Come preannunciato la scorsa settimana, oggi si affronta l’argomento della situazione della Fraternità San Pio X dopo le recenti “aperture” di Bergoglio. Una riflessione necessaria e inevitabile, dato il senso di smarrimento che vivono molti fedeli, che stentano a trovare guide sicure in una Chiesa che ha ricevuto un ulteriore micidiale colpo con la pubblicazione dell’Amoris Laetitia. Infine cercheremo di dare una risposta alla domanda che, in questa drammatica contingenza, non può non scaturire: che fare? PD
È proprio sul fraintendimento, sul significato e sul contenuto diversi conferiti al concetto di “dottrina”, che si può giungere a un riconoscimento, anche inverosimilmente unilaterale, della FSSPX… è la guida della neochiesa anticristica quella che offre persino ai famigerati “lefebvriani” uno stanzino nella Casa Comune…
Giovedì 12 maggio 2016
.
Cari amici,
mai come di questi tempi, così avari di buoni pastori, tanti cattolici si sentono spronati ad aguzzare la vista in una penombra desolante, a tendere l’orecchio verso qualche voce che parli con parole riconoscibili e di casa. Per questo sono particolarmente sensibile anche al solo timore che i pochi punti di riferimento dati per certi possano venire meno. E non è strano che un buon numero di vostre lettere manifestino tale preoccupazione a seguito dei recenti incontri tra i vertici della Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX) e l’attuale Pontefice. Ciò pur tenendo conto di tutte le precisazioni che ne sono seguite, perché una mappa dei commenti e dei sommovimenti sorti in proposito all’interno della stessa Fraternità fondata da monsignor monsignor Marcel Lefebvre presenta uno spettro di posizioni così ampio da rendere legittimo più di qualche allarmato interrogativo.
In una lunga intervista a Dici, organo della Casa Generalizia della FSSPX, il superiore generale monsignor Bernard Fellay ha definito “paradossale” la situazione degli attuali rapporti con Roma: “Bisogna qui utilizzare il termine ‘paradossale’, il paradosso di una volontà di andare avanti verso un qualche ‘Vaticano III’, nel senso peggiore che si potrebbe dare a questa espressione, e, dall’altra parte, la volontà di dire alla Fraternità: ‘Siete i benvenuti’”.
Una simile chiave interpretativa lascia intravedere una seria titubanza nella lettura di una realtà che, grazie all’irruzione sulla scena di Bergoglio, si chiarisce invece di giorno in giorno. Non stupisce, quindi, se dentro la stessa FSSPX in proposito emergono voci contrastanti che possono essere riassunte in due posizioni.
Quella di don Franz Schmidberger, il primo successore di monsignor Lefebvre alla guida della Fraternità, che in una sua nota parla di un sorprendente bisogno di normalità: “Roma abbassa progressivamente le sue richieste e le proposte recenti non parlano più di riconoscere il Vaticano II, né la legittimità del Novus Ordo Missae. Così, sembra che sia arrivato il momento di una normalizzazione della Fraternità, e questo per diverse ragioni”.
E quella di tenore decisamente opposto di don Jean-Michel Gleize. Teologo di spicco della FSSPX, don Gleize ribadisce tutti gli impedimenti a una “normalizzazione” posti da un’eventuale accettazione dei testi del Concilio Vaticano II e dice, citando una conferenza di monsignor Lefebvre del 1984: “Quello che c’interessa innanzitutto, è mantenere la fede cattolica. E’ questa la nostra battaglia. Allora la questione canonica, puramente esteriore, pubblica nella Chiesa, è secondaria. (…). Essere riconosciuti è secondario. Allora non dobbiamo cercare il secondario perdendo ciò che è primario, quello che è il primo obiettivo della nostra battaglia”.
Per concludere questa breve panoramica, va segnalato che la FSSPX ha fatto proprie le critiche severe di don Gleize e don Matthias Gaudron ad Amoris laetitia. Analisi circostanziate che non lasciano margine all’interpretazione e da cui si può trarre la lecita conclusione che il testo bergogliano di cattolico ha ben poco: il che equivale a dire che non lo è.
Eppure, terminato il giro d’orizzonte, si continua a percepire la stessa idea di provvisorietà che si sentiva in principio. E per fugarla non serve a nulla privilegiare una delle diverse interpretazioni, che abbiamo ridotto a due per ragioni di semplicità. Perché, circa la questione dei rapporti con l’attuale gerarchia ecclesiale, id est Bergoglio, il dibattito interno e i riflessi esterni della Fraternità San Pio X si concentrano su un tema che non è più all’ordine del giorno: la dottrina.
