ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 3 marzo 2016

Tesi e anti-tesi*

FRA ROBERTO, IL CAPPUCCINO 95ENNE CHE PERCORRE 6 CHILOMETRI PER CONFESSARE A FORTALEZA

Fra Roberto, il cappuccino 95enne che percorre 6 chilometri per confessare a Fortaleza

Il 28 febbraio, terza Domenica di Quaresima, le arcidiocesi del nord-est del Brasile hanno riunito una grande folla per le Caminhadas Penitenciais (Percorsi Penitenziali). Sia a Fortaleza che a Salvador, i gesti concreti di alcune persone hanno spiccato tra le migliaia di partecipanti, come quello di un sacerdote di 95 anni che ha camminato per 6 chilometri a Fortaleza.


Il frate cappuccino fra’ Roberto è diventato uno dei personaggi più salienti di questa edizione del Percorso Penitenziale a Fortaleza. È sacerdote da 71 dei suoi 95 anni e ha percorso i 6 chilometri insieme ai circa 30.000 fedeli confessando.

Le foto della partecipazione di fra’ Roberto all’evento sono apparse sulle reti sociali, sulle quali molti hanno espresso ammirazione nei suoi confronti.

“È stato uno dei momenti più belli a cui ho assistito oggi. Questo esempio di Fede, Amore e fedeltà alle cose di Dio che fra’ Roberto ci ha offerto è stato un’altra prova della vera presenza viva di Dio nel suo cuore. Dobbiamo seguire il suo esempio”, ha commentato un’internauta.

Nato il 10 settembre 1920 a Maracanaú, ha ricevuto dai genitori il nome Juari Magalhães de Sousa, e in seguito, quando è entrato nel convento dei cappuccini, ha adottato il nome fra’ Roberto. È entrato nella vita religiosa nel 1934, a 14 anni. Nel 1942 ha professato i voti solenni, e nel 1944 è stato ordinato sacerdote.

“Vero servo di Dio! Bellissima testimonianza di vita… autentica donazione!”, ha scritto un’altra internauta.

Il Percorso Penitenziale dell’arcidiocesi di Fortaleza è partito dalla chiesa di Nostra Signora della Salute, a Mucuripe, per concludersi nella cattedrale metropolitana. Sulla via, un altro gesto concreto di manifestazione di penitenza è stata la croce portata dai fedeli sulle spalle, ricordando come Gesù Cristo abbia preso su di sé tutti i peccati dell’umanità per redimerla.

La croce è stata presa prima dall’arcivescovo, monsignor José Antonio Tosi Marques, e dai sacerdoti, passando poi per le spalle di seminaristi, religiosi e laici.

L’iniziativa nell’arcidiocesi di Salvador

A Salvador, più di 200.000 persone hanno partecipato al Percorso Penitenziale. Sono state celebrate tre Messe, tutte alle 6.30, e dopo le celebrazioni i fedeli sono usciti camminando fino alla basilica-santuario Senhor Bom Jesus do Bonfim, portando lungo il percorso una croce di legno lunga sei metri e larga tre.

“Il Percorso Penitenziale è un gesto comune che tutti noi facciamo come arcidiocesi, in questo periodo in cui la Chiesa ricorda che il suo percorso è caratterizzato anche dai nostri peccati, i peccati dei fedeli”, ha affermato il vescovo ausiliare, monsignor Gilson Andrade.

“Come Chiesa”, ha aggiunto, “preghiamo insieme per gli altri perché abbiamo bisogno di liberarci dal peccato con la grazia di Dio e con la preghiera dei fratelli. Allo stesso tempo, rappresenta un momento di manifestazione della nostra unità intorno ai nostri pastori”.

Nel percorso di 8 chilometri, molti hanno praticato gesti personali di penitenza. Francisca dos Santos, 80 anni, per il terzo anno consecutivo ha camminato scalza per ringraziare Dio per le grazie ricevute.

Wilson Santos ha seguito il percorso portando una croce bianca con macchie rosse per ricordare l’amore di Gesù per ogni persona. Secondo l’arcidiocesi, lo fa da otto anni.

