CROCE ANALFABETA DI DIO
Pretendeva d’aver capito tutto, di saper spiegare tutto: la filosofia di Benedetto Croce è uno dei tanti sviluppi del pregiudizio illuminista secondo il quale bisogna ricondurre la religione entro i limiti della ragione
di Francesco Lamendola
Il disprezzo nei confronti della religione, considerata una manifestazione di ordine inferiore, e la polemica anticristiana, più o meno esplicita, sono proprie dell’idealismo non meno del marxismo: figli, l’uno e l’altro, dell’hegelismo, e accomunati dalla medesima istanza razionalista, dalla medesima presunzione speculativa e dalla medesima concezione storicista che, riducendo tutto il reale ad immanenza e sostenendo che non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere, divinizzano se stessi nel momento in cui squalificano tutto ciò che non voglia riconoscere le loro buone ragioni per detenere il monopolio della suprema verità.
Sono entrambi, il marxismo e l’idealismo - così come, prima di essi, l’hegelismo - la manifestazione di una sconfinata “hybris” del pensiero e di una curiosa inversione dell’autentico sentimento religioso, che sposta il suo oggetto non tanto dal trascendente all’immanente, quanto da un principio superiore e vero in se stesso, ad una pretesa autoevidenza della verità insita nell’atto del pensare e, più precisamente, del pensare dei loro rispettivi fondatori: Marx, Croce ed Hegel.
Così, e per limitare la nostra riflessione all’idealismo, ci sembra di poter dire che vi è una minore distanza fra l’autentico spirito religioso e la filosofia di Giovanni Gentile, che vede nel Cristianesimo la religione dello spirito e tende a leggere in chiave religiosa i grandi eventi storici, come, appunto, il fascismo, di cui fu il principale interprete in sede speculativa; che non fra quello e la filosofia del liberale conservatore Benedetto Croce, che si gioca tutta nella difesa di interessi molto più angusti e specialmente nello sforzo di offrire una base ideologica al conservatorismo pigro e parassitario della borghesia agraria meridionale.
Gentile, infatti, ritiene che «l’uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio; pensiero divino e divina volontà»; e, di se stesso, afferma risolutamente: «Se domandate a me quale sia la mia religione, io vi dico in tutta sincerità che io mi sento, e perciò credo di essere, non solo cristiano, ma cattolico».
Si può anzi vedere nella dimensione religiosa dell’attualismo, che è compito dello Stato sviluppare e diffondere, l’autentica prosecuzione della religiosità di Giordano Bruno, non tanto in senso panteista, quanto in senso etico e morale; così come nella sua lotta contro l’indifferentismo religioso ed il laicismo propri dell’illuminismo e del positivismo, che - invece - hanno parte essenziale nella concezione di Croce (e in quella di Marx).
Per Croce, la religione è essenzialmente “religione della libertà” ed anche il suo tanto strombazzato saggio del 1942, «Perché non possiamo non dirci cristiani», non ha in effetti altro scopo che quello di propugnare una sorta di “santa alleanza” ideologica, in chiave conservatrice, contro il neopaganesimo nazista ed il materialismo ateo sovietico. Ma la religione, per lui, non è che un momento dialettico nella vita dello spirito, inferiore alla filosofia e valido, in buona sostanza, per vecchiette e spiriti rozzi: la religiosità verso cui si sente attratto è quella del “mondo in Dio”; mentre Gentile si sente spinto, al contrario, verso “un Dio che è nel mondo”.
Il liberale Croce, impregnato di illuminismo e positivismo, condivide con Hegel la presunzione di poter svuotare il Cristianesimo dei suoi “miti” (par di sentire la critica di Rudolf Bultmann) per restituirlo alla sua verità filosofica; egli ha, nei suoi confronti, un atteggiamento che è un misto di degnazione, malcelata impazienza e radicale incomprensione: proprio come Locke o come i deisti inglesi e francesi del XVIII secolo.
