ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 8 maggio 2016

È qui che vogliono arrivare, certi teologi?

ABOLIRE LA CREAZIONE

    Si vuol mettere fra parentesi la Creazione per affrancare l’uomo dal legame con Dio. Senza il legame con Dio creatore siamo esseri incompleti miseramente mutilati cosa che dispiace non poco alla cultura moderna laicista 
di Francesco Lamendola  




Da molto tempo la cultura laicista vorrebbe mettere fra parentesi il fatto della Creazione, affinché l’uomo venga affrancato da qualunque legame, da qualunque dipendenza, da qualunque gratitudine, dovere o affetto, nei confronti di Dio. Questo, lo si riesce a capire: se Dio c’è, se Dio ha creato l’universo, allora noi siamo sue creature; ma, se siamo creature, non siamo dei soggetti assoluti, aventi in se stessi la propria ragion d’essere. Peggio ancora: se Dio ci ha creati, ci ha creati a sua immagine, necessariamente: ma allora noi non siamo veramente noi, non siamo perfetti in noi stessi, non siamo autosufficienti: senza il legame con Dio creatore, siamo esseri incompleti, imperfetti, miseramente mutilati. Tutto questo, però, dispiace non poco alla cultura moderna, laicista, secolarista, materialista, edonista (e chi più ne ha, più ne metta); essa vorrebbe affrancare l’uomo da una simile “servitù”; dunque, bisogna abolire Dio, o, quanto meno, abolire la sua creazione.
Un mondo auto-sussistente, ecco l’ideale: non c’è più nemmeno bisogno di prendersela frontalmente con Dio, né litigare con la dimensione religiosa: basta fare di Dio, il mondo, e del mondo, Dio. Il mondo diviene il Dio di se stesso. Ecco: il panteismo, più che il deismo, è la religione appropriata alla cultura moderna: non nega Dio, non si ingolfa in discussioni interminabili sulla Creazione; semplicemente, la “oltrepassa”, la rende inutile. Il mondo c’è sempre stato, perché il mondo è Dio. Dio non ha avuto bisogno di crearlo; e nemmeno di amarlo, come un soggetto ama un oggetto. Il mondo è Dio: e tutti sono contenti. Sia i credenti che i materialisti. Non Nietzsche, troppo impetuoso, troppo sanguigno; non Voltaire, troppo beffardo, ma anche troppo all’antica; e nemmeno Heidegger, o Sartre, troppo cupi e depressivi; ma Spinoza è il filosofo tipico della modernità: Spinoza che riduce l’etica a geometria, e che fa del rapporto d’amore fra Dio e l’uomo una questione puramente razionale e matematica.
Tutto questo, ripetiamo, lo si può capire: le strategie sono insite nelle premesse. C’è una logica, c’è una coerenza intellettuale. Quel che si capisce assai meno, o, piuttosto, che non si capisce affatto, è come la dottrina dell’eterna esistenza del mondo si stia insinuando, e in maniera sempre meno velata, sempre più esplicita, fra le pieghe di certa teologia “cattolica”, che, dagli anni del Concilio Vaticano II in poi, si è incessantemente adoperata, con pazientissima, millimetrica precisione (gutta cavat lapidem), a intaccare, logorare, demolire, piano, piano, in gran silenzio, con somma discrezione, le basi stesse della dottrina e della fede cattolica, per ridurla, sempre più, ad una sorta di deismo naturalistico, dove tutto quel che viene dal mondo è perfettamente legittimo, appunto perché naturale (con la notevole eccezione della differenza fra i sessi; in quel caso, e in quello soltanto, si depreca un eccessivo “naturalismo” della Chiesa, ancora legata al “vecchio” schema  maschio/femmina, rivendicando il diritto di ciascuno a scegliersi, soggettivamente, la propria identità sessuale, e magari a cambiarla in corso d’opera, anche più volte).  Non si capisce, cioè, per quale ragione dei teologi che si definiscono cattolici, e perfino dei vescovi e dei sacerdoti, abbiano pressoché smesso di parlare della Creazione; del fatto che noi, come del resto ogni altra cosa, ogni altro ente, veniamo anche materialmente da Dio, e a Dio ritorniamo; per parlare invece, sempre più spesso, e con sempre maggiore petulanza, della bellezza del creato, del dovere dell’uomo di custodirlo, di esserne responsabile. Tutte cose giuste, per carità, ma insufficienti: perché, se si mette fra parentesi il fatto della Creazione, ecco che l’espressione “creato” perde automaticamente il suo significato cristiano, e diventa un sinonimo di “mondo”, nel senso puramente materialistico della parola. E allora, dove va a finire l’anima? Ed ecco che l’aborto, per esempio, diventa logico, perché “naturale”: un feto di pochi giorni o settimane, può avere un’anima? Un essere che non è ancora nato, che non è ancora “uomo”, può partecipare della dimensione soprannaturale? Evidentemente no. In compenso, molti “cattolici” si profondono in esortazioni e dotte discussioni sulla dimensione “ecologista” del Vangelo; citano – a sproposito – San Francesco; lo arruolano fra i precursori del pensiero ambientalista. Che sciocchezza! San Francesco si guarda bene dall’adorare la natura: egli adora e loda Dio, perché ha creato la natura.
Che ci dicano, dunque, la verità, una buona volta, tutti costoro, figli e nipotini di quei “teologi” olandesi che, alla metà degli anni Sessanta del ‘900, scrissero e pubblicarono il famoso (o famigerato) Nuovo Catechismo: credono ancora nella Creazione, costoro? Credono ancora che Dio ha creato dal nulla tutte le cose, che le ha tratte dal non essere all’essere, che ha impresso loro il soffio vitale dell’esistenza? E che lo ha fatto per amore, gratuitamente, senza alcuna necessità di ordine logico? Che lo ha fatto soltanto e unicamente perché ha voluto condividere con delle creature intelligenti, spirituali (gli angeli) e materiali (gli uomini), l’amore infinito che Egli è, e che, appunto perché infinito, non può fare altro che espandersi, espandersi sempre, ma, nello stesso tempo, rispettando la libertà delle sue creature, e quindi proponendo ad esse il suo progetto amorevole, ma senza imporlo, senza renderlo obbligatorio? Ci sia permesso di dubitarne. È troppo forte l’impressione che l’obiettivo deliberato di certe punte “avanzate” del pensiero cattolico, della pastorale cattolica, dell’ecumenismo cattolico, stiano in realtà perseguendo la demolizione sistematica delle basi stesse della dottrina cattolica: la Creazione, la Trinità, l’Incarnazione, la Resurrezione, e la stessa dottrina del Peccato e della Grazia, da cui, necessariamente, deriva quella relativa all’Inferno e al Paradiso. Già, l’Inferno. Ai teologi moderni (e modernisti), non piace. Lo trovano scomodo, spigoloso, fuori moda. Nella loro idea di un Dio esclusivamente misericordioso, l’Inferno stride terribilmente: vorrebbero abolirlo, vorrebbero far sì che non sia mai stato neppure pensato. E, non potendo arrivare a tanto, si industriano di mostrare che la Chiesa, per secoli, ha sbagliato, insegnando una religione bastata sulla paura; che il cristiano “adulto” non ha bisogno del Babau, non serve che qualcuno cerchi di spaventarlo con storie di diavoli e punizioni eterne: Dio è amore, dunque perdona tutti; dunque, nessuno è perduto, nessuno è eternamente dannato. Che sospiro si sollievo! Sparisce, così, l’idea di Dio giudice; meglio: sparisce l’idea di un uomo che, alla fine, dovrà giudicarsi da se stesso, come, del resto, aveva invece ammonito San Paolo (Romani, 1, 20-21): Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa; perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato, né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. In ultima analisi, è questo che spiace maggiormente all’uomo moderno: l’idea dell’Inferno. Egli non la può ammettere: lo spaventa troppo,  non solo in senso fisico, ma anche in senso metafisico, perché lo riconduce alle sue precise responsabilità. L’Inferno non è una “pena” calata dall’alto, da un Dio geloso e vendicativo: è il castigo che l’uomo si infligge da sé, allorquando, gonfio di superbia, nega la verità divina e pretende di farsi il Dio di se stesso.
E tutto prende le mosse dal Catechismo Olandese. Scriveva, in proposito, Vittorio Messori, ormai più di vent’anni fa (in: La sfida della fede. Fuori e dentro la Chiesa: la cronaca in una prospettiva cristiana, Milano, Edizioni San Paolo, 1993, pp.  281-282):

