ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 14 aprile 2016

Ferite non guarite

QUELLA FERITA IMMEDICABILE

Quella ferita immedicabile che ha spinto tante anime fuori dalla Chiesa. Negli anni attorno al Concilio i capi della Chiesa non avevano più quella fiducia in se stessi non si sentivano in grado di sfidare il modello di vita consumista
di F.Lamendola 

  
Jeanne Cordova (1948-2016) è stata una delle figure più rappresentative, specie nella sua fase pionieristica, del movimento omosessuale americano e della crociata delle donne lesbiche per la loro “liberazione”. Nella sua intera vita e nella sua frenetica attività per la conquista dei “diritti” si incrociano le tre componenti ideologiche più tipiche di una certa sinistra progressista statunitense: l’omosessualismo, il femminismo e l’impegno politico militante nelle frange estreme del Partito democratico. Non tutti sanno, però, che a diciotto anni, prima di aderire al movimento lesbico delle Figlie di Bilitis, Jeanne Cordova era entrata come novizia in un convento di suore del Cuore Immacolato di Maria, a Los Angeles, e che vi rimase per circa due anni, prima di convertirsi definitivamente alla sua “vocazione” di paladina e portavoce dei diritti delle persone omosessuali, e specialmente delle donne lesbiche.

È certo che la sua esperienza religiosa come suora cattolica avvenne nel luogo geografico e nel momento storico meno propizi che sia dato immaginare. La California degli ani ’60 era attraversata da un vento di contestazione e di libertinismo senza precedenti: ricordiamo che il Maggio parigino del 1968 fu preceduto, e di ben quattro anni, dai moti dell’Università di Berkeley, guidati dal Free Speech Movement; di lì a poco il cinema di Hollywood avrebbe offerto al mondo, per il godimento di tutti i giovani sessantottini, due film-cult sulla contestazione, Il laureato, del 1967, diretto da Mike Nichols, e Fragole e sangue del 1970, diretto da Stuart Hagman. Due film abbastanza stupidi, e abbastanza furbeschi, da catturare una immensa popolarità fra il pubblico: l’immagine di Dustin Hoffmann che ripudia la sua classe di origine, la buona borghesia americana, insieme ai suoi genitori e alla sua stagionata amante, in nome della libertà e dell’autenticità, scorrazzando per le strade californiane con la sua costosissima Alfa Romeo Duetto, unisce in sé, apparentemente senza problemi, né contraddizioni, due simboli di quella generazione pseudo rivoluzionaria: il disprezzo per il benessere della middle-class e la non tanto segreta attrazione per i vantaggi pratici che essa offre comunque ai bravi figli di papà in vena di giocare agli Indiani.