“Vengo a pregare per i nostri fratelli che si drogano, che sono ricoverati in ospedale, e anche per i nostri governanti”, ha affermato. “Gesù è molto buono, è meraviglioso, e noi a volte non riconosciamo quanto sia buono”.

Alla fine del Percorso Penitenziale, dopo aver scalato la Collina Sacra, l’immagine del Senhor do Bonfim è stata portata nell’atrio della basilica.

“Gesù, ti ringraziamo per le grazie che abbiamo ricevuto questa mattina”, ha detto davanti all’immagine monsignor Murilo Krieger, arcivescovo di Salvador e primate del Brasile. “Torneremo a casa stanchi, sudati, ma contenti, felici, come puoi vedere dal nostro cuore. Siamo ai tuoi piedi come Maria sul Calvario”.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]
http://www.iltimone.org/34371,News.html                                                                                                     *                                                                                

ANTITESI PACE LAICA E 

CRISTIANA

 Il concetto cristiano della “pace” è in perfetta antitesi con quello laico. Il mondo moderno è figlio dell’illuminismo e della Massoneria non è semplicemente post-cristiano; è deliberatamente anti-cristiano 
di Francesco Lamendola  


  
Gesù e venuto a predicare la pace fra gli uomini? Potrebbe sembrare una domanda strana, quasi provocatoria: ma certo, che discorsi!; chi non lo sa? Pure, a riflettervi anche solo un momento, si deve ammettere che la risposta non è così banale e scontata, come sembra. Gesù stesso, a un certo punto, ebbe a dire di sé e della propria missione: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera, e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Matteo, 10, 34-36).
Sono parole che si possono variamente interpretare; certo non devono esse intese nel senso letterale, a meno che la “spada” di cui parla Gesù sia da intendersi non già come quella dei suoi seguaci, cosa certamente da escludere, ma piuttosto dei loro persecutori, dato che egli ha ammonito i suoi discepoli con forza, e ripetutamente, che sarebbero stati perseguitati a causa del Suo nome.
Ad ogni modo, una distinzione necessaria, a nostro avviso, deve essere operata fra il concetto della “pace” in senso propriamente cristiano, e quello di carattere profano: perché la “pace”, come la intende il mondo, non è la pace di Cristo, anzi, si tratta di due cose completamente diverse e, per molti aspetti, addirittura antitetiche. Ed è una riflessione ci veniva fatta mentre leggevamo una pagina di don Luigi Villa (3 febbraio 1918-18 novembre 2012), un sacerdote nativo di Lecco, che è stato condannato all’oblio dopo la morte (avvenuta quattro anni or sono), mentre in vita aveva subito una vera e propria persecuzione da parte delle autorità superiori, a causa delle sue scomodissime inchieste miranti a smascherare le infiltrazioni massoniche all’interno della Chiesa, particolarmente nelle sue più alte sfere; inchieste che erano partite da una esortazione personale di san Pio da Pietrelcina, fattagli nel 1952 e rinnovata nel 1963, e che ebbero, a quanto pare, l’approvazione ufficiosa ed il tacito incoraggiamento di papa Pio XII.
Sia come sia, non vogliamo soffermarci qui a parlare della vita e dell’opera svolta da don Villa per denunciare la presenza della Massoneria all’interno della Chiesa cattolica, presenza mirante a indebolirla, svuotarla e distruggerla gradualmente per mano dei suoi stessi vescovi e sacerdoti (ci riproponiamo di farlo in apposita sede); desideriamo invece soffermarci su uno spunto offertoci da una sua meditazione a proposito della “pace” cristiana.
Scriveva, dunque, don Villa in un ampio saggio – che si può considerare, in un certo senso, il suo testamento spirituale -  intitolato «Il problema della pace» e pubblicato, a puntate, sulla rivista da lui fondata, «Chiesa viva», di cui riportiamo l’inizio della seconda (n. 339, maggio 2002, pp. 2-3):