Mi rendo conto che un simile fatto sia difficile da comprendere per intelligenze che si sono esercitate per decenni in cruente e meritorie diatribe dottrinali. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, se si vuole riprendere il termine impiegato da monsignor Fellay, questa è la realtà. Bergoglio ha derubricato la dottrina dall’ordine del giorno delle discussioni con un atto di imperio e, se ci si siede al suo tavolo, si deve parlare d’altro. Le povere argomentazioni del segretario della commissione Ecclesia Dei monsignor Guido Pozzo, che tenta di porre qualche paletto estraendolo da un’ermeneutica continuista del Vaticano II, sono appunto solo povere argomentazioni. Al momento opportuno, il vescovo venuto dalla fine del mondo le rottamerà nella discarica delle vecchie procedure clericali e non se ne parlerà più.
A Bergoglio, della dottrina cattolica non importa proprio niente. Tutt’al più la considera un odioso balocco per infanti d’altri da custodire nella nursery: se vogliono giocare, che ci giochino, ma solo dentro il loro recinto. “Ha anche detto che noi siamo cattolici” riferisce monsignor Fellay nell’intervista a Dici. “Ha rifiutato di condannarci per scisma, dicendo: ‘Non sono scismatici, sono cattolici’, anche se dopo ha usato un termine un po’ enigmatico, cioè che noi siamo in cammino verso la piena comunione. Questo termine ‘piena comunione’… sarebbe proprio bello una volta avere una definizione chiara, perché si vede che non corrisponde a niente di preciso”.
E poi, a conferma del fatto che le questioni dottrinali non contano più, il Superiore della FSSPX ha aggiunto: “Ed ecco che, tutto d’un tratto, su questi punti che sono i punti di inciampo, gli inviati di Roma ci dicono che si tratta di questioni aperte. Una questione aperta è una questione su cui si può discutere. E quest’obbligo di adesione è fortemente attenuato e anche, forse, del tutto eliminato. Penso che sia un punto fondamentale”.
Quel “Penso che sia un punto fondamentale” è segno che l’esca gettata da Bergoglio ha avuto gioco facile nel catturare quanto meno l’attenzione dell’interlocutore cattolico: quanto la dottrina si riduce un vermiciattolo a buon mercato per chi la disprezza, tanto è un manicaretto succulento per chi ha trascorso una vita a difenderla. Ma è proprio su questo fraintendimento, sul significato e sul contenuto diversi conferiti al concetto di “dottrina”, che si può giungere a un riconoscimento, anche inverosimilmente unilaterale, della FSSPX.
Se il nocciolo della questione fosse veramente un concetto chiaro e condiviso di “dottrina”, l’eventuale soluzione potrebbe spiegarsi con una sola tra due ipotesi opposte. Ipotesi A: questa Chiesa e questa gerarchia hanno definitivamente rifiutato il Vaticano II, la teologia che lo ha preparato e le scelte che ne sono seguite. Ipotesi B: la Fraternità fondata da monsignor Lefebvre ha accettato tutto quanto si è prefissa di combattere. A meno che non si prenda in considerazione la via intermedia della semi-comunione, che però non esiste in natura e in soprannatura ed è affare per menti malaticce. Ma se le due ipotesi sono entrambe irreali, significa che il concetto di “dottrina” è talmente ambiguo da essere fondamentale per un interlocutore e inesistente per l’altro.
Tra il 2011 e il 2012, durante gli incontri tra la Fraternità San Pio X e i rappresentanti romani voluti da Benedetto XVI, ero convinto che ci fosse un margine di manovra. Ero convinto si potesse forzare la situazione sfruttando il clima di critica al Vaticano II alimentato dall’immeritata immagine di “Papa tradizionalista” con cui veniva presentato Ratzinger. Ne parlai a lungo con i vertici della FSSPX. Forse, e sottolineo forse, il riconoscimento della FSSPX allora avrebbe funzionato da detonatore facendo esplodere, o implodere, i caposaldi conciliari proprio perché il presunto “tradizionalista” Benedetto XVI poneva la questione dottrinale. Non se ne fece nulla e non so se avessi ragione o no.
Ora la questione è ben diversa e un’eventuale soluzione positiva della contesa tra Roma e Fraternità San Pio X sarebbeesplosiva, o implosiva, per la fondazione di monsignor Lefebvre e per il più vasto mondo tradizionale. Ciò perché Bergoglio, a differenza di Ratzinger, elimina la questione dottrinale con l’espediente della pastoralità.