Egli è fermamente convinto di possedere le chiavi della Verità Assoluta e guarda dall’alto in basso, con sufficienza tipicamente illuminista (ed hegeliana), le “ingenue”e “primitive” manifestazioni religiose del popolo incolto; con l’aria di voler dire: «Aspetta un momento, che ti spiego io che cos’è la religione e chi è veramente Dio».
A proposito della immensa presunzione intellettuale di Benedetto Croce e della sua totale incomprensione non solo del Cristianesimo, ma del fenomeno religioso in quanto tale, ci sembra illuminante il bilancio delineato da Michele Federico Sciacca in un saggio ormai vecchio di oltre mezzo secolo, e tuttavia sempre lucido e attuale: «L’idealismo moderno» (contenuto nel volume collettaneo «Eresie del secolo», Assisi, Edizioni Pro Civitate Christiana, 1954, pp. 56-59):
«Diversa [da quella di Giovanni Gentile] è la posizione del Croce, nella cui sedicente “filosofia” dello spirito non c’è posto per la religione, come, del resto, non ce n’è per la filosofia. Per il crociano storicismo empiristico il problema di Dio è un “pseudo problema”, frutto dell’immaginazione , appartenente alle cose “non pensate e non operate”. Già, perché Dio, per il “positivista” Croce, non è nostra opera, non è un FATTO storico. Per conseguenza, le religioni son “miti” e come tali apartengono alla facoltà dell’immaginazione e valgono a soddisfare soltanto bisogni pratici ed empirici”.
Eppure anche Croce ha scritto di essere cristiano e ha voluto spiegare, in alcune pagine di ameni spropositi (non è qui il caso di parlare di “eresia”, parola che ha pure, quando si è in buona fede, una sua nobiltà) “Perché non possiamo non dirci cristiani” (1942). Egli riconosce il Cristianesimo essere stato “la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto”. Niente, dunque, rivelazione o intervento dall’alto: si tratta semplicemente di un grandioso fatto umano, di una delle infinite creazioni con le quali lo spirito, perennemente, “celebra se stesso”. Ma, purtroppo, al Cristianesimo primitivo, a questa straordinaria rivoluzione, son capitate tante brutte cose e precisamente di essere stato avvolto in “miti”. Quali? Quelli, chiaro, fantasticati dalla Chiesa: “regno di Dio, resurrezione dei morti, battesimo per prepararvisi, espiazione e redenzione che toglie i peccati degli eletti al nuovo regno, grazia e predestinazione, e via dicendo…”. Pazienza per questi miti: essi sono fenomeni che rientrano nel destino “naturale e necessario” delle religioni; e del resto è ineliminabile dalla vita dello spirito il momento nel quale “si chiude il processo cogitativo della ricerca con l’acquistata fede e si apre quello della praticazione in cui la fede si trasfonde”,. Questo processo involutivo del Cristianesimo è rappresentato dalla Chiesa cristiana cattolica “che foggiò i suoi dogmi non temendo di formulare a volte il non pensabile perché non appieno risoluto nella unità del pensiero, il suo culto, il suo sistema sacramentale, la gerarchia, la disciplina, il patrimonio terreno, l’economia, la finanza, il giure, e i tribunali suoi e la correlativa casistica legale, e studiò e attuò accomodamenti e transazioni con bisogni che né potevano estinguere o reprimere né lasciar liberi e di sfrenati,…”. Peccato che la Chiesa non abbia pensato a formulare dogmi “pensabili” e “appieno risoluti nell’unità del pensiero”; cioè dogmi che non sono più tali, ma pure verità razionali! Croce giustifica la storia della Chiesa come quella di qualsiasi altro istituto terreno, dato che i FATTI non possono non giustificarsi, una volta accaduti.