«Mentre gli altri tre evangelisti parlano di un kerigma di pace per tutti gli uomini, anche non cristiani, il quarto evangelista invece parla della “pace” durante il mistero della Passione e della Risurrezione in quanto concerne i discepoli di Gesù. È una rivelazione di Gesù ai suoi discepoli e, quindi, è Dio che rivela, qui, la pace” che nasce nella Chiesa.
Questo avviene nel discorso dopo la Cena, che si conclude con un augurio di pace: “Io vi lascio la mia pace! Io vi dono la mia pace! Io non ve la dono come la dona il mondo!”
Poi, la sera della Risurrezione, Gesù si presenta ai suoi discepoli riuniti, e per prima cosa dice: “Pace a voi!”, poi, per la seconda volta, dice ancora: “Pace a voi! Così come il Padre ha mandato me, io mando voi!”. Otto giorni dopo, presente anche Tommaso, Gesù appare un’altra volta e dice: “Pace a voi!”
Fanno riflettere queste parole di “pace” dette da Gesù! Furono le sue ultime parole prima della Passione, e furono le sue prime dopo la Passione. Non sono semplici parole di saluto, secondo l’uso di ogni persona educata, ma sono parole di Gesù-Dio che vengono animate di una vita nuova ed hanno una risonanza straordinaria. Lo fanno comprendere le sue stesse parole che indicano una sua intenzione del tutto particolare: “Io vi dono una pace; io ve la dono non come ve la dà il mondo!”
Il contesto di queste parole, infatti, ci porta a riflettere che furono dette dopo il discorso dell’ultima Cena, dopo che Gesù aveva parlato loro delle “persecuzioni” che avrebbero avuto per causa sua, quasi che esse costituissero una loro condizione abituale. “Voi avrete tribolazioni nel mondo”. “Viene l’ora che chiunque vi ucciderà, crederà di rendere ossequio a Dio”. Con questo, Gesù intendeva dire che le persecuzioni che subiranno non saranno che la continuazione delle persecuzioni che Lui stesso ha subito: “Se il mondo vi odia, sappiate bene che, prima di voi, ha odiato me. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. Come ad annunciare il mistero della sua morte e di quella dei suoi discepoli! Un solo, medesimo mistero.
Per questo, Gesù moltiplica il suo incoraggiamento: “Non rimanga turbato il vostro cuore…”. “Queste cose vi ho detto perché non abbiate a scandalizzarvi…”. Vi ho detto queste cose, perché, quando ne giungerà l’ora, vi ricordiate che ve ne ho parlato”. Coraggio, dunque, perché, nonostante la sua Passione e morte, anzi, proprio per esse, Gesù ha vinto il mondo, per cui la sua “pace” sarà il frutto sicuro della partecipazione alla vittoria del Maestro con la Risurrezione. “La pace a voi!”. Dopo il cammino della prova, ci sarà quella “pace”, che più nessuno ci potrà togliere!
Questo destino della Chiesa di Cristo appare, non in astratto, anche nell’Apocalisse dello stesso autore del Quarto Vangelo, san Giovanni, in cui si parla chiaramente di un mondo persecutore e della Chiesa perseguitata. I suoi membri vengono martirizzati, messi a morte, ma la Chiesa continua a sopravvivere, a risuscitare, ad avere dimora in mezzo al mondo, insieme al Regno di Dio. Ovunque, è sempre il Cristo che muore, ma che pure risuscita. E anche la Donna, attaccata dal Dragone, è pur sempre la Chiesa. E anche i 144.000 che accompagnano l’Agnello sul monte Sion, usciti dalle persecuzioni e dalle umiliazioni, sono anch’essi la Chiesa. Come pure i vincitori della Bestia, che cantano il canto di Mosè, all’uscita del paese della prova, e “i campi dei Santi e la città diletta”, assalita dalle forze congiunte dell’Inferno e della terra e che Dio ha preservata con un atto perentorio. Alla fine, cioè, la città assediata si trasfigura nella Nuova Gerusalemme, e “la morte non ci sarà più, né ci saranno più dolori e sofferenze, perché tutto quello che prima c’era, sarà finito” (Apoc., 21, 4).  La pace di Cristo, quindi, sarà alla fine dei tempi; ossia, la Sua pace sarà dopo la risurrezione. Il Suo prezzo, però, è sempre la Sua Croce. Perciò, anche il cammino della Chiesa di Cristo è e sarà sempre la “via Crucis”! L’universalità del Vangelo si riattacca alla Croce. Quando io sarò elevato da terra, attirerò tutto a me” Apoc. 1, 8). La “pace” del mondo sarà, quindi, nel Cristo risuscitato. Il ruolo del cristiano, perciò, sta nel testimoniare, soffrire, morire. Ma la sua vittoria è già sicura; la pace è già data da Lui! “Io non ve la dono come il mondo…”, il quale non la dà, ma solo la promette, mentre Gesù la dona realmente ed è una pace che non inganna.
Egli giudica e divide tra il suo Regno e quello del mondo. Noi sappiamo dal discorso di “missione”, di San Matteo, che la pace di Gesù è ben differente da quella del mondo. “Non pensiate che io sia venuto a portare la pace sulla terra: io non sono venuto a portare la pace, ma la spada”. Gesù, quindi, pensava già alle persecuzioni che gli Apostoli e i suoi successori avrebbero dovuto subire dai suoi nemici, mondo e demonio, come pure le divisioni, senza farsi alcuna illusione. “Chi non prende la sua croce per venire al mio seguito, non è degno di me”. Ossia: la Chiesa deve testimoniare, soffrire le persecuzioni, sopportare, attendere, perseverare, accettare di essere umiliata, messa a morte; prender parte, quindi, al medesimo destino che fu di Gesù, l’Agnello, il Servitore, il Servo di Dio. E sarà a questo prezzo, poi, che Dio mediatore donerà la sua pace a tutta l’umanità!»

