I cattolici americani stanno con Trump (nonostante il Papa)
Sondaggio di Reuters: The Donald cresce in simpatia tra i fedeli al Pontefice, che l’aveva criticato in conferenza stampa
Il consenso di Donald Trump tra l'elettorato repubblicano cattolico è cresciuto di nove punti negli ultimi due mesi (LaPresse)
Roma. Se le gerarchie cattoliche
d’America continuano a finanziare Ted Cruz, l’evangelico senatore del
Texas pro life considerato il più conservatore tra i repubblicani
rimasti in lizza – ha ottenuto 155.500 dollari in donazioni da circa
380 personalità appartenenti a vario titolo al clero, mentre Trump e
Kasich si sono fermati rispettivamente a 700 e 3.500 dollari – la base
guarda con crescente simpatia a The Donald.
A rilevarlo è un sondaggio condotto da Reuters e Ipsos: il 47,9 per cento dei cattolici che si dichiarano repubblicani sta con il frontrunner, ormai lanciato verso la nomination alla convention di Cleveland (colpi di coda degli avversari, permettendo). Un balzo in avanti di nove punti rispetto alla precedente stima risalente a metà febbraio. Il dato è sorprendente se si considera – e l’analisi Reuters lo sottolinea – che la crescita di consenso tra i fedeli al Papa si è avuta proprio in seguito allo scambio di opinioni (per nulla fraterne) tra Francesco e il miliardario newyorchese. Conversando con i giornalisti in aereo al ritorno del viaggio in Messico, Bergoglio era stato chiaro: “Una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Poi, quello che mi diceva, cosa consiglierei, votare o non votare: non mi immischio. Soltanto dico: se dice queste cose, quest’uomo non è cristiano”. Il giorno dopo, padre Federico Lombardi aveva tentato di gettare acqua sul fuoco, osservando che le parole del Pontefice non erano in alcun modo riferite alle esternazioni di Trump, che un muro tra Arizona e Messico vorrebbe costruirlo eccome.
ARTICOLI CORRELATI Carico da novanta di Douthat sul Nyt: il Papa e Trump sono uguali Francesco in aereo a ruota libera su aborto “male assoluto”, Trump e unioni civili Paul Manafort, l’insider che dirige la campagna presentabile di Trump Sì, è un Papa che preoccupa
Ma la domanda fatta al Papa era proprio su The Donald, che non a caso aveva immediatamente ribattuto a muso duro al vescovo di Roma: “Il Papa? E’ un personaggio molto politico. Lo stanno usando come una pedina e dovrebbero vergognarsi di farlo. Per un leader religioso mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso”. Ventiquattr’ore dopo già attenuava i toni, parlando di “incomprensione”. Lo scontro, però, non l’ha affatto danneggiato, anzi. William Paul McKane è un sacerdote cattolico del Montana, e tra il suo “principale” e il frontrunner non ha dubbi con chi stare: “Mi sembra paradossale, e lo dico con affetto, che il Papa parli di muri quando abita dietro mura alte più di quaranta piedi. Quella frase detta in aereo compromette la sua credibilità tra i miei parrocchiani”. Il fatto è che, spiega ancora il sacerdote, non si è capito che il cattolico dell’America profonda è ben distaccato da quanto si dice in Vaticano e pensa alle cose concrete, badando poco alla verbosità di un candidato. “Trump si esprime in un modo che suona poco compassionevole. Io – aggiunge McKane – non lo considero un esempio di virtù cristiana, ma non è questo che cerco in un candidato. A me interessa qualcuno che sappia prendere buone decisioni politiche”. E i requisiti che vengono valutati in via prioritaria sono la capacità di rispondere ai problemi economici e di sicurezza. Comunque, dice ancora McKane, “si tratta di questioni che sono in linea con i valori cristiani sulla protezione delle vite innocenti”.