Tuttavia la primitiva verità del Cristianesimo, malgrado la Chiesa e la sua miticizzazione, si è trasformata e accresciuta. Pertanto “continuatori effettivi nell’opera religiosa del Cristianesimo sono da tenere quelli che, partendo dai suoi concetti e integrandoli con la critica e con l’ulteriore indagine, produssero sostanziali avanzamenti nel pensiero e nella vita”. Tutti cristiani, quelli che hanno integrato “criticamente” la primitiva verità cristiana: Lutero, e Kant, Voltaire e Fichte, Hegel e Croce. Anzi gli unici veri cristiani sono solo costoro. Infatti il medioevo, “salvo sparsi conati e rare scintille”, ha fatto solo “lavoro banausico”; il Concilio di Trento ha sconosciuto e perseguitato i “severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura” e gli assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; il “Sillabo”ha condannato tutta quanta l’età moderna, “senza per altro essere in grado di contrapporre alla scienza, alla cultura e alla civiltà moderna del laicato, una sua propria e vigorosa scienza, cultura e civiltà”. Perciò, a parlar rigorosi, non possono dirsi cristiani S. Tommaso e Rosmini, gli apostoli e i santi, e meno ancora la Chiesa sdi Roma e il Papa, tutti incorreggibili creatori di “miti”, del mito della Rivelazione, dell’altro ancor meno “pensabile” di Cristo figlio di Dio, senza dire di dogmi e sacramenti. Invece, lo storicismo crociano, sì, che è cristiano, perché il Dio cristiano non lo adora più ”come mistero” e perché “sa” (e Croce, questo analfabeta di Dio, sa tutto) che “sempre esso sarà mistero all’occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente creduta e significata come ”logica umana; “ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi” divina, “intendendola nel senso cristiano” come quella alla quale l’uomo, di continuo, si eleva, e che, di continuo, congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo
E poi si vuol pretendere che il Croce vada preso sul serio anche quando scrive di religione e di filosofia, e si rimprovera, a chi onestamente non ce la fa, una presa di posizione eccessivamente polemica”.»
Che se poi a qualcuno venisse la curiosità di domandare al Croce come faccia, egli, a porsi dal punto di vista della “logica concreta”, cioè “divina”, ovvero di un Sapere assoluto e oggettivo, sì da vedere le cose con perfetta e sublime trasparenza, i suoi seguaci si vedrebbero forse costretti a rispondere dichiarando la divinità del loro Maestro: altra via intellettualmente onesta non esiste, infatti, per uscire dal paradosso.
Che, poi, è il medesimo paradosso di Hegel, laddove questi afferma che il momento della Religione si “supera” dialetticamente nella Filosofia e che egli stesso, rivelando i disegni dello Spirito Assoluto e perfino i suoi piccoli trucchi (come la cosiddetta “Astuzia della Ragione”), rivendica per sé stesso un grado di conoscenza più che umano, a paragone del quale personaggi come lo stesso Gesù Cristo sbiadiscono e impallidiscono, riducendosi al livello di modesti istruttori di masse illetterate e superstiziose, non certo di “filosofi” con l’iniziale maiuscola.
Croce, del resto, si mostra, se possibile, ancora più gonfio di presunzione dello stesso Hegel: la sua filosofia, infatti, muove dal presupposto di emendare l’hegelismo da ogni residuo aprioristico, in modo da realizzare in modo più coerente di quanto abbia fatto il pensatore tedesco l’unità di razionale e reale; e, identificando la filosofia con la storia, afferma l’universale concreto, contro l’universale astratto di Aristotele e della Scolastica.
Dall’alto della sua scienza superiore, che gli permette di guardare con distacco e sufficienza sia alla filosofia greca che a quella cristiana medievale e, in particolare, al tomismo, “don” Benedetto, gelosissimo del ruolo di massimo filosofo italiano che si è ritagliato, sia pure attraverso alterne vicende, e della egemonia da lui esercitata nelle università e nelle scuole per mezzo di una rete innumerevole di solerti discepoli, neppure per un momento si domanda se una religione, dopotutto, non debba essere considerata «iuxta propria principia» e non secondo schemi e categorie mentali che si pongono rispetto ad essa con un atteggiamento di degnazione intellettualistica.