Ora, non c’è dubbio che la decisione di entrare in convento nel 1966, e quella di uscirne precipitosamente nel 1968, per poi passare direttamente alle lesbiche Figlie di Bilitis e alle delizie dell’amore omosessuale, abbiano molto a che fare, nel caso di Jeanne Cordova, con la “scoperta” delle proprie tendenze lesbiche; e che, inoltre, si siano intrecciate, in maniera infelice, con una serie di circostanze storiche ben precise, che avrebbero concorso a provocare una crisi spirituale anche in persone non afflitte da tensioni e conflitti psicologici di natura così intima, come lo era lei.
Tuttavia, è altrettanto certo che nella decisione di lasciare il convento, per imboccare la via delle “rivoluzione” femminista e omosessuale, da parte di questa ragazza dai marcatissimi tratti mascolini, ha pesato anche un altro fattore, che, senza dubbio, deve aver pesato parecchio pure nel caso di tanti altri uomini e donne, chiamati alla vocazione sacerdotale o, comunque, all’ideale della vita cristiana, magari come padri o madri di famiglia: il senso di disorientamento, di suprema confusione, di sbandamento vero e proprio, che provocò nei conventi, nelle chiese, nelle parrocchie di mezzo mondo la “rivoluzione” intrapresa dalla Chiesa stessa, anzi, dai vertici della Chiesa stessa, mediante il fatto del Concilio Vaticano II. E chi ha conosciuto i conventi in quegli anni, sa bene di che cosa stiamo parlando: di una fuga generale e impressionante, quasi dall’oggi al domani, di una intera generazione di seminaristi, rimasti come truppe abbandonate a se stesse dopo che gli ufficiali, per primi, e specialmente i membri dello Stato Maggiore generale, avevamo dichiarato che tutto quanto detto e creduto fino a quel momento, andava rivisto da cima a fondo; che molte verità, presentate come perenni, dovevano essere archiviate e sostituite da altre, molto più duttili ed elastiche; e che era venuto il momento in cui bisognava riscoprire il “vero” significato del cristianesimo e della Chiesa stessa, sgombrandolo da lunghi anni, e secoli, d’incomprensioni, equivoci, interpretazioni forzate e unilaterali della Scrittura e della Tradizione.
Nel caso di Jeanne Cordova, è lei stessa a rivelarci quanto ha pesato, nel suo disincanto del cattolicesimo e nella decisione di uscire dal convento, il clima d’improvvisa frenesia, di liberalizzazione all’ingrosso, di sovvertimento radicale delle certezze religiose da parte della stessa gerarchia cattolica; vale dunque la pena di riportare la sua personale testimonianza, tanto più credibile e significativa, in quanto non proviene da una persona che abbia il minimo interesse a porre in cattiva luce le novità introdotte dal Concilio Vaticano II, avendo comunque maturato tutt’altra prospettiva di vita e tutt’altri interessi esistenziali (citato nel volume: Dentro il convento. 50 monache confessano la loro sessualità, a cura di Nancy Manahan e Rosemary Curb; titolo originale: Lesbian Nuns: Breaking Silence, 1985; tradizione dall’americano di Silvia Kramar, Milano, Tullio Pironti Editore, 1986, pp. 3, 9):