Ma se il vero nodo della vicenda non sta più nell’oggetto della discussione, che per uno dei due interlocutori è privo di interesse, allora sta nel soggetto che ha mutato le carte sulla tavola. Questo, però, pare la FSSPX non lo voglia intendere. Anche i più ostili avversari di un eventuale accordo ritengono che la gravità della situazione sia solo mutata di grado: nell’errore erano i Papi conciliari fino a Benedetto XVI e nell’errore, anche se più evidente, è Francesco I.
Invece, dal “Buonasera” del 13 marzo 2013, i fatti dicono che qualcosa è cambiato e non si può non vedere la duplicità della figura di Bergoglio: da un lato, recalcitrante capo quasi invisibile di una Chiesa cattolica ridotta sulla soglia dell’ultimo respiro e, dall’altro, il trionfale e visibilissimo condottiero dell’anticristica neochiesa della Casa Comune. Un fenomeno inedito, se così si può dire, di schizofrenia spirituale in seguito alla quale il vescovo venuto dalla fine del mondo combatte Colui di cui è Vicario in terra. Di volta in volta, si tratta di capire quale delle due personalità prevalga e vi sono segni chiarissimi per individuarla.
Per esempio, quella che oscura le esigenze e il rigore di una pur fallace dottrina non può certo essere la figura che sta a capo della Chiesa cattolica. Dunque, è la guida della neochiesa anticristica quella che offre persino ai famigerati “lefebvriani” uno stanzino nella Casa Comune progettata di squadra e compasso. Eppure, dentro la Fraternità San Pio X si fatica a percepire questo gioco delle parti tra i due Bergoglio. Si vede solo quello in continuità con gli errori dei suoi predecessori e questo spiega l’incapacità di comprendere le ragioni di tanta e inattesa attenzione.
“Una delle spiegazioni” dice in proposito monsignor Fellay “è lo sguardo di Papa Francesco su tutto ciò che è messo ai margini, ciò che chiama le ‘periferie esistenziali’. Non mi stupirebbe che ci considerasse come una di queste periferie alle quali dona palesemente la sua preferenza. E in quella prospettiva, usa l’espressione ‘compiere un percorso’ con la gente in periferia, sperando che si arriverà a migliorare le cose. (…)
Si vede bene che per lui, quando dice ‘povertà’, include anche la povertà spirituale, la povertà delle anime che sono nel peccato, dal quale bisognerà che escano, che bisognerà ricondurre a Dio. Anche se ciò non è sempre espresso in maniera chiara, si trovano un certo numero di espressioni che lo indicano. E in quella prospettiva egli vede nella Fraternità una società molto attiva – soprattutto quando la si paragona alla situazione dell’establishment -, molto attiva vuol dire che cerca, che va a cercare le anime, che ha questa preoccupazione del bene spirituale delle anime e che è pronta a rimboccarsi le maniche per questo compito”.
Ancora una volta mi pare evidente che la tagliola del fraintendimento sia scattata senza pietà. Quando monsignor Fellay parla della “povertà delle anime che sono nel peccato, dal quale bisognerà che escano, che bisognerà ricondurre a Dio”, non tiene conto che Bergoglio conferisce al termine “peccato” un significato diverso da quello che intende la dottrina cattolica: così diverso che lo ha sostanzialmente abolito. Ancora una volta, non si potrebbe dare ambiguità più grande e fraintendimento più pericoloso, visto che le interpretazioni dello stesso concetto stanno ai due estremi opposti.
Non dubito che la Fraternità San Pio X continui e continuerà a professare la stessa dottrina, a celebrare il rito di sempre, ad assistere i fedeli con uguale zelo. Ma tutto questo impegno, pur rimanendo uguale a se stesso, sotto l’influsso della pastoralità con cui Bergoglio ha azzerato il concetto stesso di cattolicità, rischia di mutare l’asse su cui è diretto. Tirato un sospiro di sollievo per la dottrina che non viene più messa in discussione, si finisce irrimediabilmente a incontrarsi sul terreno della prassi con un movimento simmetrico: per la neochiesa, la dottrina depotenziata sta alla pastorale come per la FSSPX dialogante la pastorale sta a una dottrina restaurata. In linguaggio matematico si tratta di una proporzione in cui i due estremi sono legati dall’identità del termine medio che li domina e li regola: la pastorale.
È questo che fa dire a don Schmidberger: “Noi abbiamo dei simpatizzanti tra i sacerdoti e i cardinali, tra i quali certuni vorrebbero appellarsi a noi per aiutarli, ci darebbero delle chiese e forse ci affiderebbero la cura di un seminario. Ma attualmente, a causa della nostra situazione, per loro è impossibile farlo. (…) Come supererà questa crisi la Chiesa? Nello stato attuale delle cose, si vede che non vi è neanche un barlume di speranza. Di contro, l’atto ufficiale di riconoscimento della Fraternità innescherebbe un sano trambusto all’interno della Chiesa. Il bene sarebbe incoraggiato, i malevoli subirebbero una disfatta”.