Quelle di don Luigi Villa sono riflessioni che ci sembrano sostanzialmente condivisibili e che ci ricordano, ancora una volta, quanto sia equivoco e fuorviante prendere certi concetti della cultura laica, accostarli ai concetti cristiani traducibili con la stessa parola, e trarne la conclusione che, dunque, non solo non vi è alcuna difficoltà a portare avanti un discorso cristiano che sia parallelo a quello del mondo profano, ma, addirittura, che i cristiani debbano, in un certo senso, “fidarsi del mondo”, solamente perché le parole d’ordine paiono le stesse. Il mondo moderno, invece, non è semplicemente post-cristiano; è deliberatamente anti-cristiano. Può darsi che molte persone, forse la maggior parte, non se ne rendano conto; ma certo lo sanno coloro i quali esercitano un controllo complessivo sull’informazione, sulla stampa, sulle reti radiofoniche e televisive, sulla cultura accademica e sulle grandi istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Sarebbe veramente ingenuo, quindi, e anche molto pericoloso, per un cristiano, sottovalutare questo fatto, o scordarlo anche solo per un momento: non si tratta di coltivare una “sindrome da accerchiamento”, quanto, piuttosto, considerare che la cultura moderna è figlia dell’illuminismo e della Massoneria, e che il suo obiettivo è sempre stato quello di distruggere il cristianesimo e di sostituirlo con una nuova forma di religiosità vagamente panteista, incentrata sostanzialmente sulla natura e sull’uomo, non certo su un Dio trascendente e, soprattutto, su un Dio redentore: l’uomo, infatti, per la cultura moderna, non ha alcun bisogno di essere redento, semmai può e deve redimersi da solo. E, più in generale, basta tenere a mente le ammonizioni rivolte da Gesù ai suoi discepoli circa il fatto che il mondo li avrebbe odiati, dato che, prima di loro, aveva odiato Lui. La verità è che il cristiano dà, e darà sempre, fastidio alle logiche del mondo – logiche di potere, di lussuria e di sopraffazione – e, quindi, dovrebbe sempre chiedersi che cosa non vada, quando il mondo gli prodiga sorrisi e carezze.
Ma vediamo più nello specifico la questione che a noi qui interessa: quella della pace. Per la cultura profana, e specialmente per la cultura moderna, la “pace” è il risultato di una azione pienamente e interamente umana: sono gli uomini che possono e vogliono instaurarla, dopo aver rimosso le cause di conflitti, così all’interno come all’esterno dei gruppi sociali. La “pace” del mondo, quindi, è un obiettivo immanentistico, edificabile senza residui, che avrà una completa realizzazione entro un determinato lasso di tempo. La pace, in tale prospettiva, proviene dalla rimozione degli elementi di conflitto, di tensione, d’ingiustizia: quando ciò avverrà, si avrà automaticamente il regno della pace, come si addice a una concezione decisamente ottimistica dell’uomo razionale.  La pace, infatti, è razionale, la guerra è irrazionale: quando gli uomini capiranno che la guerra non è nel loro interesse, che provoca più problemi di quanti ne possa mai risolvere, allora si avrà la pace.
Per il cristiano, le cose stanno in tutt’altro modo. La pace non è un fatto, ma un anelito; l’uomo tende alla pace, perché riconosce in essa la condizione necessaria alla realizzazione del bene. L’uomo, però, non è capace di realizzare alcun bene con le sue sole forze: quando si prova a fare una cosa del genere, non solo fallisce, ma semina lutti e sofferenze a piene mani. Nessuna opera umana può essere portata a buon fine, allorché scaturisce da un atteggiamento di orgoglio e di autosufficienza; solo quando si affidano all’ispirazione e all’aiuto di Dio, gli uomini possono realizzare il bene; così come possono conservarlo solo restando strettamente uniti a Lui. Non a un Dio qualsiasi, però, ma al Dio predicato da Gesù Cristo, Dio egli stesso: il Dio che si è fatto uomo, che è morto sulla croce e che è risorto per riaprire all’umanità la via del Cielo. Anche qui si vede che il relativismo è penetrato largamente nella cultura cattolica e nella Chiesa stessa, e ha seminato pericolose confusioni, quasi che un Dio valga l’altro, e tutte le strade portino ugualmente alla verità, alla redenzione e alla salvezza. Per timore di apparire esclusivisti e fanatici, i cristiani son diventati timidi, quasi vergognosi di se stessi; stentano, talvolta, a proclamare il messaggio di Gesù, o lo relativizzano. In un certo senso, tentano di passare inosservati: in una società laicista, sembra loro il mezzo migliore per vivere tranquilli. Hanno dimenticato una cosa, però, quella essenziale: Cristo non ha promesso la tranquillità, ma ha portato la pace: una pace che passa per la Croce. È un paradosso, certo: il paradosso della fede, visto da alcune grandi anime, come Pascal e Kierkegaard... 