Nessun tradimento né della morale né della dottrina, dunque. In campo democratico, chiarisce il sondaggio, la situazione è ancora più chiara: il 67,8 per cento dei cattolici sta con Hillary Clinton e solo il 29,3 sostiene Bernie Sanders. Anche in questo caso, la veloce stretta di mano all’ora del cappuccino, davanti a Santa Marta, tra il senatore del Vermont e il Papa, non ha portato consenso. Washington è lontana da Roma.
di Matteo Matzuzzi
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/04/22/i-cattolici-americani-stanno-con-trump-nonostante-il-papa___1-v-141084-rubriche_c337.htm
Dai giornali americani: “Il genero di Donald Trump pubblica un
articolo sui cospirazionisti sull’11 Settembre: ‘Idioti deleteri, scemi
e ciarlatani che teorizzano su Internet su come le Twin Towers siano
stata ‘in realtà’ distrutte dagli ebrei, dagli Illuminati,o dagli
extraterrestri”. Notizia che assume il suo sapore se si viene informati
che il genero di Trump (che ha sposato sua figlia Ivanka) si chiama
Jared Kushner, e (da Wikipedia) “è cresciuto in una famiglia ebraica
nel New Jersey, s’è diplomato alla Frisch School, una jeshiva privata a Paramus, New Jersey, e allo Harvard College nel 2003 con laurea in sociologia”.
Harvard, e sia pure lo Harvard College è un nome prestigioso di una difficile università. Notizia che assume tutto il suo sapore quando si viene informati (cito da Wiki): “secondo il giornalista Daniel Golden, Kushner e sua fratello Joshua Kushner vi sono stati ammessi nonostante le modeste credenziali accademiche dopo che suo padre ha fatto una donazione di 2,5 milioni di dollari all’università”. Un professore ha descritto l’ammissione di Jared “una scelta insolita per Harvard”, essendo il ragazzo “per nulla al vertice della sua classe”. Papà Kushner, Charles, un immobiliarista di lusso (ha l’ufficio a 666 Fifth Avenue) che ha fatto la ricca donazione, “è stato arrestato per evasione fiscale e donazioni elettorali illegali”.
Questo per sfatare al mito, diffuso tra i goy, che “gli ebrei siano più intelligenti della media”. Jared è la prova incarnata che esistono ebrei stupidi, anche con laurea ad Harvard. E conferma la sua stupidità col farsi saltare i nervi nel mezzo di una finissima operazione di depistaggio in corso nella Washington che conta: la minaccia o decisione di render pubbliche le 28 pagine del rapporto del Congresso Usa sugli attentati dell’11 Settembre, che a suo tempo George Dubya Bush fece segretare, e che provano che fu l’Arabia Saudita, e specificamente la famiglia reale Saud, ad architettare il mega-attentato e pagare la compagnia di attentatori guidata da Mohamed Atta e il suo gruppo di piloti della domenica. Segreto di Pulcinella, perché quelle 28 pagine (sulle oltre 800 del Rapporto della Commissione) sono sì “classificate”, ma qualunque senatore Usa ha potuto leggerle, se voleva. Molti le hanno lette e già da anni vanno sussurrando che incastrano i sauditi. L’ex senatore Bob Graham, che co-presiedeva quella Commissione, lo disse quasi subito.
I ‘grandi’ media, che di solito hanno irriso come buffonesche le altre uscite di Trump, questa invece non l’hanno lasciata cadere. Anzi l’hanno ripresa e amplificata, e i politici più in vista l’hanno avallata: il candidato Bernie Sanders (J) ha dichiarato: “Era tempo che si guardasse al coinvolgimento saudita nell’11 Settembre”…La tesi è salita alla luce mediatica sempre pù accreditata, fino alla consacrazione definitiva della trasmissione “60 Minutes” della CBS, il più ufficioso e mainstream dei talk, ed anche uno dei più ebraici (tale è il conduttore, il celebre Dan Hewitt) che ha invitato l’ex senatore Bob Graham, il quale ha confermato: sì, sono stati i sauditi. Adesso tutti i media invocano la pubblicazione delle 28 pagine; la casa regnante saudita minaccia che se quelle pagine vengono rese pubbliche, svenderà i 750 miliardi di Buoni del Tesoro americano che detiene; insomma questa sta per diventare la nuova versione ufficiale: “Sono stati i sauditi”.