Devo rimanere o dovrei andarmene? Mi avevano promesso abiti monastici, una splendida liturgia in latino, tre voti sacri, la pace santificata di una cella, la fratellanza di una grande famiglia. Invece io ero entrata nel convento lo stesso anno in cui Giovanni XXIII lo stava trasformando: era il 1966 [qui la memoria dell’Autrice si è sbagliata: papa Giovanni è morto nel 1963 e il Concilio si è concluso nel 1965].
I padri della Chiesa romana cattolica ed apostolica erano seduti al Concilio Vaticano per distruggere, in nome della modernità, tutti i miei sogni. Rimanda la liturgia in latino. Sbarazzati degli abiti. Maledici l’obbedienza sacra. Libera preti e monache dai conventi, mandali nelle strade. Se veramente avessi voluto quel mondo ci sarei rimasta! […]
Vivevo un momento di tristezza quando incontrai sorella Anne Marie, una novizia che suonava la chitarra e cantava come un angelo. Mi insegnò a suonare una canzone che s’intitolava “Puff, il Dragone Magico”, che mi misi a strimpellare in continuazione per non sentirne la mancanza, e perché lei non aveva avuto il tempo di insegnarmene un’altra. Non chiedetemi come potei innamorarmi in venti minuti: mi capitò, ecco tutto.  I perdetti dietro gli occhi blu di sorella Louise. Dopo tre settimane la cacciarono dal convento. Tutti mi lasciavano, e non avevo nessuno con cui parlare, soltanto Gesù e Maria.
Nel bel mezzo di questi scoppi di passione della mia giovane sessualità, il Concilio Vaticano decise tutt’a un tratto di cambiare il mio destino. Tutto il mondo cattolico ben presto avrebbe sentito parlare di quella forsennata di sorella Corita e del Cuore Immacolato, monache pazze californiane che si erano spinte troppo lontano [allusione a Corita Kent, 1918-1986, anche lei suora del Cuore Immacolato di Maria, a Los Angeles, poi uscita dal convento, molto nota come insegnante e come artista, specializzata in opere di serigrafia, nel movimento della Pop art, di cui oggi è riconosciuta come una figura di spicco].
Mi ritrovai nel mezzo di un uragano: andavo a seguire le lezioni di teologia come una brava postulante, mentre la Chiesa cattolica decideva di saltare a pie’ pari nel ventesimo secolo. Smisi di pregare in latino. Si diceva che presto non avremmo più indossato gli abiti; preti famosi che si chiamavano Berrigan, Elliot, Duran e altri personaggi tennero dibattiti e vennero a cena da noi. Le mie insegnanti cominciarono a riscrivere i sacramenti, quelli che io avevo imparato a memoria fin da bambina. Ci permisero di mangiare la carne al venerdì, ci dissero che improvvisamente i non cattolici erano gente per bene come i cattolici. Ci fu vietato di cantare i salmi gregoriani. Qualcuno sentenziò che in tutta probabilità, prima del giorno in cui avremmo dovuto prendere i voti, molte altre cose sarebbero state trasformate.
Gli anni ’60 avevano fatto breccia nei conventi. Tutto cambiava e io me ne stavo in disparte con la chitarra e le note di una nuova canzone: “Hello darkness, my old friend”. E quando la tristezza diventò un male fisico, ci chiamarono nell’ufficio della madre superiora, il primo gennaio del 1967, dicendo che presto ci avrebbero mandato a vivere nei conventi di Los Angeles, nel vero mondo, e che avremmo potuto iscriverci all’università del Cuore Immacolato.