Il concetto cristiano della “pace” è in perfetta antitesi con quello laico

di Francesco Lamendola

DON MAZZOLARI PRETE MODERNO

  Don Mazzolari la Chiesa dei poveri e la pastorale d’un prete moderno. Personaggio controverso precorritore delle istanze riformatrici del Concilio Vaticano II è il tipico rappresentante del clero “impegnato” e di sinistra 
di F. Lamendola



Don Mazzolari, la Chiesa dei poveri e la pastorale d’un prete moderno

di Francesco Lamendola




Don Primo Mazzolari (Cremona, 13 gennaio 1890-Bozzolo, Mantova, 12 aprile 1959) è stato un personaggio controverso e, per molti aspetti, un precorritore delle istanze riformatrici del Concilio Vaticano II; nel bene e nel male, è stato un prete “innovatore” e anticonformista, impegnato nella predicazione della “Chiesa dei poveri”, nell’ascolto dei lontani, nonché un fautore del “dialogo” con le altre fedi e con le altre “verità” religiose.
È stato, anche, un personaggio contraddittorio, aspetto del quale poco o niente si è parlato, tanto dai suoi detrattori che dai suoi ammiratori: interventista nel 1915, volontario allo scoppio della Prima guerra mondiale e cappellano militare nel 1918, è passato su posizioni antifasciste e di adesione alla Resistenza, tanto da vivere in clandestinità negli ultimi mesi della guerra civile del 1943-45, e da ricevere, al termine della guerra civile, la qualifica di “partigiano” dall’A.N.P.I. di Cremona.
Nel dopoguerra la sua personalità di prete scomodo trovò conferma anche nel clima della democrazia repubblicana. Fondatore, nel 1949, della rivista quindicinale «Adesso» (che avrebbe cessato le pubblicazioni nel 1962), evidenziò una schietta sensibilità sociale e progressista, mettendosi in luce come un tipico rappresentante del clero “impegnato” e di sinistra: mostrò una benevola attenzione nei confronti dei comunisti e dialogò molto con essi, pur tenendo ferma la distinzione fra comunisti e comunismo, e dichiarando che, se i primi potevano essere brave persone, con le quali era possibile collaborare, almeno fino a un certo punto, il comunismo invece è un’ideologia sbagliata e anti-cristiana, verso la quale non esistono spazi di collaborazione. Ad ogni modo, le autorità superiori non tardarono a vedere in lui un sacerdote indisciplinato e sbilanciato su posizioni troppo progressiste, sia a livello sociale che nello stesso ambito ecclesiastico e religioso, e lo sottoposero a una serie di limitazioni, fra l’altro proibendogli di predicare al di fuori della sua parrocchia di Bozzolo. Pur ridotto all’isolamento, Mazzolari fu notato e apprezzato da alcuni intellettuali di area cattolico-progressista, fra i quali Ernesto Balducci e Giorgio La Pira, i quali videro in lui non solo l’amico dei poveri, ma anche il difensore di valori sociali  come la giustizia, e di valori civili come il pacifismo (celebri le sue prese di posizione a favore dell’obiezione di coscienza e del disarmo), e fecero della sua figura quasi una bandiera del rinnovamento, da loro auspicato, in seno alla Chiesa cattolica, e un precursore della stagione del Concilio Vaticano II.
Nell’ultima fase della sua vita egli ebbe un parziale riconoscimento da parte della gerarchia ecclesiastica, tanto che l’arcivescovo di Milano, Montini, futuro papa Paolo VI, lo chiamò a predicare nella sua diocesi, mentre Giovanni XXIII, ricevendolo in udienza privata, lo definì addirittura, e pubblicamente, “la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”, cosa che di fatto non solo “sdoganava” le posizioni da lui sino allora sostenute, ma gli riconosceva un ruolo profetico e carismatico molto importante nel processo di ripensamento e di riforma all’interno della cultura cattolica e della Chiesa stessa.
Non intendiamo soffermarci oltre, in questa sede, sulle luci e sulle ombre dell’azione pastorale e della dottrina sociale di don Mazzolari (tanto più che la Chiesa ha già la sua dottrina sociale: quella tracciata dalla «Rerum novarum»); l’argomento sarebbe troppo vasto e richiederebbe uno spazio e un approfondimento ben maggiori. Ci limiteremo a svolgere una riflessione su un concetto-chiave del suo pensiero e della sua pratica pastorale, e cioè che, in un mondo caratterizzato da forti squilibri sociali e da un grande impoverimento spirituale, non si può predicare il Vangelo “alla vecchia maniera”, ma bisogna trovare altre strade, più vicine alla gente semplice e specialmente alle classi disagiate, per trasmettere l’amore di Dio agli ultimi e per mostrare loro la via delle verità eterne, abbandonando la “retorica” e il “formalismo” in cui la Chiesa, fino a quel momento, avrebbe indugiato, col risultato di perdere il contatto con il gregge dei fedeli.
Scrive don Primo Mazzolari, a proposito dell'episodio evangelico dei due discepoli di Emmaus, in «Tempo di credere», cit. in «Mazzolari. Antologia dei suoi scritti», a cura di Giovanni Barra, Torino, Borla Editore, 1964, pp. 246-247):