Il tutto in coincidenza non casuale col fatto che i rapporti fra i Saud e Washington sono al punto più basso: i monarchi detestano Obama per la pacificazione con l’Iran e per non aver “esportato la democrazia” in Siria rovesciando Assad, e se la sono legata al dito per la nascente industria dello shale oil, che renderebbe gli Usa meno dipendenti dal greggio del Golfo; e Washington ha motivi di vendetta per i conati di politica indipendente dal Protettore che il principino ereditario, “l’impulsivo” Bin Salman, ha provato a mettere a segno di testa sua. Obama, in visita a Ryad, ha consigliato ai Saud e agli emiri del Golfo di introdurre ‘riforme democratiche’ nei loro possedimenti (il che è quasi una minaccia di “esportarvela”) e di ridurre il loro “settarismo”, ossia annacquare la dose di fanatismo nel wahabismo.
Insomma: la nuova versione ufficiale è pronta per l’accettazione generale, dal Presidente ai politici ai media: “I mandanti sono stati i sauditi”. Ma allora perché il genero si scaglia contro gli “idioti scemi e ciarlatani” che non l’accettano? Forse perché l’operazione di revisione della versione ufficiale di prima è comunque un’operazione ad alto rischio. Risveglia cani che dormono: i segugi cacciatori della ‘verità sull’11 settembre’, che raccolte decine di prove del coinvolgimento israeliano nell’attentato, s’erano assopiti per stanchezza. E adesso, svegli, latrano in coro: “No, è stata la Cia col Mossad”.
L’assopimento è scusabile. Son passati 15 anni. La versione ufficiale di prima (“E’ stato Bin Laden”) è stata difesa dai media in modo da almeno, scoraggiare e demoralizzare le critiche dei “complottisti”. Chi oggi ha, poniamo, 25 anni, allora ne aveva dieci: allora non ne capì molto, ed oggi è per lui storia antica. Proprio per loro rievoco qui i tre o quattro fatti accertati, che saranno seppelliti dalla nuova versione ufficiale, se si affermerà.
Larry Silverstein (J) , immobiliarista, amico personale di Netanyahu, il 24 luglio 2001 rileva dal proprietario (la New York Port Authority) l’intero complesso del World Trade Center. E’ un contratto d’affitto per 99 anni, per il quale Silverstein s’impegna a pagare 3,2 miliardi di dollari; naturalmente a rate. Paga la prima (essenzialmente con prestiti bancari) e intanto assicura il complesso di grattacieli con 23 compagnie di assicurazione, per un totale di 3,55 milioni. Dopo l’attentato e il crollo delle Twin Towers, Silverstein chiederà agli assicuratori il doppio – 7,1 miliardi – pretendendo che i sinistri sono stati due, due essendo gli aerei che hanno colpito le Towers. Ne nacque una battaglia legale, assai complessa, in cui 10 assicuratori poterono dimostrare che il sinistro era stato uno; altri dieci dovettero anno sostenuto che la IM accettare la tesi dei due sinistri. Alla fin fine, Silverstein ha incassato 4,577 miliardi di dollari. Secondo alcuni, non senza l’aiuto del giudice Alvin Hellerstein (J), davanti al quale sono passate quasi tutte le cause legali concernenti l’11 Settembre. Il figlio di Hellerstein ha fatto alyah in Israele, abita fra i coloni fanatici nei Territori Occupati, ed è l’avvocato che rappresenta la ICTS ( International Consultants on Targeted Security) la ditta israeliana che gestisce la sorveglianza degli aeroporti, fra cui quelli dove l’11 settembre sono passati i pretesi attentatori islamici.
