ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 6 aprile 2016

"Insegnare , santificare e governare"

Coi sacramenti non si scherza nè si fa sociologia

Parterre ricco di autorità quello che farà da sfondo alla presentazione del nuovo libro di don Nicola Bux Con i sacramenti non si scherza (Cantagalli, 2016). Il libro, che affronta una tematica decisiva oggi nella vita Chiesa, è stato scritto con la prefazione di Vittorio Messori e verrà presentato domani. Con Bux a Palazzo della Rovere a Roma (ore 17.30 in via della Conciliazione, 33) ci saranno anche i cardinali Robert Sarah, Raymond Leo Burke e l'economista Ettore Gotti Tedeschi. Di seguito la prefazione curata da Vittorio Messori gentilmente concessa dall'editore alla Nuova Bussola Quotidiana

Scrive don Nicola Bux, affrontando la trattazione del sacramento dell’ordine: "I caratteri distintivi del sacerdozio sono nel conferimento e nell’esercizio dei tre munera , ossia compiti o uffici: insegnare , santificare e governare". Quanto al "governare",  non so se don Nicola ne abbia modo o motivo. Sul "santificare" non ho dubbi: so quanto sia instancabile nel tenere fede alla sua chiamata di mediatore tra sacro  e profano, tra Dio e uomo, amministratore convinto e competente com’è dei sacramenti. Venendo all’insegnare: beh, proprio questo suo nuovo libro è una conferma in più di come prenda sul serio il munus affidatogli alla consacrazione sacerdotale. Oltre a molti altri libri è, questo, il terzo   che dedica alla liturgia nella Chiesa di sempre e, soprattutto, di oggi. 
La sua grande competenza, da ben noto e stimato cattedratico del tema, è messa al servizio dell’insegnamento attraverso queste opere: non, dunque, per gruppi selezionati di studenti ma per ogni cattolico, praticante abituale o saltuario che sia. O anche, come càpita sempre più spesso, semplicemente per una donna o per un uomo in ricerca. Infiltrata dalla corrente oggi prevalente in Occidente e che tende a creare una sorta di società liquida, dove tutto sembra, appunto, liquefarsi in tutto, anche la Chiesa  pare voler dissolvere i contorni netti della fede in una sorta di brodo indeterminato e rimescolato dal "secondo me" di certi sacerdoti.  
Non ostacolati, anzi istigati, dai teologi che sappiamo. Ebbene: della fede, i sacramenti sono l’espressione, il frutto, il dono più alto e prezioso. Ecco, dunque, il nostro liturgista dedicarsi al tema, con la passione consueta, seguendo l’utile schema già impiegato nei libri precedenti. Innanzitutto, cioè, chiarire, per ognuno dei sette "segni efficaci" l’oggetto, il significato, la storia. Poi – necessaria, e più che mai attuale – l’avvertenza circa le deformazioni, gli equivoci, le aggiunte o le sottrazioni che oggi minacciano quel sacramento. Dunque, una catechesi in uno stile che sa essere al contempo dotto e divulgativo, seguìta da una sorta di “manuale per l’uso“. L’efficacia è confermata anche dall’ottimo successo che i libri hanno avuto non solo in Italia ma anche nei Paesi nella cui lingua sono stati tradotti.
Don Bux sa essere severo verso certi suoi confratelli e verso quel loro prurito “creativo“ che li induce a intaccare una disciplina liturgica che non è inutile formalismo bensì sostanza stessa del sacramento. Ma i suoi avvertimenti non hanno il tono sprezzante o imperioso dell’inquistore o, peggio, dell’ideologo con le sue sbarre e le sue gabbie. In lui, il richiamo all’ordine è espresso, in fondo, con la comprensione di chi ben sa quale sia la cultura deformata e deformante in cui anche gli uomini di Chiesa sono immersi. E ben sa, oltretutto, quanto incompleta e magari sospetta sia la formazione (se ancora è tale) che viene impartita troppo spesso allo sparuto gruppo dei seminaristi superstiti. Pare di cogliere nel professore che qui scrive una sorta di pietas per i poveri preti, pur dietro il rimbrotto. Ad essi, da confratello specialista ma non per questo chiuso nella torre d’avorio accademica, ad essi, dunque addita non solo una lista di errori e di equivoci, ma anche la direzione verso la quale muoversi per cercare di rimediare.  