«I due sono arrivati "al villaggio dove andavano", ma Emmaus ha quasi perduto ogni importanza ai loro occhi. Il forestiero, senza mostrarlo, li aveva disamorati del loro viaggio,. Erano arrivati, ma il loro cuore era già oltre Emmaus. Il Signore ha una strana maniera di disincantarci. 
Egli non dispregia nessuna nostra meta, non condanna i nostri ideali, anche se meschini, non si caglia contro i nostri affetti terreni. Ci fa un cuore nuovo, ce lo dilata, ce lo sprofonda, e, se il vecchio uomo non vuol cedere, ci porta via tutto perché lo schianto ci tolga l'ultima illusione del senso. Gesù non ha rimproverato i due perché andavano ad Emmaus, barattando con il rumore dissipatore della strada il silenzio raccolto del cenacolo: non ha spregiato Emmaus.
Non si demoliscono senza pericolo e senza sollevare ostinate resistenze i piccoli appoggi. Due poveri discepoli, stanchi e sperduti com'erano, cosa potevano pensare di meglio di Emmaus?
Per chi "ha scoperto il tesoro", i confronti son facili e "il vedere ogni cosa" è una festa. Ma per chi non vede nulla, e solo ne sente parlare come di cosa che può esistere, il buttar via anche una briciola è una follia.
Chi non sa quanto sono volgari molte nostre soddisfazioni? Che siam fatui nei nostri gusti? Ma perfino una ghianda, per chi non ha di meglio, è un po' il paradiso!... Conosco tante povere ragazze, chiuse tutta la settimana in uno stabilimento maleodorante, legate a un tavolo o a una bacinella, senza una parola buona, senza un affetto, senza una fede, senza una casa... Ma quando, la domenica, si possono mettere un vestito nuovo, darsi un po' di rossetto, fare una passeggiata, ricevere un sorriso, una dichiarazione, commettere una follia, è il paradiso. E se qualcuno, con troppa ragione, cercherà di impedire che si perdano, esse difenderanno i loro piccoli beni, come noi difendiamo i nostri tesori spirituali. E non vi crederanno e vi rideranno in faccia ad ogni  predica, anche se sono sicure che c'è qualcosa che non va nella loro maniera di vedere la vita.
Ma qual è la cosa che non va? Chi illumina queste povere creature? Chi le ama?
C'è molta gente che sa far la predica sul peccato, ma troppo pochi sanno far sentire che il bene è bello, che il volersi bene è bello, che il prodigarsi è bello. Prima di disamorare bisogna innamorare: prima di chiudere una porta sul tempo bisogna spalancare una finestra sull'eterno.»