ZIM Shipping: grossa compagnia di navigazione cargo, per metà posseduta dallo Stato d’Israele, aveva 250 dipendenti, per sistemare i quali aveva preso in affitto l’intero sedicesimo piano e parte del 17mo della Torre 1. Il 4 settembre 2001, la compagnia trasloca con tutto il personale in una nuova sede, a Norfolk Virginia; per risparmiare, aveva poi spiegato la ditta. I cospirazionisti han sostenuto che la ZIM in realtà aveva pagato l’affitto della North Tower fino alla fine del 2001, quindi non aveva risparmiato nulla; torme di debunker si sono lanciati a smentire questa circostanza, dicendo che i cospirazionisti se l’erano inventata. Alla fine, questi hanno obbligato la New York Port Authority, in forza del Freedom of Information Act, ad esibire il contratto d’affitto che la ZIM aveva firmato: e così s’è scoperto di peggio. Ossia che la ditta aveva firmato nel 1996 un contratto decennale d’affitto, che spirava nel febbraio 2006. Ossia poteva stare lì altri quattro anni e mezzo. Invece se ne va il 4 settembre 2001. E la ZIM non aveva interrotto il contratto, né aveva cercato di subaffittare quello spazio che abbandonava, quindi in teoria avrebbe dovuto continuare a pagare l’affitto fino al 2006; si stima, sugli 8 milioni di dollari. Per fortuna sua, la distruzione della Torre Nord l’ha liberata da quell’impegno. Una armatrice preveggente e fortunata.
Gli Israeliani Danzanti. Il giorno 11 settembre, una cameriera segnò alla polizia dei giovanotti che, sul tetto di un furgone parcheggiato al Liberty State Park di Jersey City, “esultavano” , “saltavano su e giù di gioia”, e si fotografavano a vicenda con le Torri in fiamme sullo sfondo, facendo il gesto di “V” con le dita. Fermati col loro furgone, sono risultati israeliani, di nome Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari. Lavoravano (illegalmente) per l’agenzia di traslochi Urban Moving Systems, a cui apparteneva il furgone; al momento del fermo, hanno farfugliato scuse come “Non siamo noi i vostri nemici, i vostri nemici sono anche i nostri: gli arabi”. Naturalmente anche su questo evento si sono lanciati i “debunker” per cercre di farlo svanire, di dimostrare che è “un mito complottista”. Ma non è un mito che il proprietario della Urban Moving System, di nome Dominik Suter, israeliano, appena quei suoi lavoranti (tutti ex militari israeliani) sono stati presi, è fuggito in Israele; e in gran fretta, lasciando anche i computer accesi negli uffici; e ricercato dall’FBI, non è più tornato.
I cinque ragazzoni sono stati detenuti a lungo dal FBI. Poi sono stati espulsi per aver lavorato in Usa senza permesso, e quindi sottratti a ulteriori indagini, da Michael Chertoff, che il giorno 11 Settembre era il capo della divisione penale nel Dipartimento della Giustizia, e si trovava in New Jersey: qui avocò a sé tutte le prime indagini sull’attentato e guidò le polizie (locale e federale) dove era opportuno. Ne 2005 Chertoff fu elevato da Bush a ministro: capo del nuovo ministero della sicurezza interna, Department of Homeland Security. Michael Chertoff è figlio del rabbino Gherson Baruk, e di Livia Eisen, israeliana, hostess della compagnia di bandiera El Al, e divenuta famosa a suo tempo per aver sventato un dirottamento aereo da parte di palestinesi.
Philip Zelikow (la cui identità J è negata da alcuni, sostenuta da altri) è stato il capo del ‘transition team” di Bush jr.; dopo il mega-attentato Bush l’ha nominato direttore esecutivo della Commissione senatoriale sull’11 Settembre: quella dove sono le 28 pagine. In quella veste, è stato lui che ha deciso quali informazioni sulle indagini e d’intelligence passare ai senatori della Commissione, e quali non far loro vedere; anzi, secondo il giornalista Philip Shenon del New York Times, è stato lui, Zelikov, a scrivere, se non ampie parti del Rapporto della predetta Commissione, almeno la “scaletta” di esso, prima ancora che la Commissione si radunasse effettivamente.