Sono intendimenti buonissimi, ma posti lungo l’ambiguo asse della pastoralità pensato ad arte per frustrarli e traviarli. Tanto nella Chiesa quanto nella neochiesa di Bergoglio, la pastorale non è altro che esercizio di un potere ab-soluto, sganciato da qualsiasi vincolo superiore. Riconoscerla come terreno su cui collaborare per sottrarsi a richieste dottrinali è pura illusione, poiché significa riconoscere al sovrano ab-soluto la possibilità di abusare del potere senza limite alcuno su qualsiasi cosa, persona o idea si posi sul suo regno. Dottrina compresa, che può essere annientata definitivamente con la semplice decisione di dichiararla ininfluente ai fini di una disputa. Sarebbe paradossale se questo avvenisse grazie al riconoscimento di chi ha fatto della difesa della dottrina la ragione della propria esistenza.
In questa chiave, fatico non poco a vedere, come invece fa monsignor Fellay, che “certamente dietro a tutto ciò c’è la Divina Provvidenza. La Divina Provvidenza che opera per mettere dei buoni pensieri in un Papa che, su molti punti, ci spaventa enormemente, e non solamente noi”. E trovo ancora più problematica questa visione se la si legge in combinato disposto con la risposta di don Schmidberger all’obiezione, storicamente provata, che tutte le congregazioni che si sono sottomesse a Roma si sono adattate al sistema conciliare o sono sparite: “La nostra posizione di partenza non è la stessa: nel nostro caso è Roma che fa pressione per trovare una soluzione e che si avvicina a noi. Negli altri casi erano queste congregazioni che chiedevano, recandosi spesso a Roma con un senso di colpa”.
Chi ha letto anche distrattamente Tolkien non può fare a meno di pensare alla tremenda attrazione del potere dell’Anello, alla tentazione di collaborare con il male illudendosi di trarne il bene. Potrà anche sembrare ingeneroso evocare qui un tale tema, ma allora bisogna spiegare se è ancora attuale quanto monsignor Lefebvre diceva nell’omelia per l’ordinazione dei quattro vescovi il 30 giugno 1988: “È per questo che ho inviato una lettera al Papa dicendogli chiaramente: ‘Noi non possiamo, malgrado ogni desiderio che abbiamo di essere in comunione con Voi. Dato questo spirito che regna oggi a Roma e che Voi volete comunicarci, preferiamo continuare nella Tradizione, conservare la Tradizione, in attesa che questa Tradizione ritrovi il suo posto, in attesa che questa Tradizione ritrovi il suo posto nelle autorità romane, nello spirito delle autorità romane. Questo durerà quanto è previsto dal Buon Dio’”.
E la stessa domanda vale per quanto il fondatore della Fraternità San Pio X scriveva in una lettera ai futuri vescovi il 29 agosto 1987: “Vi conferisco questa grazia confidando che quanto prima la Sede di Pietro sarà occupata da un successore di Pietro perfettamente cattolico, nelle mani del quale voi potrete rimettere la grazia del vostro episcopato perché egli la confermi”.
La Sede di Pietro è occupata oggi da un successore perfettamente cattolico? È così importante avere dall’abbraccio mortale di Bergoglio un riconoscimento canonico? Non è più in atto quello “stato di necessità” su cui la Fraternità San Pio X ha sempre fondato la sua azione?
Ma è un’altra domanda a cui bisogna veramente rispondere: perché Bergoglio ritiene così importante chiudere la questione relativa alla Fraternità San Pio X? Anche qui siamo davanti al paradosso, perché in realtà al vescovo venuto dalla fine del mondo non gli interessa tanto riconoscere quanto essere riconosciuto dalla FSSPX. È nella natura del potere moderno, che non trova legittimità in un ordine superiore, trarla dal riconoscimento dei sudditi. Bergoglio, sovrano ab-soluto che ha eliminato qualsiasi visione soprannaturale della Chiesa, ha un bisogno vitale di essere legittimato dal consenso e non può tollerare il dissenso. Despota alla guida del leviatano, è inquieto se percepisce l’esistenza di qualcuno o di qualcosa che sfugge al suo controllo, non riposa fino a quando anche l’ultimo ribelle non ha riconosciuto la sua legittimità.Fino a quando tutti hanno chiesto di poter circolare nel suo regno portando il suo marchio. Per questo brama che la Fraternità San Pio X entri al più presto nella Casa Comune, come ultima e definitiva sfumatura dell’arcobaleno delle religioni in cui, da Bose e passando per i cannibali animisti, c’è posto persino per i “lefebvriani”. Basta che stiano buoni.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
Le parti precedenti sono state pubblicate il 13 aprile (clicca qui), il 22 aprile (clicca qui) e il 3 maggio (clicca qui).