Alla base di tutto quanto succede nella Catholica ormai da decenni, c’è quanto l’autore denunciava anche nei libri precedenti: quella "svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio". La sociologia invece della teologia, il Mondo che oscura il Cielo, l’orizzontale senza il verticale, la profanità che scaccia la sacralità. La sintesi cattolica – quella sorta di legge dell’et-et, di unione degli opposti che regge l’intero edificio della fede – è stata troppo spesso abbandonata per una unilateralità inammissibile. 
Quanto ai sacramenti in particolare: da laico, sarei tentato di lanciare una sorta di monito ai sacerdoti. Attenti, mi verrebbe da dire, non sappiamo che farcene, (ne abbiamo già troppi) di sociologi, sindacalisti, politologi, psicologi, ecologi, sessuologi e, in genere, di tuttologi! Attenti, perché non c’è bisogno di preti, frati, monaci che esercitino i mestieri che dicevo, per giunta spesso da improbabili orecchianti. Non si dimentichi mai che quella che soltanto il consacrato può esercitare, quella dove non ha e non può avere “concorrenza”, è la funzione di tramite, di legame, tra l’uomo e Dio. Nell’amministrazione, appunto, dei sacramenti. E‘ il “santificare“ ilmunus che – per ridurci all’essenziale - ne giustifica l’esistenza e la presenza. Ottimo, se ben condotto, l’impegno clericale nel sociale, nella cultura, in ogni campo dell’attività, della cultura, del lavoro umani. Ottimo ma non indispensabile: anche noi laici quegli impegni sappiamo esercitarli e li esercitiamo, assai spesso, ben meglio.  Da professionisti e non da dilettanti. Ma solo un uomo cui sono state imposte le mani scandendo sul suo capo le parole alte e terribili tu es sacerdos in aeternum, solo un uomo così può assicurarci il perdono di quel Cristo di cui è tramite; e può trasformare, nella fede, il vino e il pane nel sangue e nella carne del Redentore. Lui solo. Nessun altro al mondo.  
Le folle si accalcano, per un istinto profondo, attorno all’altare e al confessionale di padre Pio, spintonando per essere il più vicini possibile alla sua eucaristia e per potere avere il privilegio di affidare a lui i peccati che Gesù giudicherà. Ma non si conoscono folle, se non di studenti iscritti a quel corso, attorno alla cattedra del chierico teologo che spiega che è puerile credere alla realtà anche “materiale“ dell’eucaristia. E che è una sceneggiata, indegna del cristiano adulto, pensare che il perdono dei peccato passi attrverso uno strumento, un uomo come noi. Già: ma al contempo, invisibilmente, diverso. Diverso perché consacrato.
Post Scriptum. Proprio il giorno dopo avere concluso le pagine qui sopra, ho ricevuto l'ultimo libro di Hans Küng: Morire felici? Il teologo svizzero (che si offende se qualcuno non lo definisce "cristiano", anzi "cattolico") è tra i promotori ed attivisti di Exit, la più nota ed attiva organizzazione in Europa per la "morte assistita", cioè l'aiuto fattivo per l'eutanasia. Con macabra ipocrisia , chi chiede di farla finita è trattato come in un confortevole albergo e, al momento da lui desiderato, è fatto accomodare sulla poltrona di un salotto silenzioso e deserto. Una infermiera pone sul tavolino un bicchiere con una bevanda dal sapore gradevole ma spaventosamente tossica e se ne va , chiudendo la porta. Porta che sarà riaperta poco dopo per constatare la morte e portare via il cadavere. Ipocrisia macabra, dicevo: Exit si limita a mettere a disposizione un luogo tranquillo e a posare sul mobile un veleno mortale: che può farci se quel signore, o quella signora, decidono di bere la mistura? Sono liberi, perbacco, nessuno li obbliga.