Zelikov, che si è auto-definito “un esperto nella creazione e mantenimento di mitologie pubbliche”, nel 1998 scrisse (con Ashton Carter, il ministro della Giustizia l’11 Settembre, e l’ex capo della Cia nonché J John Deutsch) un articolo su Foreign Affairs, la rivista del Council on Foreign Relations, dal titolo: “Catastrophic Terrorim”, in cui speculava sulle conseguenze politiche di un attentato grosso come quello di Pearl Harbor, per esempio la distruzione del World Trade Center. Una vera profezia.
https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/1998-11-01/catastrophic-terrorism-tackling-new-danger
http://www.maurizioblondet.it/11-settembre-trump-adotta-la-nuova-versione-ufficiale-ed-anche/
A rilevarlo è un sondaggio condotto da Reuters e Ipsos: il 47,9 per cento dei cattolici che si dichiarano repubblicani sta con il frontrunner, ormai lanciato verso la nomination alla convention di Cleveland (colpi di coda degli avversari, permettendo). Un balzo in avanti di nove punti rispetto alla precedente stima risalente a metà febbraio. Il dato è sorprendente se si considera – e l’analisi Reuters lo sottolinea – che la crescita di consenso tra i fedeli al Papa si è avuta proprio in seguito allo scambio di opinioni (per nulla fraterne) tra Francesco e il miliardario newyorchese. Conversando con i giornalisti in aereo al ritorno del viaggio in Messico, Bergoglio era stato chiaro: “Una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Poi, quello che mi diceva, cosa consiglierei, votare o non votare: non mi immischio. Soltanto dico: se dice queste cose, quest’uomo non è cristiano”. Il giorno dopo, padre Federico Lombardi aveva tentato di gettare acqua sul fuoco, osservando che le parole del Pontefice non erano in alcun modo riferite alle esternazioni di Trump, che un muro tra Arizona e Messico vorrebbe costruirlo eccome.
ARTICOLI CORRELATI Carico da novanta di Douthat sul Nyt: il Papa e Trump sono uguali Francesco in aereo a ruota libera su aborto “male assoluto”, Trump e unioni civili Paul Manafort, l’insider che dirige la campagna presentabile di Trump Sì, è un Papa che preoccupa
Ma la domanda fatta al Papa era proprio su The Donald, che non a caso aveva immediatamente ribattuto a muso duro al vescovo di Roma: “Il Papa? E’ un personaggio molto politico. Lo stanno usando come una pedina e dovrebbero vergognarsi di farlo. Per un leader religioso mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso”. Ventiquattr’ore dopo già attenuava i toni, parlando di “incomprensione”. Lo scontro, però, non l’ha affatto danneggiato, anzi. William Paul McKane è un sacerdote cattolico del Montana, e tra il suo “principale” e il frontrunner non ha dubbi con chi stare: “Mi sembra paradossale, e lo dico con affetto, che il Papa parli di muri quando abita dietro mura alte più di quaranta piedi. Quella frase detta in aereo compromette la sua credibilità tra i miei parrocchiani”. Il fatto è che, spiega ancora il sacerdote, non si è capito che il cattolico dell’America profonda è ben distaccato da quanto si dice in Vaticano e pensa alle cose concrete, badando poco alla verbosità di un candidato. “Trump si esprime in un modo che suona poco compassionevole. Io – aggiunge McKane – non lo considero un esempio di virtù cristiana, ma non è questo che cerco in un candidato. A me interessa qualcuno che sappia prendere buone decisioni politiche”. E i requisiti che vengono valutati in via prioritaria sono la capacità di rispondere ai problemi economici e di sicurezza. Comunque, dice ancora McKane, “si tratta di questioni che sono in linea con i valori cristiani sulla protezione delle vite innocenti”.
Nessun tradimento né della morale né della dottrina, dunque. In campo democratico, chiarisce il sondaggio, la situazione è ancora più chiara: il 67,8 per cento dei cattolici sta con Hillary Clinton e solo il 29,3 sostiene Bernie Sanders. Anche in questo caso, la veloce stretta di mano all’ora del cappuccino, davanti a Santa Marta, tra il senatore del Vermont e il Papa, non ha portato consenso. Washington è lontana da Roma.