Giovedì 12 maggio 2016
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Cari amici,
mai come di questi tempi, così avari di buoni pastori, tanti cattolici si sentono spronati ad aguzzare la vista in una penombra desolante, a tendere l’orecchio verso qualche voce che parli con parole riconoscibili e di casa. Per questo sono particolarmente sensibile anche al solo timore che i pochi punti di riferimento dati per certi possano venire meno. E non è strano che un buon numero di vostre lettere manifestino tale preoccupazione a seguito dei recenti incontri tra i vertici della Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX) e l’attuale Pontefice. Ciò pur tenendo conto di tutte le precisazioni che ne sono seguite, perché una mappa dei commenti e dei sommovimenti sorti in proposito all’interno della stessa Fraternità fondata da monsignor monsignor Marcel Lefebvre presenta uno spettro di posizioni così ampio da rendere legittimo più di qualche allarmato interrogativo.
In una lunga intervista a Dici, organo della Casa Generalizia della FSSPX, il superiore generale monsignor Bernard Fellay ha definito “paradossale” la situazione degli attuali rapporti con Roma: “Bisogna qui utilizzare il termine ‘paradossale’, il paradosso di una volontà di andare avanti verso un qualche ‘Vaticano III’, nel senso peggiore che si potrebbe dare a questa espressione, e, dall’altra parte, la volontà di dire alla Fraternità: ‘Siete i benvenuti’”.
Una simile chiave interpretativa lascia intravedere una seria titubanza nella lettura di una realtà che, grazie all’irruzione sulla scena di Bergoglio, si chiarisce invece di giorno in giorno. Non stupisce, quindi, se dentro la stessa FSSPX in proposito emergono voci contrastanti che possono essere riassunte in due posizioni.
Quella di don Franz Schmidberger, il primo successore di monsignor Lefebvre alla guida della Fraternità, che in una sua nota parla di un sorprendente bisogno di normalità: “Roma abbassa progressivamente le sue richieste e le proposte recenti non parlano più di riconoscere il Vaticano II, né la legittimità del Novus Ordo Missae. Così, sembra che sia arrivato il momento di una normalizzazione della Fraternità, e questo per diverse ragioni”.
E quella di tenore decisamente opposto di don Jean-Michel Gleize. Teologo di spicco della FSSPX, don Gleize ribadisce tutti gli impedimenti a una “normalizzazione” posti da un’eventuale accettazione dei testi del Concilio Vaticano II e dice, citando una conferenza di monsignor Lefebvre del 1984: “Quello che c’interessa innanzitutto, è mantenere la fede cattolica. E’ questa la nostra battaglia. Allora la questione canonica, puramente esteriore, pubblica nella Chiesa, è secondaria. (…). Essere riconosciuti è secondario. Allora non dobbiamo cercare il secondario perdendo ciò che è primario, quello che è il primo obiettivo della nostra battaglia”.
Per concludere questa breve panoramica, va segnalato che la FSSPX ha fatto proprie le critiche severe di don Gleize e don Matthias Gaudron ad Amoris laetitia. Analisi circostanziate che non lasciano margine all’interpretazione e da cui si può trarre la lecita conclusione che il testo bergogliano di cattolico ha ben poco: il che equivale a dire che non lo è.
Eppure, terminato il giro d’orizzonte, si continua a percepire la stessa idea di provvisorietà che si sentiva in principio. E per fugarla non serve a nulla privilegiare una delle diverse interpretazioni, che abbiamo ridotto a due per ragioni di semplicità. Perché, circa la questione dei rapporti con l’attuale gerarchia ecclesiale, id est Bergoglio, il dibattito interno e i riflessi esterni della Fraternità San Pio X si concentrano su un tema che non è più all’ordine del giorno: la dottrina.
Mi rendo conto che un simile fatto sia difficile da comprendere per intelligenze che si sono esercitate per decenni in cruente e meritorie diatribe dottrinali. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, se si vuole riprendere il termine impiegato da monsignor Fellay, questa è la realtà. Bergoglio ha derubricato la dottrina dall’ordine del giorno delle discussioni con un atto di imperio e, se ci si siede al suo tavolo, si deve parlare d’altro. Le povere argomentazioni del segretario della commissione Ecclesia Dei monsignor Guido Pozzo, che tenta di porre qualche paletto estraendolo da un’ermeneutica continuista del Vaticano II, sono appunto solo povere argomentazioni. Al momento opportuno, il vescovo venuto dalla fine del mondo le rottamerà nella discarica delle vecchie procedure clericali e non se ne parlerà più.