Neppure per un momento Croce si chiede se non sia per caso più giusto provare ad accostare il fenomeno religioso con gli occhi di quelle persone semplici che lui, intellettuale prestigioso e alquanto compiaciuto, considera con altezzoso paternalismo; né gli sorgono mai dubbi sulla liceità di una operazione come quella di razionalizzare il fatto religioso secondo le categorie del Logos dialettico dell’idealismo.
Singolare paradosso: Croce, spregiatore della scienza, le cui affermazioni gli sembrano nient’altro che “pseudo-concetti” empirici, e risoluto negatore di una interpretazione matematica della natura, finisce per porsi davanti a Dio e alla religione con la stessa boria intellettuale dello scientismo più esasperato; anzi, se possibile, con boria anche maggiore, considerata la sua pretesa di poter dire proprio ai credenti la parola definitiva sulla loro stessa fede.
In fondo, la filosofia di Croce è uno dei tanti sviluppi del fondamentale pregiudizio illuminista, e specificamente kantiano, secondo il quale «bisogna ricondurre la religione entro i limiti della ragione»: affermazione in cui non si sa se colpisca di più la tracotanza intellettuale, che pretenderebbe di circoscrivere ciò che, per sua stessa natura, è illimitato e insondabile, o l’estrema povertà e banalità speculativa, dato che non sembra neppure accorgersi dell’ossimoro, anzi della insanabile contraddizione logica, di cui - con involontaria autoironia - è manifestamente portatrice.
Croce, analfabeta di Dio, pretendeva d’aver capito tutto, di saper spiegare tutto
di
Francesco Lamendola
DEBOLEZZA PENSIERO DI MOUNIER
La debolezza del personalismo di Mounier nasce dalla mancata definizione di persona. Ha guardato un po’ troppo in direzione del modernismo progressismo e democratismo di sinistra contribuendo a introdurre queste false dottrine
di Francesco Lamendola
La debolezza del personalismo di Mounier nasce dalla mancata definizione di “persona”
di
Francesco Lamendola
Di Emmanuel Mounier (nato a Grenoble il 1° aprile 1905 e spentosi a Parigi, prematuramente, il 22 marzo 1950), padre del personalismo cristiano, ci eravamo già occupati dapprima nell’articolo L’unità dinamica della persona va “suscitata”, per Mounier, attraverso l‘amore e l’attività (pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 17/07/2008), in cui avevamo concordato sul giudizio di uno studioso italiano, Giuseppe Goisis, che ha definito il pensiero di Mounier come un cantiere tutt’ora aperto; indi con l’articolo Gioia di vivere e angoscia di vivere nel pensiero di Emmanuel Mounier (pubblicato sul medesimo sito il 07/01/2011), nel quale avevamo espresso alcune riserve circa la sua filosofia, che, a nostro parere, fanno sì che non sia possibile vedere in lui un vero maestro del pensiero cristiano.
Vogliamo qui precisare la ragione di fondo di questo giudizio: Emmanuel Mounier, oltre ad avere guardato un po’ troppo in direzione del modernismo, del progressismo e del democratismo di sinistra, contribuendo non poco a introdurre, sia pure involontariamente, queste false dottrine nel corpo sano della teologia e del pensiero cattolici, con effetti a lunga scadenza che sono arrivati (con la mediazione di Jacques Maritain) fino al Concilio Vaticano II ed oltre, ha criticato la cultura moderna per aver definito la persona come la coscienza che l’uomo ha di se stesso, ma, dopo aver rifiutato la definizione della metafisica classica, non ha saputo o voluto fornirne una, a sua volta, tale da costituire una base sufficientemente solida per la costruzione della sua filosofia. E ciò in un momento storico in cui l’unità della coscienza era criticata o posta in dubbio da molti esponenti della cultura laica, generando sconcerto, disagio, insicurezza in una intera generazione, e, pertanto, sarebbe stato quanto mai opportuno che un pensatore cristiano definisse il concetto di persona in maniera da offrire una valida alternativa a quelle concezioni esistenzialiste, vitaliste, relativiste, nonché tendenzialmente, o anche esplicitamene, nichiliste.