di Matteo Matzuzzi
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/04/22/i-cattolici-americani-stanno-con-trump-nonostante-il-papa___1-v-141084-rubriche_c337.htm
11 Settembre: Trump adotta la nuova versione ufficiale. Ed è nuovo anche lui.
Harvard, e sia pure lo Harvard College è un nome prestigioso di una difficile università. Notizia che assume tutto il suo sapore quando si viene informati (cito da Wiki): “secondo il giornalista Daniel Golden, Kushner e sua fratello Joshua Kushner vi sono stati ammessi nonostante le modeste credenziali accademiche dopo che suo padre ha fatto una donazione di 2,5 milioni di dollari all’università”. Un professore ha descritto l’ammissione di Jared “una scelta insolita per Harvard”, essendo il ragazzo “per nulla al vertice della sua classe”. Papà Kushner, Charles, un immobiliarista di lusso (ha l’ufficio a 666 Fifth Avenue) che ha fatto la ricca donazione, “è stato arrestato per evasione fiscale e donazioni elettorali illegali”.
Questo per sfatare al mito, diffuso tra i goy, che “gli ebrei siano più intelligenti della media”. Jared è la prova incarnata che esistono ebrei stupidi, anche con laurea ad Harvard. E conferma la sua stupidità col farsi saltare i nervi nel mezzo di una finissima operazione di depistaggio in corso nella Washington che conta: la minaccia o decisione di render pubbliche le 28 pagine del rapporto del Congresso Usa sugli attentati dell’11 Settembre, che a suo tempo George Dubya Bush fece segretare, e che provano che fu l’Arabia Saudita, e specificamente la famiglia reale Saud, ad architettare il mega-attentato e pagare la compagnia di attentatori guidata da Mohamed Atta e il suo gruppo di piloti della domenica. Segreto di Pulcinella, perché quelle 28 pagine (sulle oltre 800 del Rapporto della Commissione) sono sì “classificate”, ma qualunque senatore Usa ha potuto leggerle, se voleva. Molti le hanno lette e già da anni vanno sussurrando che incastrano i sauditi. L’ex senatore Bob Graham, che co-presiedeva quella Commissione, lo disse quasi subito.
Poi, per 15 anni, silenzio.
E’ stato proprio Trump, il suocero, a tirar fuori di nuovo le 28 pagine. A febbraio, durante un comizio in South Carolina, ha detto: se mi fate presidente scoprirete chi ha tirato giù davvero il World Trade Center…potete scoprire che sono stati i sauditi, OK?”. Allora parve un colpo quasi diretto a Jeb Bush, il fratello del presidente segretatore, che difatti s’è subito ritirato dalla corsa.I ‘grandi’ media, che di solito hanno irriso come buffonesche le altre uscite di Trump, questa invece non l’hanno lasciata cadere. Anzi l’hanno ripresa e amplificata, e i politici più in vista l’hanno avallata: il candidato Bernie Sanders (J) ha dichiarato: “Era tempo che si guardasse al coinvolgimento saudita nell’11 Settembre”…La tesi è salita alla luce mediatica sempre pù accreditata, fino alla consacrazione definitiva della trasmissione “60 Minutes” della CBS, il più ufficioso e mainstream dei talk, ed anche uno dei più ebraici (tale è il conduttore, il celebre Dan Hewitt) che ha invitato l’ex senatore Bob Graham, il quale ha confermato: sì, sono stati i sauditi. Adesso tutti i media invocano la pubblicazione delle 28 pagine; la casa regnante saudita minaccia che se quelle pagine vengono rese pubbliche, svenderà i 750 miliardi di Buoni del Tesoro americano che detiene; insomma questa sta per diventare la nuova versione ufficiale: “Sono stati i sauditi”.
Il tutto in coincidenza non casuale col fatto che i rapporti fra i Saud e Washington sono al punto più basso: i monarchi detestano Obama per la pacificazione con l’Iran e per non aver “esportato la democrazia” in Siria rovesciando Assad, e se la sono legata al dito per la nascente industria dello shale oil, che renderebbe gli Usa meno dipendenti dal greggio del Golfo; e Washington ha motivi di vendetta per i conati di politica indipendente dal Protettore che il principino ereditario, “l’impulsivo” Bin Salman, ha provato a mettere a segno di testa sua. Obama, in visita a Ryad, ha consigliato ai Saud e agli emiri del Golfo di introdurre ‘riforme democratiche’ nei loro possedimenti (il che è quasi una minaccia di “esportarvela”) e di ridurre il loro “settarismo”, ossia annacquare la dose di fanatismo nel wahabismo.