Il "cattolico" Küng è prete e non ha mai chiesto di abbandonare il sacerdozio, anche se nessuno lo ha mai visto con un clergyman o, peggio, con paramenti ecclesiastici, ed egli stesso si stupirebbe molto se qualcuno lo chiamasse "don Hans". Già nel capitolo introduttivo di questo suo pamphlet che intende dimostrarci quanto suicidio ed eutanasia siano "biblici", anzi "evangelici", non manca, come sempre, di scagliarsi contro quella Catholica che lo ha ordinato, che gli ha dato il potere di amministrare i sacramenti. Scrive, dicendo di desiderare il vero bene dell'uomo, cosa che non fanno i disumani monsignori romani: "Vorrei una Chiesa che aiutasse l'uomo a morire, anziché limitarsi a dargli l'estrema unzione. Si tratta di aiutare a morire bene una persona che vuole dire addio alla vita".
Impegno sociale sino agli estremi, dunque: una struttura creata e gestita dalla Chiesa che accolga gli aspiranti suicidi e li aiuti a raggiungere il loro fine, rapidamente e senza dolore. Questa è la carità, questo il dovere della comunità cristiana! E' forse caritatevole limitarsi a quel sacramento, a quell'estrema unzione (o unzione degli infermi, come oggi si dice ) che si limita ad accompagnare alla morte biascicando antiche parole e procedendo ad anacronistiche unzioni, non occupandosi però delle sofferenze fisiche del morituro? Lui, Küng, non ha dato e non da il buon esempio, pilastro illustre com'è di Exit , di quella agenzia "sociale" che accoglie, con premura cristiana, chi altrimenti sarebbe costretto a gettarsi nel fiume o dalla finestra o a farsi stritolare dal treno?
E' con amarezza che ho qui spiacevole conferma della domanda che, sopra, mi facevo: dimentichi come sono del loro ruolo di insondabile valore, di un ruolo che nessun altro al mondo può esercitare, che ce ne facciamo di preti così? Chi, accanto al suo letto di morte, chi vorrebbe un professore di teologia nella prestigiosa università di Tübingen e non lo scambierebbe volentieri col più oscuro e magari indotto dei preti, ancora consapevole, però, del valore tanto misterioso quanto efficace - nel senso vero - del sacramento? 
di Vittorio Messori*05-04-2016
*Autore della prefazione al libro di don Nicola Bux "Coi sacramenti non si scherza" (Cantagalli, 2016)


“L’Islam, il gender, l’alta finanza: ecco l’Occidente”

Dire la verità dopo una vita passata al servizio della menzogna. È questa, in sintesi, la svolta di Danilo Quinto, per anni tesoriere del Partito Radicale e braccio destro di Marco Pannella poi convertitosi al cattolicesimo. E Verità e menzogne è anche il titolo del suo ultimo libro (Solfanelli, pp. 224, euro 16), una raccolta di saggi sull’attualità più recente.
Tante storie da raccontare: dall’Islam alla droga, dal Gruppo Bildeberg ai Marò, dalla tragedia dell’euro al carrozzone Europa, dal “sesso per disabili fatto da volontari” alla mercificazione della morte in televisione, dai rom al matrimonio omosessuale, dal “gender” alla Massoneria, dal “Mondo di Mezzo” al Mezzogiorno, dall’industria del calcio alla minaccia del Vesuvio, dai parlamentari cattolici firmatari di appelli a favore di Radio Radicale ai Vescovi che parlano di Costituzione e non di Vangelo, dalle “primavere arabe” alla dilagante corruzione italiana, dal Concilio Vaticano II alle foibe, dal “Patto del Nazareno” alla Chiesa con due Papi. Tanti personaggi: da Silvio Berlusconi a Vasco Rossi, da Marco Pannella a Giorgio Gaber, da Giulio Andreotti a Papa Francesco, da Emma Bonino a Totò Riina, da Erri De Luca a Massimo D’Alema, da Umberto Veronesi a Matteo Renzi, da Angelo Rizzoli a Eugenio Scalfari, da Enrico Letta a Mario Monti, da Romano Prodi a Pier Paolo Pasolini, da Rino Gattuso a Ignazio Marino, da Giorgio Napolitano a Aldo Moro, da Benedetto XVI a George Soros.
Danilo Quinto, ex tesoriere della «più formidabile macchina mangiasoldi della partitocrazia italiana», com’era la sua vita da radicale?