Già nel troppo celebre “Nuovo Catechismo Olandese”, nel quale confluirono gli orientamenti che stava assumendo  certa teologia post-conciliare (fu pubblicato nel 1966) sembra cominciare quella “crisi” del Dio creatore  denunciata dal prefetto della Congregazione della fede come in grado di insidiare tutto l’edificio del cristianesimo.
Come forse si ricorda, la vicenda “olandese” fu sconcertante perché lo stesso papa, Paolo VI, volle che a quel “Catechismo” fossero apportate correzioni ne numerosi punti  in cui, stando a Roma, si passava sotto silenzio o si modificava la dottrina tradizionale. I teologi olandesi, spalleggiati dal loro episcopato, rifiutarono le modifiche. Il papa giunse a nominare  una commissione cardinalizia, ma non ottenne altro che l’elaborazione di un “supplemento” dove i punti contestati (che restavano tali e quali nel libro) ricevevano una trattazione più aderente alla dottrina cattolica.
Intanto, malgrado il divieto romano, il “Catechismo” era tradotto nelle principali lingue senza alcuna modifica  né aggiunta, mentre Paolo VI sfogava la sua amarezza  parlando di “turbamenti tra i fedeli per le nuove opinioni”, alle quali, però, a Roma stessa, non si era voluto o saputo opporsi in modo efficace. Come altre volte in questi  anni, sorprende questo lagnarsi  un po’ lamentoso e inefficace da parte di chi doveva – e, se, ce ne fosse stata vera volontà, poteva – provvedere.
Comunque sia, nel catechismo, uscito dalle menti dei teologi dell’università “cattolica” di Nimega, alla dottrina di Dio creatore con cui iniziano sia la Bibbia che il Credo, non era dedicato nessun esplicito capitolo o paragrafo, accennandosene soltanto qua e là nel testo. Non solo. La rima correzione chiesta dalle commissioni di teologi e cardinali messe in piedi dal papa era così formulata: “Si dovrà insegnare che Dio ha creato, oltre al mondo sensibile nel quale viviamo, anche il regno dei puri spiriti che chiamiamo angeli”. Seconda correzione: “Si deve spiegare che le anime  dei singoli uomini, perché spirituali,  sono create immediatamente da Dio”.
In contestazione, dunque, era già la parte del “Credo” che definisce Dio creatore non solo “della terra” ma anche del “cielo”, delle cose “invisibili” oltre che visibili e il provenire da lui del’anima che informa la materia  del corpo umano.
Da allora, il silenzio (e talvolta la negazione esplicita) si sono allargate; fino a quella che il cardinale Ratzinger  ha chiamato “la situazione di abbandono del tema  della creazione da parte di Dio  nell’annuncio cattolico dei nostri giorni”.
Il problema, stando al Prefetto della Congregazione per la fede, è talmente basilare e grave (“i racconti con cui si apre la Bibbia vengono nascosti; le loro affermazioni non sembrano, a certi teologi, più proponibili”) che egli stesso è sceso in campo pubblicando un pamphlet – “Creazione e peccato”, Edizioni S. Paolo - per tentare di reintrodurre il tema  nella predicazione e nella catechesi. 