Dunque, oltre alle ragioni soggettive che spinsero l’Autrice, e, senza dubbio, anche altre persone come lei, a lasciare il convento e la vita religiosa (e si noti che la pulsione omosessuale, di per sé, non è motivo sufficiente per distruggere una vocazione autentica: perché è evidente che anche le persone eterosessuali devono fare i conti con le loro pulsioni, e vincerle, sublimandole, per potersi rivolgere interamente all’amore di Dio e del prossimo), ve ne furono altre, sia per lei, sia per chissà quante persone, che vennero dall’esterno: ma non dall’esterno della Chiesa cattolica, bensì dalla Chiesa stessa, e particolarmente dai superiori, oltre che dall’esempio stesso che veniva portato dagli echi del Concilio Vaticano II.
Quando, ad esempio, la ex suora afferma che i padri della Chiesa romana cattolica ed apostolica erano seduti al Concilio Vaticano per distruggere, in nome della modernità, tutti i miei sogni, dice una cosa estremamente forte, che dovrebbe far riflettere quanti si ostinano a magnificare il Concilio Vaticano II come una luminosa stagione di rinnovamento e di riscoperta della “vera” fede cattolica; così pure, quando ricorda che le (sue) insegnanti cominciarono a riscrivere i sacramenti, quelli che lei avevo imparato a memoria fin da bambina, dice un’altra cosa molto forte e, in un certo senso, terribile. Dice che furono i “quadri” della Chiesa cattolica a procedere, da un giorno all’altro, ad una chiassosa ed incosciente auto-demolizione, traumatizzando le novizie che avevano fermamente creduto in tutte quelle cose che ora, di colpo, divenivano bersaglio di critiche spietate, o che venivano abbandonate. Ad esempio: con quale diritto le sue superiore si premisero di proibire (neanche di sconsigliare, e già sarebbe stato un abuso inconcepibile) i canti gregoriani? O di cambiare anche solo una virgola della teologia sacramentale?
Senza dubbio, e anche il brano sopra citato lo conferma, la Chiesa cattolica, specialmente in un Paese come gli Stati Uniti, ove i meccanismi della modernità stavano giungendo all’acme, attraversava un periodo difficile: era messa alla prova. Le tendenze edoniste e materialiste; l’erotizzazione esasperata, propagandata dal cinema e dalla televisione; il permissivismo sfrenato instauratosi in molte famiglie e anche nelle scuole, andavano nella direzione opposta all’etica cristiana, e tanto più allo stile di vita delle persone consacrate. Non era, peraltro, una novità storica assolutamente inedita: anche nella tarda romanità si era vissuto un contrasto altrettanto stridente fra la lussuria e il disordine morale del paganesimo morente, e il modello sobrio, severo, talvolta ascetico, proposto ed incarnato dalle comunità cristiane. In quel caso, però, fu la spiritualità cristiana ad avere il sopravvento sul libertinismo grossolano dei Romani della decadenza, perché essa aveva dalla sua la forza espansiva di una religione in piena crescita, la carica e l’entusiasmo di un popolo di credenti che avevano sfidato vittoriosamente anche la crudeltà sanguinosa delle persecuzioni imperiali.
Negli anni attorno al Concilio i capi della Chiesa cattolica, i teologi, e molti vescovi e sacerdoti (non tutti) non avevano più quella fiducia in se stessi, non si sentivano in grado di sfidare il modello di vita consumista, l’american way of life, impastato di materialismo, permissivismo e relativismo etico; preferirono giocare d’anticipo e andare incontro alle nuove tendenze, con l’aria di usare la misericordia invece che la severità (come disse testualmente Giovanni XXIII nel discorso d’apertura del Concilio stesso), mentre stavano solo tentando di mascherare la loro sfiducia in se stessi e la loro intrinseca debolezza. Molti preti si misero a blaterare di novità, di cambiamenti, d’innovazioni, seminando confusione e smarrimento nei conventi, nei seminari, nelle facoltà teologiche. Diedero scandalo alle anime semplici, ai giovani in buona fede, a quanti avevano preso la vita consacrata con tutta la debita serietà: li disgustarono e li spinsero ad allontanarsi.
Fu, in ogni caso, un calcolo totalmente sbagliato. La Chiesa non recuperò la presa sulla società civile; non ritrovò l’autorevolezza e la credibilità di un tempo. Il vecchio stile preconciliare aveva avuto degli avversari, ma si era fatto stimare per la coerenza con cui era vissuto da tanta parte del clero. I nuovi preti e le nuove suore, armati di chitarra e di musica pop, destavano solo tristezza… 