La mia vita era quella di un lavoratore, che gestiva decine di milioni di euro. Lavoravo 15 ore al giorno, sabati e feste comprese, senza ferie, sottopagato, gestendo strutture e il lavoro di centinaia di persone. Dopo vent’anni, non ho avuto diritto ad una liquidazione, né avrò una pensione, mentre, tutti gli ex parlamentari radicali, contrari al finanziamento pubblico, incassano lauti emolumenti. Ho perso la causa di lavoro e ora non possiedo neanche una macchina e sopravvivo con lavori precari.
Lei ha raccontato della persecuzione da parte di Pannella. Chi è davvero il leader radicale?
Un santo per l’establishment politico e ecclesiastico, ma è un grande manipolatore: è stato alleato della partitocrazia per cinquant’anni facendo credere di essere suo nemico. Oggi, a casa sua, quella stessa partitocrazia gli scodinzola attorno, come i segugi da caccia dietro al bracconiere. Lui ha impallinato tutti i principi morali, a cominciare dall’omosessualità, con la quale si sono formate le carriere politiche. Non ha più bisogno dei segugi: lo legittimano le telefonate del Papa, per il quale la sua “principessa”, Emma Bonino, è la «grande italiana». Per tutti, Pannella ha vinto.
Cosa ha significato, per lei, la conversione e il fuggire dai radicali?
E’ stato come uscire dalle tenebre, nel senso letterale. Non perché Pannella sia Satana. Significherebbe attribuirgli troppa importanza. Perché ho scoperto la forza e la bellezza della Verità, quella che ha insegnato Cristo, sulla croce, agli uomini di ogni tempo.
Perché lasciare la “redditizia” via della menzogna e intraprendere quella assai meno “conveniente” della verità?
E’ Dio a decidere, a usare la Sua libera iniziativa nei confronti di una Sua creatura donandogli la grazia. Se si accetta e si condivide la “mossa” di Dio, non ci sono alternative alla Verità, perché Dio è la Verità.
Da cosa nascono i saggi di Verità e menzogne?
Dal timore di Dio, dalla certezza che tutte le cose umane sono governate dalla legge di Dio e dalla Regalità Sociale di Suo Figlio. Da qui discende il dovere di testimoniare la mia fede, costi quel che costi, qualsiasi sia il prezzo da pagare. Per me, il prezzo è stato molto alto, ma ne sono fiero, perché gli occhi con i quali mi devo confrontare sono solo quelli di mio figlio, al quale – grazie a Dio – posso donare l’amore per la Libertà e per la Verità.
Cosa significa leggere la realtà con gli occhi diversi, quelli di un cattolico?
Gli occhi di un cattolico guardano la Croce. E allora, l’amore immenso di Cristo, che vive quel dolore proprio per me, mi pacifica con il mondo intero. Il male che può colpirmi è permesso da un Padre buono (come dice San Paolo, “tutto concorre al bene”) che lava i miei peccati con il sangue di Suo Figlio. Così, non posso aver paura. Posso solo ringraziarlo, lodarlo e amarLo con tutto me stesso nell’Eucaristia.
Tiepidezza dell’occidente ex cristiano e invasione islamica in corso: un bel mix.
La “terza rivelazione” – come viene chiamata nei testi di storia della scuola media italiana – è penetrata nell’Europa cristiana grazie ad un disegno massonico. Con l’omosessualismo, rappresenta la seconda “leva” della dissoluzione. Ad entrambi, si contrappone il nulla, perché il pensiero cattolico contemporaneo è inesistente. L’Islam non si combatte solo rafforzando il colabrodo dei servizi di sicurezza degli Stati europei, ma impedendo che la finanza islamica conquisti l’Europa, in accordo con i gruppi finanziari occidentali
http://ilgiornaleoff.ilgiornale.it/2016/04/05/lislam-si-combatte-ostacolando-la-finanza-altro-che-eserciti/

Comunisti italiani ed europei contro la Chiesa cattolica


Le nefandezze dei comunisti italiani ed europei documentate in un libro recetemente pubblicato.
di Antonio Socci (03-04-2016)
È il febbraio 1974. In Francia esce Arcipelago Gulag, monumentale atto d’accusa contro il comunismo. Su Aleksandr Solgenitsyn si scatena la tempesta.