Se non che, mettere fra parentesi, o addirittura, in prospettiva, abolire il fatto della Creazione, equivale non già ad affrancare l’uomo da una supposta servitù, ma a votarlo ad una perpetua infelicità ed ad una certa rovina: perché l’uomo è, e rimane, una creatura, e la creatura non trova in se stessa il proprio significato, né il proprio destino, né la propria libertà, né la propria felicità; ma li trova uscendo da se stesso, da quel piccolo, fragile, limitato essere che egli è, per rivolgersi alla sorgente luminosa dell’Amore infinito, dalla quale egli, come ogni altra cosa esistente, ha avuto origine: Dio.
Inoltre, se si abolisce il fatto della Creazione, viene a cadere la necessità della Redenzione: che cosa ci sarà mai da redimere, in un mondo che esiste da sé, e che non deve la propria esistenza a nessuno? Evidentemente, un mondo siffatto risponde unicamente alle leggi della natura: e la natura, in quanto natura, non è soggetta a giudizio, ma solo al principio di sopravvivenza. Nella natura non ci sono il bene e il male; tanto meno il Peccato e la Grazia. Nella natura ci sono solamente degli enti che lottano per l’esistenza e per la sopravvivenza; lotta che non ha nulla a che fare con la morale. È un’altra cosa. Questa non è affatto la prospettiva cristiana; la prospettiva cristiana concepisce una realtà soprannaturale, dalla quale procede la realtà naturale. Nella prospettiva cristiana, la natura è creata da Dio, non si è creata da se stessa, non esiste da se stessa; e in essa vi è la legge morale naturale, che Dio ha impresso nella mente e nel cuore delle creature intelligenti. Il loro rifiuto di adorare e ringraziare il Creatore equivale alla rivolta della natura contro Dio e ferisce la natura con la drammatica realtà del Peccato. Ora, dal peccato l’uomo non può redimersi: per definizione, redimere è cosa che spetta a qualcuno che sta al di sopra; non può farlo chi sta al livello della cosa da cui si vuol redimere. L’uomo, per redimersi, ha bisogno di Dio. Ha avuto bisogno della Trinità, nonché dell’Incarnazione, della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo; ha avuto bisogno che Dio, dopo averlo creato, lo cercasse, lo chiamasse, lo esortasse, si facesse uomo e si sacrificasse per amor suo, mostrandogli poi la via della risurrezione e affidandolo, per tutti i giorni sino alla fine del mondo, all’azione consolatrice e fortificante dello Spirito Santo. Del resto, se non fosse creatura, l’uomo sarebbe un aborto, uno sbaglio, un frutto del caso. È qui che vogliono arrivare, certi teologi?

 
Si vuol mettere fra parentesi la Creazione per affrancare l’uomo dal legame con Dio

di Francesco Lamendola

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