Quella ferita immedicabile che ha spinto tante anime fuori dalla Chiesa

di Francesco Lamendola


TAUBES CAPOVOLGE CRISTIANESIMO

    Ubriacatura marxista e sessantottina: Jacob Taubes o l’arte di capovolgere il cristianesimo forzandolo dall’interno. Ha seminato molta confusione e danno all’interno del cristianesimo offrendo interpretazioni radicalmente distorte 
di F. Lamendola  




È merito del saggista Roberto Manfredini, che già si era occupato, in modo non convenzionale, della spiritualità “oscura” di Hetty Hillesum, se si torna a parlare di un filosofo ebreo del Novecento che ha seminato molta confusione e che ha prodotto un certo danno all’interno del cristianesimo, offrendo una interpretazione originale del pensiero paolino, ma radicalmente distorta e affetta dalla malattia tipica dei sociologi, il relativismo: Jacob Taubes (nato a Vienna il 25 febbraio 1923 e morto a Berlino il 21 marzo 1987), che ha sfruttato, per diffondere le sue improbabili teorie, le migliori cattedre universitarie sparse per il mondo – o, almeno, le più affollate e prestigiose.
Taubes ha avuto modo di spendere (male) la sua fama internazionale di pensatore, sociologo, rabbino e studioso delle religioni, attraverso le aule della Università Ebraica di Gerusalemme, dell’Università Libera di Berlino, della Maison des Sciences de l’Homme di Parigi, nonché delle università statunitensi di Harvard, Princeton e Columbia; non sono molti gli intellettuali del XX secolo che hanno avuto a disposizione i microfoni di così tanti pulpiti, e che hanno avuto la possibilità di influenzare il pensiero di un così vasto pubblico di studenti, in tre diversi continenti. Ma non portava fortuna a coloro che gli stavano vicino: la sua prima moglie si suicidò e lui stesso fu afflitto da gravi problemi psichici di tipo maniaco-depressivo.
La sua vita si è incrociata con quella di molti personaggi famosi del suo tempo. Aveva frequentato le lezioni di Hans Urs von Balthasar e Karl Barth; ascoltato quelle di Leo Strauss; conosciito Hannah Arendt e Paul Tillich; era stato amico di Gersholm Scholem e di Herbert Marcuse; e aveva avuto a che fare, indirettamente, con Ernst Jünger e Martin Heidegger, in quanto amico di Armin Mohler, segretario del primo, e marito (in seconde nozze) d’una allieva del secondo, Margherita von Brentano. Per finire, aveva avuto una relazione con la poetessa e scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann (1926-1973), una delle icone della cultura femminista nei Paesi di lingua tedesca. Insomma lo si incontra dappertutto, si va a inciampare nel suo nome quasi ad ogni incrocio, ad ogni svolta del secolo trascorso: la sua presenza è ovunque, ora esplicita, ora elusiva (ed allusiva), quasi inafferrabile, come un vizio del quale non si può fare a meno.
Sì: è difficile provare simpatia per un simile intellettuale, che ha interpretato pienamente il ruolo di demolitore delle altrui certezze, invero sin troppo facile nell’epoca del relativismo imperante e dello scetticismo eretto a nuovo criterio di realtà; che ha mietuto consensi a buon mercato non per aver delineato un orizzonte di senso nello sviluppo della cultura europea, ma per aver, semplicemente, capovolto la teologia cristiana, anzi, negato una identità cristiana: compito che può essere valido in chi abbia anche una pars costruensda indicare al pubblico, ma che finisce per essere sterile in chi non ha nulla da offrire, oltre al piacere della negazione. Perché di intellettuali così ne abbiamo avuti già sin troppi, nel corso del XX secolo, i quali hanno proliferato, in un certo senso, come piante parassite, dilettandosi e compiacendosi di astrusi teoremi che non hanno dato alcun contributo a chiarire i grandi problemi della vita: unico compito degno della vera filosofia.
Sono figure che l’hanno fatta da padrone nella prima metà del secolo, ma che, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, ultimo atto del suicidio della civiltà europea, si sperava avessero imparato qualcosa, avessero maturato una attitudine un po’ meno vacua e corrosiva; così non è stato, ma, al contrario, si sono letteralmente scatenati nel mare magnum dello scetticismo e del relativismo, pavoneggiandosi in un anticonformismo di maniera, sempre politically correct.
Così riassume la sua più nota teoria filosofica, quella di un cristianesimo paolino tutto “rivoluzionario” e tanto gradito alla cultura di sinistra, a cominciare da una parte di quella cattolica, il giornalista Robeto Manfredini, sulla eccellente rivista mensile Il Timone (cui perdoniamo l’errore di avere inserito una foto che non è quella di Taubes; Milano, Febbraio 2016, pp. 58-60):