A Bergoglio, della dottrina cattolica non importa proprio niente. Tutt’al più la considera un odioso balocco per infanti d’altri da custodire nella nursery: se vogliono giocare, che ci giochino, ma solo dentro il loro recinto. “Ha anche detto che noi siamo cattolici” riferisce monsignor Fellay nell’intervista a Dici. “Ha rifiutato di condannarci per scisma, dicendo: ‘Non sono scismatici, sono cattolici’, anche se dopo ha usato un termine un po’ enigmatico, cioè che noi siamo in cammino verso la piena comunione. Questo termine ‘piena comunione’… sarebbe proprio bello una volta avere una definizione chiara, perché si vede che non corrisponde a niente di preciso”.
E poi, a conferma del fatto che le questioni dottrinali non contano più, il Superiore della FSSPX ha aggiunto: “Ed ecco che, tutto d’un tratto, su questi punti che sono i punti di inciampo, gli inviati di Roma ci dicono che si tratta di questioni aperte. Una questione aperta è una questione su cui si può discutere. E quest’obbligo di adesione è fortemente attenuato e anche, forse, del tutto eliminato. Penso che sia un punto fondamentale”.
Quel “Penso che sia un punto fondamentale” è segno che l’esca gettata da Bergoglio ha avuto gioco facile nel catturare quanto meno l’attenzione dell’interlocutore cattolico: quanto la dottrina si riduce un vermiciattolo a buon mercato per chi la disprezza, tanto è un manicaretto succulento per chi ha trascorso una vita a difenderla. Ma è proprio su questo fraintendimento, sul significato e sul contenuto diversi conferiti al concetto di “dottrina”, che si può giungere a un riconoscimento, anche inverosimilmente unilaterale, della FSSPX.
Se il nocciolo della questione fosse veramente un concetto chiaro e condiviso di “dottrina”, l’eventuale soluzione potrebbe spiegarsi con una sola tra due ipotesi opposte. Ipotesi A: questa Chiesa e questa gerarchia hanno definitivamente rifiutato il Vaticano II, la teologia che lo ha preparato e le scelte che ne sono seguite. Ipotesi B: la Fraternità fondata da monsignor Lefebvre ha accettato tutto quanto si è prefissa di combattere. A meno che non si prenda in considerazione la via intermedia della semi-comunione, che però non esiste in natura e in soprannatura ed è affare per menti malaticce. Ma se le due ipotesi sono entrambe irreali, significa che il concetto di “dottrina” è talmente ambiguo da essere fondamentale per un interlocutore e inesistente per l’altro.
Tra il 2011 e il 2012, durante gli incontri tra la Fraternità San Pio X e i rappresentanti romani voluti da Benedetto XVI, ero convinto che ci fosse un margine di manovra. Ero convinto si potesse forzare la situazione sfruttando il clima di critica al Vaticano II alimentato dall’immeritata immagine di “Papa tradizionalista” con cui veniva presentato Ratzinger. Ne parlai a lungo con i vertici della FSSPX. Forse, e sottolineo forse, il riconoscimento della FSSPX allora avrebbe funzionato da detonatore facendo esplodere, o implodere, i caposaldi conciliari proprio perché il presunto “tradizionalista” Benedetto XVI poneva la questione dottrinale. Non se ne fece nulla e non so se avessi ragione o no.
Ora la questione è ben diversa e un’eventuale soluzione positiva della contesa tra Roma e Fraternità San Pio X sarebbeesplosiva, o implosiva, per la fondazione di monsignor Lefebvre e per il più vasto mondo tradizionale. Ciò perché Bergoglio, a differenza di Ratzinger, elimina la questione dottrinale con l’espediente della pastoralità.
Ma se il vero nodo della vicenda non sta più nell’oggetto della discussione, che per uno dei due interlocutori è privo di interesse, allora sta nel soggetto che ha mutato le carte sulla tavola. Questo, però, pare la FSSPX non lo voglia intendere. Anche i più ostili avversari di un eventuale accordo ritengono che la gravità della situazione sia solo mutata di grado: nell’errore erano i Papi conciliari fino a Benedetto XVI e nell’errore, anche se più evidente, è Francesco I.