Il concetto-cardine espresso qui da don Mazzolari è che, come Gesù non ha disprezzato le aspettative e i desideri umani, ma ha cercato di indirizzare gli uomini, dolcemente e gradualmente, verso una verità più alta e una scoperta della dimensione spirituale dell’esistenza, così un buon sacerdote non deve concentrare la sua azione pastorale sull’aspetto negativo, mortificando e rimproverando le sue pecorelle perché subiscono il fascino del mondo ed inseguono goffamente dei beni ingannevoli e illusori, ma deve partire dalla realtà effettiva, dalla loro condizione di povertà e solitudine, per accompagnarle verso la luce del Vangelo mediante l’amore, la comprensione e l’incoraggiamento. Si tratta di un testo («Tempo di credere», pubblicato nel 1941 dalle Edizioni Dehoniane) che si può utilmente confrontare con «Esperienze pastorali» di don Lorenzo Milani (pubblicato nel 1958 dalla Libreria Editrice Fiorentina), giudicato peraltro negativamente, quest’ultimo, già da Giovanni XXIII, come abbiamo documentato in un precedente articolo (cfr. «Il Concilio Vaticano II partì con il piede sbagliato?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 08/01/2016). In entrambi, la domanda è la stessa: come si deve impostare la pastorale in una parrocchia povera e arretrata, dove regnano povertà e ignoranza e dove le persone si sentono - e, sovente, sono - emarginate, discriminate, sfruttate? Poiché dal modo in cui ci si pongono questi interrogativi discendono  conseguenze di grandissima portata per il futuro della Chiesa e, forse, per la sua stessa sopravvivenza, vale la pena di fare una riflessione circostanziata sul problema.
Tanto per cominciare, a noi pare che sacerdoti come don Mazzolari, per quanto possano essere stati animati da buone, anzi, da ottime intenzioni, e per quanto possano essere stati delle brave persone, piene di zelo e di amore verso il prossimo, sembrano essere partiti da una impostazione sbagliata di tutta la questione. L’errore consiste in questo: nel fatto di pensare alla Chiesa cattolica come alla Chiesa dei poveri, nel seno letterale dell’espressione (don Mazzolari teorizzava che la chiesa, proprio come edificio sacro, oltre che come istituzione, e perfino la casa canonica, devono essere considerate alla stregua della casa dei poveri). Chi sono i poveri, da un punto di vista cristiano? È questa la domanda che sarebbe necessario farsi, prima di partire a lancia in resta per la crociata pauperista e populista. Il punto di vista cristiano non può appiattirsi, puramente e semplicemente, su quello dell’economia, o della sociologia, o, peggio ancora, della lotta di classe. I poveri, per il cristiano, non sono soltanto, né, forse, sono principalmente, coloro che vivono al di sotto di un determinato reddito, considerato minimo secondo i parametri economici esistenti in quella data società (e non, comunque, in senso assoluto: ecco perché non possono essere considerati tali i “migranti” che arrivano in Europa, pagando 1.000 o 2.000 dollari agli “scafisti” per traversare il Mediterraneo). Ne abbiamo già parlato, per cui stringeremo al massimo il nostro ragionamento (cfr. l’articolo: «Il Vangelo è annunciato specialmente ai poveri: ma chi sono i poveri?