Di fatto, Mounier dichiara che è impossibile, e in fondo anche sostanzialmente inutile, dare una definizione vera e propria di persona, con la discutibile argomentazione che si può dare solo la definizione di un oggetto, mentre la persona, per l’uomo, non è un oggetto, ma è proprio la condizione per cui si attua la sua consapevolezza; e aggiunge, per buona misura, che essa si definisce solo mediante la relazione con l’altro, sicché, se non c’è la relazione, se ne dovrebbe dedurre che la persona scompare, oppure che non è mai esistita. Mounier è stato il tipico esponente di quella cultura francese ed europea della prima metà del Novecento, che, impregnata di vitalismo e quindi, direttamente o indirettamente, influenzata da Bergson, ma anche da Nietzsche, si è trastullata con l’idea che l’uomo esiste, all’atto pratico, solo là dove egli s’incontra con i suoi simili, perché, quanto a se stesso, egli è, a ben guardare – come sostenevano Luigi Pirandello e Miguel De Unamuno – “uno, nessuno e centomila”. Insomma, un camaleonte, un fantasma, un ectoplasma, che, per manifestarsi, ha bisogno dell’altro. Ed è molto strano che un filosofo cristiano non abbia visto immediatamente quale deriva avrebbe comportato una simile impostazione dell’idea di persona. Un bambino autistico, dunque, non è persona? Un uomo in coma non è più persona? E un feto, non è ancora persona? Se così stanno le cose – e pare proprio che le premesse non lasciano adito a dubbi -, allora quel bambino, quell’uomo e quel nascituro, potrebbero, anzi, a rigore, dovrebbero, essere considerati delle non-persone, con tutto ciò che questo comporta, o può comportare.
Questo accade perché Mounier si è vergognato della metafisica classica, di Aristotele, di Boezio, ma anche della metafisica cristiana, del tomismo, e, in omaggio alle mode del suo tempo, ha voluto mettere in soffitta la vecchia definizione ontologica di persona e sostituirla con una definizione ”giovane” e “moderna”, relazionista e non sostanzialista. E ne è venuto fuori un gran pasticcio. Non sappiamo che cosa avrebbe detto Mounier a proposito di certi temi, oggi di grandissima attualità, scaturenti da una impostazione, per così dire, fenomenologica della bioetica: certo, non potrebbe esimersi o dal correggere le sue posizioni semi-esistenzialiste e antimetafisiche, oppure rivendicare la piena paternità di certo cattolicesimo progressista e di sinistra, il quale, sui temi etici e sui cosiddetti diritti civili, ha sviluppato al massimo, forzandola ulteriormente, l’impostazione “situazionista” ed “emozionalista” da lui data al fondamento della persona.
Se la persona, infatti, è l’insieme dei sentimenti e delle emozioni i quali, di volta in volta, come in un caleidoscopio, si succedono nella sfera della coscienza, allora quei contenuti acquistano un valore non più relativo, ma assoluto: diventano i veri protagonisti della vita morale, e prendono il posto del “vecchio” concetto sostanziale di persona. In altre parole, la persona non è più un soggetto, ma corrisponde ad un complesso di operazioni affettive e mentali in continua evoluzione e trasformazione. La verità dell’essere umano, a quel punto, non andrebbe più cercata nel suo fondamento ontologico, divenuto inafferrabile e pressoché evanescente, ma nel suo multiforme e fantasmagorico dispiegarsi al livello delle emozioni, dei sentimenti, eccetera. Fumo, come si vede: niente di certo, niente di stabile, niente di cui si possa affermare l’intrinseca verità. La persona, in un certo senso, diventa una opinione una ipotesi, un punto interrogativo; e quel che resta sono i singoli contenuti emozionali. Contenuti che appartengono a chi: alla persona? Difficile dirlo, e, soprattutto, troppo impegnativo. Probabilmente sì, ma a livello intuitivo; a livello razionale, in effetti, non avremmo più alcun diritto di affermarlo con sicurezza. In perfetto accordo con il concetto di “società liquida” di Zygmunt Bauman.