Invece, dal “Buonasera” del 13 marzo 2013, i fatti dicono che qualcosa è cambiato e non si può non vedere la duplicità della figura di Bergoglio: da un lato, recalcitrante capo quasi invisibile di una Chiesa cattolica ridotta sulla soglia dell’ultimo respiro e, dall’altro, il trionfale e visibilissimo condottiero dell’anticristica neochiesa della Casa Comune. Un fenomeno inedito, se così si può dire, di schizofrenia spirituale in seguito alla quale il vescovo venuto dalla fine del mondo combatte Colui di cui è Vicario in terra. Di volta in volta, si tratta di capire quale delle due personalità prevalga e vi sono segni chiarissimi per individuarla.
Per esempio, quella che oscura le esigenze e il rigore di una pur fallace dottrina non può certo essere la figura che sta a capo della Chiesa cattolica. Dunque, è la guida della neochiesa anticristica quella che offre persino ai famigerati “lefebvriani” uno stanzino nella Casa Comune progettata di squadra e compasso. Eppure, dentro la Fraternità San Pio X si fatica a percepire questo gioco delle parti tra i due Bergoglio. Si vede solo quello in continuità con gli errori dei suoi predecessori e questo spiega l’incapacità di comprendere le ragioni di tanta e inattesa attenzione.
“Una delle spiegazioni” dice in proposito monsignor Fellay “è lo sguardo di Papa Francesco su tutto ciò che è messo ai margini, ciò che chiama le ‘periferie esistenziali’. Non mi stupirebbe che ci considerasse come una di queste periferie alle quali dona palesemente la sua preferenza. E in quella prospettiva, usa l’espressione ‘compiere un percorso’ con la gente in periferia, sperando che si arriverà a migliorare le cose. (…)
Si vede bene che per lui, quando dice ‘povertà’, include anche la povertà spirituale, la povertà delle anime che sono nel peccato, dal quale bisognerà che escano, che bisognerà ricondurre a Dio. Anche se ciò non è sempre espresso in maniera chiara, si trovano un certo numero di espressioni che lo indicano. E in quella prospettiva egli vede nella Fraternità una società molto attiva – soprattutto quando la si paragona alla situazione dell’establishment -, molto attiva vuol dire che cerca, che va a cercare le anime, che ha questa preoccupazione del bene spirituale delle anime e che è pronta a rimboccarsi le maniche per questo compito”.
Ancora una volta mi pare evidente che la tagliola del fraintendimento sia scattata senza pietà. Quando monsignor Fellay parla della “povertà delle anime che sono nel peccato, dal quale bisognerà che escano, che bisognerà ricondurre a Dio”, non tiene conto che Bergoglio conferisce al termine “peccato” un significato diverso da quello che intende la dottrina cattolica: così diverso che lo ha sostanzialmente abolito. Ancora una volta, non si potrebbe dare ambiguità più grande e fraintendimento più pericoloso, visto che le interpretazioni dello stesso concetto stanno ai due estremi opposti.
Non dubito che la Fraternità San Pio X continui e continuerà a professare la stessa dottrina, a celebrare il rito di sempre, ad assistere i fedeli con uguale zelo. Ma tutto questo impegno, pur rimanendo uguale a se stesso, sotto l’influsso della pastoralità con cui Bergoglio ha azzerato il concetto stesso di cattolicità, rischia di mutare l’asse su cui è diretto. Tirato un sospiro di sollievo per la dottrina che non viene più messa in discussione, si finisce irrimediabilmente a incontrarsi sul terreno della prassi con un movimento simmetrico: per la neochiesa, la dottrina depotenziata sta alla pastorale come per la FSSPX dialogante la pastorale sta a una dottrina restaurata. In linguaggio matematico si tratta di una proporzione in cui i due estremi sono legati dall’identità del termine medio che li domina e li regola: la pastorale.
È questo che fa dire a don Schmidberger: “Noi abbiamo dei simpatizzanti tra i sacerdoti e i cardinali, tra i quali certuni vorrebbero appellarsi a noi per aiutarli, ci darebbero delle chiese e forse ci affiderebbero la cura di un seminario. Ma attualmente, a causa della nostra situazione, per loro è impossibile farlo. (…) Come supererà questa crisi la Chiesa? Nello stato attuale delle cose, si vede che non vi è neanche un barlume di speranza. Di contro, l’atto ufficiale di riconoscimento della Fraternità innescherebbe un sano trambusto all’interno della Chiesa. Il bene sarebbe incoraggiato, i malevoli subirebbero una disfatta”.