Insomma: la nuova versione ufficiale è pronta per l’accettazione generale, dal Presidente ai politici ai media: “I mandanti sono stati i sauditi”. Ma allora perché il genero si scaglia contro gli “idioti scemi e ciarlatani” che non l’accettano? Forse perché l’operazione di revisione della versione ufficiale di prima è comunque un’operazione ad alto rischio. Risveglia cani che dormono: i segugi cacciatori della ‘verità sull’11 settembre’, che raccolte decine di prove del coinvolgimento israeliano nell’attentato, s’erano assopiti per stanchezza. E adesso, svegli, latrano in coro: “No, è stata la Cia col Mossad”.
L’assopimento è scusabile. Son passati 15 anni. La versione ufficiale di prima (“E’ stato Bin Laden”) è stata difesa dai media in modo da almeno, scoraggiare e demoralizzare le critiche dei “complottisti”. Chi oggi ha, poniamo, 25 anni, allora ne aveva dieci: allora non ne capì molto, ed oggi è per lui storia antica. Proprio per loro rievoco qui i tre o quattro fatti accertati, che saranno seppelliti dalla nuova versione ufficiale, se si affermerà.
Larry Silverstein (J) , immobiliarista, amico personale di Netanyahu, il 24 luglio 2001 rileva dal proprietario (la New York Port Authority) l’intero complesso del World Trade Center. E’ un contratto d’affitto per 99 anni, per il quale Silverstein s’impegna a pagare 3,2 miliardi di dollari; naturalmente a rate. Paga la prima (essenzialmente con prestiti bancari) e intanto assicura il complesso di grattacieli con 23 compagnie di assicurazione, per un totale di 3,55 milioni. Dopo l’attentato e il crollo delle Twin Towers, Silverstein chiederà agli assicuratori il doppio – 7,1 miliardi – pretendendo che i sinistri sono stati due, due essendo gli aerei che hanno colpito le Towers. Ne nacque una battaglia legale, assai complessa, in cui 10 assicuratori poterono dimostrare che il sinistro era stato uno; altri dieci dovettero anno sostenuto che la IM accettare la tesi dei due sinistri. Alla fin fine, Silverstein ha incassato 4,577 miliardi di dollari. Secondo alcuni, non senza l’aiuto del giudice Alvin Hellerstein (J), davanti al quale sono passate quasi tutte le cause legali concernenti l’11 Settembre. Il figlio di Hellerstein ha fatto alyah in Israele, abita fra i coloni fanatici nei Territori Occupati, ed è l’avvocato che rappresenta la ICTS ( International Consultants on Targeted Security) la ditta israeliana che gestisce la sorveglianza degli aeroporti, fra cui quelli dove l’11 settembre sono passati i pretesi attentatori islamici.
ZIM Shipping: grossa compagnia di navigazione cargo, per metà posseduta dallo Stato d’Israele, aveva 250 dipendenti, per sistemare i quali aveva preso in affitto l’intero sedicesimo piano e parte del 17mo della Torre 1. Il 4 settembre 2001, la compagnia trasloca con tutto il personale in una nuova sede, a Norfolk Virginia; per risparmiare, aveva poi spiegato la ditta. I cospirazionisti han sostenuto che la ZIM in realtà aveva pagato l’affitto della North Tower fino alla fine del 2001, quindi non aveva risparmiato nulla; torme di debunker si sono lanciati a smentire questa circostanza, dicendo che i cospirazionisti se l’erano inventata. Alla fine, questi hanno obbligato la New York Port Authority, in forza del Freedom of Information Act, ad esibire il contratto d’affitto che la ZIM aveva firmato: e così s’è scoperto di peggio. Ossia che la ditta aveva firmato nel 1996 un contratto decennale d’affitto, che spirava nel febbraio 2006. Ossia poteva stare lì altri quattro anni e mezzo. Invece se ne va il 4 settembre 2001. E la ZIM non aveva interrotto il contratto, né aveva cercato di subaffittare quello spazio che abbandonava, quindi in teoria avrebbe dovuto continuare a pagare l’affitto fino al 2006; si stima, sugli 8 milioni di dollari. Per fortuna sua, la distruzione della Torre Nord l’ha liberata da quell’impegno. Una armatrice preveggente e fortunata.