Quello di Breznev è un comunismo marcio, ottuso, tirannico e fallimentare che a Praga ha soffocato la “primavera” con i carri armati e in Polonia ha represso gli scioperi del dicembre 1970 facendo sparare sugli operai. Le mummie comuniste del Cremlino fanno fronte al dissenso interno – oltre che con i lager – inventando i “manicomi politici”.
e92b69eb95893de2c6676f58797b2502_finettibottegheoscureUgo Finetti ricostruisce nel suo volume Botteghe Oscure (Ares), cosa accade nel PCI – guidato da Enrico Berlinguer – dopo che, il 12 febbraio, Solgenitsyn viene arrestato ed espulso dall’Urss come “diffamatore della patria” e “marionetta al servizio del fascismo e della reazione”.
Scrive Finetti:
Il Pci prende quindi le distanze dalle posizioni di Solgenitsyn. È Giorgio Napolitano, come responsabile culturale, a esprimere pubblicamente la posizione del Pci. “Noi”, scrive sull’Unità, “certo non sottovalutiamo la natura di grave misura restrittiva dei diritti”. Napolitano rimprovera però allo scrittore un “atteggiamento di sfida allo Stato sovietico e alle sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica, alle istituzioni”. “Solo commentatori faziosi e sciocchi”, lamenta Napolitano, “possono prescindere dal punto di rottura cui Solgenitsyn aveva portato la situazione”.
È significativo che a scrivere queste cose – obiettivamente imbarazzanti – sia stato Giorgio Napolitano che, dal libro di Finetti, emerge di gran lunga come il politico più illuminato, più “liberale” e saggio del PCI di quegli anni.
Questo dice quanto il Pci fosse impastato con il comunismo internazionale e quanto Napolitano abbia (sempre) mancato di coraggio. In effetti la cosa più sorprendente che si scopre dal libro di Finetti – un’analisi fredda e oggettiva dei verbali (finora inediti) dei vertici del PCI – è la confusione politica della leadership di Berlinguer che appare così contraddittoria e velleitaria, da far giganteggiare Napolitano come suo antagonista.
Finora la figura di Berlinguer è stata avvolta da una certa mitologia. Se la sua vicenda politica verrà riletta con oggettività e laicità (e il libro di Finetti è un primo passo) si capirà quanto e perché la sua ortodossia comunista e la sua ossessiva ostilità a Craxi abbiano condannato il PCI ad andare a schiantarsi sul Muro di Berlino nel 1989 (con pessime conseguenze, anche per il nostro Paese). Non tratto qui il secondo aspetto (relativo a Craxi), ma voglio segnalare – tratti dal libro di Finetti – alcuni fatti relativi all’ortodossia comunista di Berlinguer che ci portano fuori dall’agiografia e ci aprono gli occhi sulla verità storica. Ne elenco alcuni.
Golpe rosso
Dopo il “caso Solgenitsyn”, nell’aprile 1975 in Portogallo prendono il potere dei militari di estrema sinistra che, con l’appoggio del PC portoghese, estromettono dal governo i socialisti e sciolgono la Democrazia Cristiana. Proprio in quei giorni in Italia si apre il XIV Congresso del PCI e – scrive Finetti – “nella relazione introduttiva Enrico Berlinguer non ha parole di condanna”.
Infatti chiama il golpe rosso “processo politico assai complicato”, per poi respingere gli attacchi di “giudici altezzosi e ipocriti della condotta delle forze antifasciste portoghesi più conseguenti che cercano le vie per impedire il ritorno della reazione”.
Lo stesso Paolo Spriano ricorda che a quel congresso delegati e dirigenti del PCI salutarono “con una ovazione” il rappresentante del Pc portoghese il quale “nel suo intervento difende il colpo di stato dei militari di sinistra” (Finetti). Solo nelle conclusioni Berlinguer prende un po’ le distanze.
Quanto ai regimi comunisti dell’Est, Berlinguer afferma: “il dato fondamentale è che in tutti i Paesi socialisti si è registrato e si prevede un forte sviluppo produttivo… È ormai universalmente riconosciuto che in quei Paesi esiste un clima morale superiore (…). È un fatto: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no”.
È appena il caso di ricordare che i regimi comunisti in quegli anni stavano affondando nella corruttela generalizzata, nella più brutale repressione e le loro economie erano ormai al collasso: la gente faceva la fame.