Secondo Taubes, Paolo non sarebbe che il rappresentante di una classica eresia ebraica, il messianismo antinomico: da tale prospettiva la crocifissione di Cristo segna la fine della Legge e il rivolgimento interiore della fede; l’adesione al sacrificio del messia comporta la distruzione di ogni prescrizione ritualistica e l’instaurazione di un nuovo tempo storico in cui ogni atto vale per se stesso: la Legge coincide con la fede, in un atteggiamento spirituale e psicologico radicalmente contrario a ogni potere e istituzione.
Ciò che predica Taubes attraverso San Paolo non è semplicemente l’apocalisse, ovvero al fine del tempo, ma il tempo della fine, vale a dire la disseminazione del messianesimo all’interno della storia, affinché esso esaurisca il mondo e lo annienti per propiziare l’entrata dell’umanità nel “Regno”. Alla negazione paolina delle identità greche e giudee in Cristo, Taubes aggiunge la negazione dell’identità cristiana stessa: non possono esistere né chiese né stati cristiani perché ogni legge è di per sé un tradimento della vera e nuova Legge, che in sostanza è una forma di anomia esteriore giustificata dalla consapevolezza in interiore di vivere negli ultimi tempi.
Quando il pensatore elaborava queste idee, era in pieno sviluppo quella che agli occhi di molti sembrava l’ultima rivoluzione possibile, quella del Sessantotto. Anni prima Taubes aveva intuito il peso che le suggestioni messianiche avrebbero avuto in un mondo dove il piano teologico e quello politico stavano amalgamandosi: in “Escatologia occidentale” (1947) egli individuò il messianismo ebraico come fenomeno carsico in tutta la storia della filosofia occidentale. In tal senso Taubes aveva già offerto una interpretazione sacralizzante di ogni possibile rivolta. Fu tuttavia solo alla fine della sua carriera che teorizzò – anche se in modo frammentario – la sua dottrina rivoluzionaria prendendo a pretesto le lettere dell’Apostolo. Nella sua “Teologia politica” egli afferma che nessuna autentica ribellione può realizzarsi senza una apertura alla trascendenza che permetta di superare le istanze delle strutture su cui si fonda l’imperium, sia esso romano, ellenistico, ebraico o cristiano.
Parimenti Taubes illustra una singolare concezione dell’eresia  di Marcione di Sinope (85-160) – che considerava il Dio amore del Nuovo testamento come antitetico a quello della Legge dell’Antico testamento – ammettendo una sua continuità con il pensiero paolino ma allo stesso tempo “esorcizzando” ogni tentativo di fare di Paolo uno gnostico tout-court. L’Apostolo è un rivoluzionario che impone i suoi valori, anzi,il valore supremo dell’Amore, affinché un nuovo Israele permetta alle genti di oltrepassare le porte del Regno in cui non varranno più i legami di sangue, di legge e di fede – intesa come normatività necessaria – ma solo lo spirito, l’amore appunto, e la permessa di una nuova umanità. Il punto più controverso di tale lettura è la contrapposizione che Taubes instaura tra il doppio precetto di Gesù – Amerai il Signore e il prossimo tuo – e l’unicità dell’Amore paolino – che secondo Taubes affermerebbe solo la necessità dell’amore per il prossimo -, il quale  non diventa la base per una nuova comunità di fedeli unita dall’agape – tale lettura per Taubes sarebbe troppo umanistica -, ma la forza dissolutrice di qualsiasi ordine politico nel segno della prossimità della fine.
Da qui consegue che la teologia politica attribuita a Paolo è integralmente negativa, ovvero sancisce l’impossibilità d qualsiasi legittimità del cristianesimo in ambito politico e, alla fine, anche in quello religioso, dato che l’azione dell’Apostolo resta, seppur in forma di eresia, cristallizzata nella storia dell’ebraismo.

