovane – certo Nicola Motovilov - che lui stesso aveva guarito, con la preghiera, da una gravissima malattia degenerativa (op. cit. p. 16):

Dio mi ha rivelato che in gioventù tu desideravi sapere qual è il fine della nostra vita cristiana e che più volte hai interrogato in proposito persone importanti ed esperti di cose spirituali. Ma nessuno ti ha detto qualcosa di preciso a riguardo… Ora io, povero Serafino, ti esporrò qual è realmente il fine della vita cristiana… La preghiera, il digiuno, le veglie e tutte le altre opere del cristiano, per quanto eccellenti in sé, non sono il fine della vita cristiana, benché siano i mezzi indispensabili per raggiungerlo. Il vero fine della vita cristiana consiste nell’acquisto dello Spirito Santo. […]
Un cero acceso, pur bruciando di un fuoco terreno, può accendere, senza perdere il proprio splendore, altri ceri che illumineranno a loro volta altri luoghi. E questa è la proprietà del fuoco terreno, cosa dobbiamo dire della grazia dello Spirito Santo? La ricchezza materiale, quando viene distribuita, diminuisce. La ricchezza celeste della grazia, invece, non fa altro che aumentare in colui che la diffonde.

Ecco a che servono il ritiro dal mondo, la preghiera incessante, la mortificazione del corpo e la contemplazione: a predisporre l’anima per ricevere il dono soprannaturale della Grazia. E non è affatto una fuga dal mondo, un voltare le spalle al prossimo: al contrario; perché il dono della Grazia è tale che brilla così, in colui che lo riceve, da illuminare il cammino ad altre cento, mille anime che vagavano incerte nella semioscurità. Il solitario cercatore di Dio, pertanto, non si allontana dal rumore per un egoistico desiderio di pace, intesa come assenza di fastidi, ma seguendo la via necessaria per ottenere un bene infinitamente prezioso, che, non appena ricevuto, si effonde anche sugli altri, accendendo infiniti specchi, uno dopo l’altro, come il fulgore abbagliante del Sole.


Il fine della vita cristiana, per s. Serafino di Sarov, è l’acquisto dello Spirito Santo

di

Francesco Lamendola

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