Sono intendimenti buonissimi, ma posti lungo l’ambiguo asse della pastoralità pensato ad arte per frustrarli e traviarli. Tanto nella Chiesa quanto nella neochiesa di Bergoglio, la pastorale non è altro che esercizio di un potere ab-soluto, sganciato da qualsiasi vincolo superiore. Riconoscerla come terreno su cui collaborare per sottrarsi a richieste dottrinali è pura illusione, poiché significa riconoscere al sovrano ab-soluto la possibilità di abusare del potere senza limite alcuno su qualsiasi cosa, persona o idea si posi sul suo regno. Dottrina compresa, che può essere annientata definitivamente con la semplice decisione di dichiararla ininfluente ai fini di una disputa. Sarebbe paradossale se questo avvenisse grazie al riconoscimento di chi ha fatto della difesa della dottrina la ragione della propria esistenza.
In questa chiave, fatico non poco a vedere, come invece fa monsignor Fellay, che “certamente dietro a tutto ciò c’è la Divina Provvidenza. La Divina Provvidenza che opera per mettere dei buoni pensieri in un Papa che, su molti punti, ci spaventa enormemente, e non solamente noi”. E trovo ancora più problematica questa visione se la si legge in combinato disposto con la risposta di don Schmidberger all’obiezione, storicamente provata, che tutte le congregazioni che si sono sottomesse a Roma si sono adattate al sistema conciliare o sono sparite: “La nostra posizione di partenza non è la stessa: nel nostro caso è Roma che fa pressione per trovare una soluzione e che si avvicina a noi. Negli altri casi erano queste congregazioni che chiedevano, recandosi spesso a Roma con un senso di colpa”.
Chi ha letto anche distrattamente Tolkien non può fare a meno di pensare alla tremenda attrazione del potere dell’Anello, alla tentazione di collaborare con il male illudendosi di trarne il bene. Potrà anche sembrare ingeneroso evocare qui un tale tema, ma allora bisogna spiegare se è ancora attuale quanto monsignor Lefebvre diceva nell’omelia per l’ordinazione dei quattro vescovi il 30 giugno 1988: “È per questo che ho inviato una lettera al Papa dicendogli chiaramente: ‘Noi non possiamo, malgrado ogni desiderio che abbiamo di essere in comunione con Voi. Dato questo spirito che regna oggi a Roma e che Voi volete comunicarci, preferiamo continuare nella Tradizione, conservare la Tradizione, in attesa che questa Tradizione ritrovi il suo posto, in attesa che questa Tradizione ritrovi il suo posto nelle autorità romane, nello spirito delle autorità romane. Questo durerà quanto è previsto dal Buon Dio’”.
E la stessa domanda vale per quanto il fondatore della Fraternità San Pio X scriveva in una lettera ai futuri vescovi il 29 agosto 1987: “Vi conferisco questa grazia confidando che quanto prima la Sede di Pietro sarà occupata da un successore di Pietro perfettamente cattolico, nelle mani del quale voi potrete rimettere la grazia del vostro episcopato perché egli la confermi”.
La Sede di Pietro è occupata oggi da un successore perfettamente cattolico? È così importante avere dall’abbraccio mortale di Bergoglio un riconoscimento canonico? Non è più in atto quello “stato di necessità” su cui la Fraternità San Pio X ha sempre fondato la sua azione?
Ma è un’altra domanda a cui bisogna veramente rispondere: perché Bergoglio ritiene così importante chiudere la questione relativa alla Fraternità San Pio X? Anche qui siamo davanti al paradosso, perché in realtà al vescovo venuto dalla fine del mondo non gli interessa tanto riconoscere quanto essere riconosciuto dalla FSSPX. È nella natura del potere moderno, che non trova legittimità in un ordine superiore, trarla dal riconoscimento dei sudditi. Bergoglio, sovrano ab-soluto che ha eliminato qualsiasi visione soprannaturale della Chiesa, ha un bisogno vitale di essere legittimato dal consenso e non può tollerare il dissenso. Despota alla guida del leviatano, è inquieto se percepisce l’esistenza di qualcuno o di qualcosa che sfugge al suo controllo, non riposa fino a quando anche l’ultimo ribelle non ha riconosciuto la sua legittimità.Fino a quando tutti hanno chiesto di poter circolare nel suo regno portando il suo marchio. Per questo brama che la Fraternità San Pio X entri al più presto nella Casa Comune, come ultima e definitiva sfumatura dell’arcobaleno delle religioni in cui, da Bose e passando per i cannibali animisti, c’è posto persino per i “lefebvriani”. Basta che stiano buoni.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
“FUORI MODA” – la posta di Alessandro Gnocchi
Le parti precedenti sono state pubblicate il 13 aprile (clicca qui), il 22 aprile (clicca qui) e il 3 maggio (clicca qui).
PD
http://www.riscossacristiana.it/fuori-moda-la-posta-di-alessandro-gnocchi-120516/
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