Così ha fatto il punto sul vicolo cieco del personalismo cristiano di Mounier, il saggista Corrado Gnerre, nel suo articolo Mounier, il personalismo e il concetto “liquido” di persona (sulla rivista Il settimanale di Padre Pio, edito dalle Suore Francescane dell’Immacolata, Ostra, Ancona, anno XV, n. 5 del 31 gennaio 2016, pp. 31-33):
Se Mounier conia il termine “personalismo” e se la sua filosofia è “personalista”, è perché egli fa ruotare tutta la sua speculazione sul concetto di “persona”. C’è però un problema che non è di poco conto: Mounier non riesce a dare una definizione precisa di “persona”. O meglio, ci sono nella sua definizione elementi che definire ambigui è poco. […]
In realtà Mounier cosa vuol fare? Una cosa di per sé ottima: non solo dimostrare che la “persona umana”, individualmente intesa, ha una dignità altissima, anzi è il massimo dei valori esistenti sulla faccia della terra per cui non può mai essere posposta(messa dopo) ad altro, per esempio: allo Stato, all’ideologia, alla razza… non solo questo – dicevo -, vuole anche evitare qualsiasi deriva “libertaria” ed “individualista”, proprio perché la persona non è solo corpo, non è solo istinti, ma è anche volontà, libertà e responsabilità. Ma per questo non sa utilizzare argomenti corretti. […] Dire infatti che la persona è grande solo perché “ha” qualcosa e non perché “è” qualcosa, rende la persona stessa estremamente vulnerabile. […]
Secondo la metafisica classica, la persona è: “Sostanza individuale di natura razionale” (secondo la celebre definizione di Severino Boezio). Prima di tutto la persona è “sostanza completa”: a differenza per esempio del sangue che per esistere ha bisogno di un corpo animale, la persona sussiste in sé. È inoltre “sostanza individuale”, dunque è persona l’uomo Mario, Giovanni, Pietro… non l’uomo astrattamente inteso come genere. Infine è “sostanza razionale”, cioè autocosciente, libera e intelligente. Infatti, è “persona” l’uomo, è “persona” l’Angelo, è “persona” Dio. Non è “persona” l’animale o l’oggetto inanimato. Questo per la metafisica classica. Per Mounier e i personalisti le cose non stanno proprio così. Mounier dice che non si può dare alcuna definizione della persona, poiché essa sarebbe ineffabile, cioè inesprimibile. […] Mounier afferma questo perché pensa in tal modo di rendere più grande e inalienabile la persona umana, e non si accorge, invece, che la rende molto più debole e fragile. Perso lo statuto ontologico, la persona diventa miseramente un fascio di evanescenti potenzialità, di tensioni, di emozioni, di sentimenti che lo stesso Mounier definisce come “l’universo personale”. Insomma, altro non è che una concezione”fluida”, “liquida” della persona. […]
Proprio perché la persona viene ridotta a un insieme di elementi fluidi, indefinibili e soprattutto emotivi e sentimentali, la persona stessa è ritenuta qualcosa che per essere se stessa debba necessariamente rapportarsi agli altri. Anche in questo caso l’intenzione di Mounier è buona. Egli vuol far capire che l’uomo non può individualisticamente chiudersi nell’egoismo, avendo il filosofo francese capito molto bene i danni che già stava compiendo un certo tipo di ipercapitalismo. Ma per seguire questa buona intenzione argomenta in maniera tutt’altro che corretta. […] Infatti, un conto è dire che l’uomo è “un essere naturalmente sociale” come aveva ben detto il buon Aristotele e ribadito l’ottimo San Tommaso d’Aquino, altro è dire che l’uomo se non si apre agli altri è come se non fosse uomo. Se dico questo, sostituisco la “sostanza” con la “relazione”, anzi implicitamente ammetto che è “sostanza” la “relazione”, rendendo estremamente vulnerabile e cangiante la persona stessa. Mounier dice chiaramente sempre nel suo “Il personalismo”: “(la persona) non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri”. Si potrebbe però obiettare: ma dove sta il pericolo in tutti questo? Il pericolo c’è eccome. Facciamo un esempio concreto e più che mai attuale: il cosiddetto (solo “cosiddetto”) amore omosessuale. Ormai anche molti Cattolici la pensano in questo modo: “Ma se due uomini (o due donne) si vogliono bene, si ‘amano’, che male c’è? Anzi, il male ci sarebbe se si pretendesse che questo ‘amore’ dovesse essere represso, annullato, moralmente condannato”. Insomma, l’amore non dovrebbe più essere giudicato dalla verità, bensì si dovrebbe giudicare con l’amore stesso. Ebbene, vediamo che c’entra in tutto questo il Personalismo. Se la “persona” perde il suo statuto ontologico, fatto di sostanza individuale razionale, ma si riduce invece in un “universo” di emozioni, tensioni, sentimenti e passioni, allora l’amore stesso, che è una passione, viene svincolato dalla verità per divenire il criterio primo dell’agire umano. Faccio parlare ancora Mounier nel suo “Il personalismo”: “[…] l’atto di amore è la più salda certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: IO AMO QUINDI L’ESSERE È, e la vita vale (la pena di essere vissuta)”.
Sì, c’è poco da girarci intorno: se oggi esiste una così grande confusione, nella società occidentale, e perfino nella cultura cattolica e dentro la stessa Chiesa, a proposito di quel che è giusto o sbagliato, lecito o illecito, da un punto di vista morale, specialmente di fronte alle sfide inaudite di una scienza e di una tecnica totalmente sfuggite alla progettualità razionale, e divenute fini “razionali” esse stesse - sfide ad andare sempre più lontano, ad osare sempre di più -, ciò lo si deve anche alla distruzione del vecchio concetto sostanzialista di persona ed alla sua sostituzione con una fenomenologia ridotta all’epifania del frammento, al culto del singolo istante, all’adorazione della scintilla vitale. Cioè, lo si deve anche al personalismo “cristiano” fondato da Emmanuel Mounier. Egli è il legittimo precursore – insieme a molti altri, si capisce; e, per la maggior parte, non cristiani o anticristiani - di questa tendenza filosofica, che si inscrive nella più ampia reazione antimetafisica iniziata con Kant e proseguita per tutto il corso del XIX e XX secolo, caratterizzandosi come il filone principale del pensiero. La rivolta antimetafisica ha portato alla svalutazione e, da ultimo, al pensionamento anticipato dell’ontologia: a nessun importa più sapere cosa sono gli enti, basta sapere che cosa non sono, e, più precisamente, basta sapere che si identificano per mezzo delle relazioni reciproche. Un curioso modo di filosofare: non si dà una definizione di questa o quella cosa (qui, della persona); però si dice che quella tale cosa è la manifestazione di un intreccio di relazioni; non solo, ma che è il fondamento di ogni intellegibile. Ma se di quel certo ente non si può dir nulla, né della sua essenza, né della sua natura, di quali relazioni stiamo parlando? Di relazioni tra fantasmi, tra allucinazioni, tra sogni inafferrabili? Eppure, anche un fantasma deve pur essere il fantasma di qualcosa: bisogna pur cercare di definirlo. Se la persona non è sostanza, le sue emozioni di chi sono? Chi è il soggetto che le prova? Qui si rischia di cadere nel pirandellismo più scontato…
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