U.S.A. e getta
Apparve come un fatto storico, nel 1976, la frase detta da Berlinguer, per accreditarsi, nella celebre intervista a Gianpaolo Pansa: “mi sento più sicuro stando di qua” (cioè sotto la Nato).
Ma nelle stesse ore egli attaccò le socialdemocrazie, dove resta “l’alienazione” del capitalismo, mentre se “pure nelle società socialiste c’è forse ancora una forma di alienazione (…) là i lavoratori non si sentono più degli sfruttati”. Infatti erano direttamente degli schiavi.
Il 29-30 giugno 1976, alla Conferenza dei partiti comunisti a Berlino Est, Berlinguer “evita di tornare sull’accettazione della Nato e ribadisce la condanna delle vie seguite dalla socialdemocrazie”.
Poi sottoscrive il documento finale che solidarizza con il Pcus di fronte alle “campagne contro i partiti comunisti, contro i Paesi socialisti, a cominciare dall’Urss”.
Regime
Nel 1977 la Biennale – che negli anni precedenti era stata dedicata alla “Libertà in Cile” e alla Spagna liberata dal franchismo – fu dedicata al “Dissenso culturale nell’Urss e nei Paesi dell’Est”. Si scatenò il finimondo.
“Il Pci condanna l’iniziativa”, scrive Finetti, “e i direttori della sezione teatro, Luca Ronconi, e arti visive, Vittorio Gregotti, si rifiutano di collaborare al programma sul dissenso dimettendosi”.
Il socialista Carlo Ripa di Meana, presidente della Biennale, che difende l’iniziativa, “registra una ostilità ben oltre l’area comunista: anche il direttore democristiano della sezione cinema si dimette” ricorda Finetti “e negano spazi, documenti e collaborazione Rai, Rizzoli, Casa Ricordi, l’Università Ca’ Foscari e la Fondazione Cini presieduta dal repubblicano Bruno Visentini. E’ significativo” conclude Finetti “che sul piano politico in questa vicenda regge l’asse Pci-Dc-Pri che in Parlamento blocca il rifinanziamento della Biennale”.
Da allora “la posizione di Berlinguer sarà sempre più tiepida di fronte alle repressioni sovietiche tanto che a proposito del mondo in cui il Pci reagisce alla condanna dei dissidenti sovietici Sharanskij e Ginzburg il Corriere della sera – il 12 luglio 1978 – titola: ‘C’è ancora l’eurocomunismo?’ ”.
A mettere in dubbio l’affidabilità occidentale del Pci fu anche la sua opposizione agli euromissili che la Nato decise di installare in risposta agli SS20 sovietici. Restava dunque insormontabile il “fattore K”. Berlinguer, al XV Congresso, nella primavera del 1979, replicò ai critici: “Non abbiamo alcuna intenzione di rinnegare o sminuire i legami storici che il nostro partito ha con la rivoluzione d’Ottobre e con l’opera di Lenin”. Non solo.
CONTRO WOJTYLA
“L’avversione nei confronti del ‘papa polacco’ in nome del Concilio è una costante del Pci degli anni ‘80” ricorda Finetti.
E’ vero che per il golpe polacco del 12 dicembre 1981, che spazza via Solidarnosc, il Pci formulerà una dura condanna e Berlinguer parlerà di esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione d’ottobre.
Ma c’è un “dettaglio” che fa riflettere. Finetti nota come “già il 28 gennaio 1981 il Pci sia a conoscenza del colpo di Stato che si sta preparando in Polonia”. E “il Pci di Berlinguer – da allora fino al colpo di Stato di dicembre – non ritenne opportuno attivarsi per denunciarlo. In quel gennaio 1981 il leader del sindacato polacco Lech Walesa è a Roma. Nessun colloquio con esponenti del Pci”.
Non è stupefacente?
Finetti aggiunge: “Ancora nel 1983 alla domanda ‘Quale uomo stima di più in campo internazionale?’, il leader del Pci non guarda certo a Willy Brandt o a Olof Palme. Risponde: ‘Un tempo avrei detto Tito o Ho Chi Minh, oggi non saprei. Stimo Kadar”. E’ colui che andò al potere in Ungheria dopo l’invasione sovietica.

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