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 06/05/2015): i poveri sono tutti coloro che si trovano lontani dalla Buona Novella e vivono immersi nella povertà materiale e soprattutto in quella spirituale, che distoglie le loro anime dall’amore di Dio e del prossimo. Don Mazzolari fa un gran parlare dell’amore ai poveri, del voler bene ai poveri, della predilezione per i poveri, ma sempre intendendo i poveri in senso materiale: ebbene, questa è una forma di razzismo al rovescio. Il Vangelo è per tutti, si rivolge a tutti, poveri e ricchi, buoni e  cattivi: a tutti chiede la conversione, a tutti offre l’amore di Dio, e a tutti prospetta la necessità di passare attraverso la prova della Croce per diventare suoi seguaci. Davanti a Dio, non c’è ricco che non possa essere tremendamente povero di quel che è essenziale, e non c’è anima buona e pia che non abbia bisogno di conversione e di aiuto per perseverare nel bene: perché gli uomini, da soli, non possono fare niente di buono, ma con l’aiuto di Lui diventano capaci di spostare le montagne. Questo, crediamo  è il senso del Vangelo.
E tuttavia, si dirà prontamente: forse che il buon prete deve assistere indifferente allo spettacolo della povertà? Forse che può dare runa pacca sulla spalla all’indigente, che non ha nulla da mettere nel piatto, e parlargli delle cose dell’anima, ignorando la sua fame materiale e la sua sete di giustizia? Rispondiamo che il prete è certamente un uomo, e che, come uomo, non può restare indifferente, e nemmeno può atteggiarsi a neutrale di fronte a una palese ingiustizia; e tuttavia, come sacerdote, egli non è schierato con nessuno e contro nessuno: come sacerdote egli si annulla in quanto persona, e deve lasciare che sia Cristo a parlare e operare per mezzo di lui. E Cristo andava a cercare non solo i poveri, ma anche i ricchi, come è ampiamente testimoniato dal Vangelo (al punto che i farisei ipocriti gli rimproveravano proprio questo fatto), perché vedeva che tutti, poveri e ricchi, hanno bisogno di conversione; che tutti sono lontano da Dio e tutti devono essere riportati a Lui. Il prete non deve fare il sindacalista, né l’agitatore politico: deve fare semplicemente il prete. E non è un compito da poco; è un compito immenso. Ciò non significa che deve far finta di non vedere la povertà materiale dei suoi parrocchiani; ma che non deve considerare la lotta alla povertà materiale come lo scopo principale della sua missione. Ci sono altri soggetti, istituzionali e privati, per tale scopo; la missione specifica del prete è un’altra, e consiste nel riportare le anime a Dio. Bonum animarum, in ecclesia, suprema lex.
Però, dice don Mazzolari, le operaie non capiranno il richiamo al bene dell’anima e gli rideranno in faccia. E chi ha detto che il prete  deve aspettarsi solamente applausi? Al contrario: se lo lodano tutti, dovrebbe chiedersi dove stia sbagliando. E, a parte ciò: siamo sicuri che, pur ridendo, quelle ragazze non torneranno a riflettere, poi, sulla coerenza e sulla forza spirituale racchiuse in quelle parole, che dapprima erano sembrate loro così sgradevoli? Il chicco di grano non germoglia subito: ha bisogno di un certo tempo per dare frutto; e il cristiano è paziente. È giusto, peraltro il concetto che, prima di chiudere la porta sull’effimero, si deve almeno socchiudere una finestra sull’eterno: ma il prete non parlerà mai dell’eterno, se aspetta che, prima, venga instaurata la giustizia sociale…

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