Gli Israeliani Danzanti. Il giorno 11 settembre, una cameriera segnò alla polizia dei giovanotti che, sul tetto di un furgone parcheggiato al Liberty State Park di Jersey City, “esultavano” , “saltavano su e giù di gioia”, e si fotografavano a vicenda con le Torri in fiamme sullo sfondo, facendo il gesto di “V” con le dita. Fermati col loro furgone, sono risultati israeliani, di nome Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari. Lavoravano (illegalmente) per l’agenzia di traslochi Urban Moving Systems, a cui apparteneva il furgone; al momento del fermo, hanno farfugliato scuse come “Non siamo noi i vostri nemici, i vostri nemici sono anche i nostri: gli arabi”. Naturalmente anche su questo evento si sono lanciati i “debunker” per cercre di farlo svanire, di dimostrare che è “un mito complottista”. Ma non è un mito che il proprietario della Urban Moving System, di nome Dominik Suter, israeliano, appena quei suoi lavoranti (tutti ex militari israeliani) sono stati presi, è fuggito in Israele; e in gran fretta, lasciando anche i computer accesi negli uffici; e ricercato dall’FBI, non è più tornato.
I cinque ragazzoni sono stati detenuti a lungo dal FBI. Poi sono stati espulsi per aver lavorato in Usa senza permesso, e quindi sottratti a ulteriori indagini, da Michael Chertoff, che il giorno 11 Settembre era il capo della divisione penale nel Dipartimento della Giustizia, e si trovava in New Jersey: qui avocò a sé tutte le prime indagini sull’attentato e guidò le polizie (locale e federale) dove era opportuno. Ne 2005 Chertoff fu elevato da Bush a ministro: capo del nuovo ministero della sicurezza interna, Department of Homeland Security. Michael Chertoff è figlio del rabbino Gherson Baruk, e di Livia Eisen, israeliana, hostess della compagnia di bandiera El Al, e divenuta famosa a suo tempo per aver sventato un dirottamento aereo da parte di palestinesi.
Philip Zelikow (la cui identità J è negata da alcuni, sostenuta da altri) è stato il capo del ‘transition team” di Bush jr.; dopo il mega-attentato Bush l’ha nominato direttore esecutivo della Commissione senatoriale sull’11 Settembre: quella dove sono le 28 pagine. In quella veste, è stato lui che ha deciso quali informazioni sulle indagini e d’intelligence passare ai senatori della Commissione, e quali non far loro vedere; anzi, secondo il giornalista Philip Shenon del New York Times, è stato lui, Zelikov, a scrivere, se non ampie parti del Rapporto della predetta Commissione, almeno la “scaletta” di esso, prima ancora che la Commissione si radunasse effettivamente.
Zelikov, che si è auto-definito “un esperto nella creazione e mantenimento di mitologie pubbliche”, nel 1998 scrisse (con Ashton Carter, il ministro della Giustizia l’11 Settembre, e l’ex capo della Cia nonché J John Deutsch) un articolo su Foreign Affairs, la rivista del Council on Foreign Relations, dal titolo: “Catastrophic Terrorim”, in cui speculava sulle conseguenze politiche di un attentato grosso come quello di Pearl Harbor, per esempio la distruzione del World Trade Center. Una vera profezia.
https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/1998-11-01/catastrophic-terrorism-tackling-new-danger
http://www.maurizioblondet.it/11-settembre-trump-adotta-la-nuova-versione-ufficiale-ed-anche/
Cio' che piace di Donald Trump e' la sua passione per la politica, ma anche Ted Cruz, sempre preciso nei suoi interventi, e' un ottimo candidato. La corsa e' ancora lunga ed e' presto per fare previsioni, ma si ha l'impressione che la rivalita' tra i candidati questa volta sia piu' marcata. Ottimo l'articolo di Blondet.
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