Insomma: dopo Marx e Lenin, dopo Mao e Fidel Castro, ecco San Paolo quale nuovo nume tutelare del Sessantotto e, in genere, della rivoluzione: di quell’ultima rivoluzione che dovrà soppiantare e rendere inutili tutte le altre (così come le due guerre mondiali avrebbero dovuto porre fine a tutte le guerre), instaurando la perfetta emancipazione sulla terra e distruggendo per sempre il cattivo seme della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Va da sé che questa interpretazione della teologia paolina – che, fra parentesi, viene di fatto “staccata” dal messaggio di Gesù: teoria vecchia e stravecchia - piacque molto a tutti gl’intellettuali e ai giovani marxisti, che cercavano una sponda amica sul versante del cristianesimo; e moltissimo a quegli stessi cattolici “progressisti” i quali, afflitti da inestinguibile complesso d’inferiorità nei confronti dei loro più disinvolti ed emancipati “compagni” non credenti, atei e materialisti, per giunta “scientifici” nel loro comunismo, in quanto seguaci di Marx (che, a sua volta, aveva garantito la scientificità del proprio pensiero), scalpitavano nell’impazienza di far vedere a chiunque, e innanzitutto a se stessi, di che cosa erano capaci quanto a slancio rivoluzionario, a sete di giustizia politico-sociale, e a odio e disprezzo nei confronti della becera e parassitaria classe borghese, nonché di qualunque poter costituito, dai vigili urbani in su.
Sicché, per Taubes, le Lettere di San Paolo sarebbero il manuale del perfetto rivoluzionario, nemico implacabile di qualsiasi Legge, e, dunque, di qualunque istituzione; un precursore di Bakunin, più che di Marx, o forse di Proudhon. Ma via! Basta leggere, anche superficialmente, le Lettere di San Paolo, per vedere come la sua dottrina della superiorità della fede e della grazia sulla Legge mosaica non si possa in alcun modo conciliare con una concezione di tipo politico, tanti meno di segno rivoluzionario. Non ha forse detto, San Paolo, che omnis potestas a Deo, ogni autorità viene da Dio, direttamente o indirettamente, nel senso che Dio la vuole, oppure che la permette?
Il concetto – ribadito anche in altri passi delle sue Lettere – è formulato nella maniera più chiara e inequivocabile nel suo capolavoro teologico, l’Epistola ai Romani (13, 1-7):

Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto.

Quanto alla interpretazione del paolinismo come eresia finale del giudaismo, che dire?, essa è perfino imbarazzante nella sua totale inverosimiglianza; e il minimo che si possa dire in proposito è che l’ubriacatura marxista e sessantottina doveva essere davvero potente se una simile tesi è stata presa sul serio da qualcuno, anche solo per un breve momento: il che dice tutto sul conformismo e sull’appiattimento intellettuale di certe “stagioni” culturali che vengono contrabbandate – o, per meglio dire, che si auto-contrabbandano - per originali, innovative e, appunto, rivoluzionarie. Che San Paolo considerasse imminente la Parusia, questo è certo: lo dice lui stesso, non occorre essere dei mostri di filologia neotestamentaria, o d’intuizione sociologica, per rendersene conto. Ma che a ciò corrisponda una sorta di anarchismo auto-demolitore della società intera, e che il rifiuto della legge mosaica comporti anche il rifiuto di qualunque autorità costituita, a cominciare da quella politica, è cosa che Taubes si è sognato in perfetta solitudine concettuale, senza portare a sostegno alcun argomento minimamente convincente, o anche solo probabile. Ma tant’è: la sua teoria circa il paolinismo come esito finale del nichilismo apocalittico giudaico e, anzi, come esempio della perenne tentazione del nichilismo profetico, si prestava magnificamente a smontare, da un lato, tutto il cristianesimo, riducendolo a un epifenomeno del tardo giudaismo pervaso dalla bramosia suicida del cupio dissolvi; dall’altro, a farne una inedita base concettuale per gli empiti rivoluzionari di quei marxisti immaginari che, allora, sognavano la palingenesi mondiale grazie al Capitale di Marx, interpretato attraverso il Talmud, al quale non volevano rinunciare, ci mancherebbe!; ma non riuscivano a fare a meno neppure di Freud, di Walter Benjamin e – horribile dictu, e infatti non lo dicevano, o lo dicevano a bassissima voce, solo fra pochi intimi – di Nietzsche e di Carl Schmitt…

Jacob Taubes, o l’arte di capovolgere il cristianesimo forzandolo dall’interno

di Francesco Lamendola

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.