IL CODICE DEL CATTO-COMUNISMO?
È nel Codice di Camaldoli la base ideologica e programmatica di 50 anni di cattocomunismo? Questi giovani democristiani cos’hanno rappresentato nella storia d’Italia per mezzo secolo fino alla fine della I^Repubblica
di Francesco Lamendola
«Mi pare che su questi temi ci sia una fronda della Chiesa, piuttosto timorosa, in verità, dato che non ha il Papa dalla sua. Bergoglio ha snobbato questo tema perché è amico di quelli lì»
Mussolini non era ancora caduto, vacillava ma non era ancora stato fatto fuori dalla congiura incrociata dei gerarchi (Grandi), del re e dei militari (Badoglio), allorché, mentre gli eserciti angloamericani conquistavano la Sicilia, e i loro squadroni di fortezze volanti spargevano morte e rovina, dal cielo, sulle città d’Italia, un gruppo d’una cinquantina di giovani dell’Azione Cattolica si riunivano presso lo storico monastero di Camaldoli, nel Casentino, durante la settimana dal 18 al 23 luglio 1943. Mentre il Duce s’incontrava per l’ultima volta, da capo del governo italiano, con Hitler, in una villa nei dintorni di Feltre, e mentre Roma, la città santa, veniva selvaggiamente bombardata dai nemici ormai quasi sul punto di trasformarsi, per un colpo di bacchetta magia, in “liberatori”, la crema dell’unica associazione non fascista risparmiata dalla ventennale dittatura per effetto dei Patti Lateranensi (articolo 43) si riuniva sotto la direzione del vescovo di Bergamo, Adriano Bernareggi, per offrire una strategia, in ambito economico, alla Democrazia Cristiana, fondata clandestinamente pochi mesi prima, il 15 dicembre 1942.
Un tempismo, come si vede, veramente eccezionale: al fronte c’erano ancora dei soldati, dei marinai e degli aviatori abbastanza eroi o abbastanza fessi da farsi ammazzare per difendere il suolo della patria invasa e martoriata dalle soverchianti forze nemiche; ma, all’interno, cinquanta baldi giovanotti, i quali, a vario titolo, avevano scansato il servizio militare, non perdevamo un minuto nel predisporre come avrebbe dovuto governare il Paese, una volta sconfitto e costretto alla resa, il partito che essi avevano appena fondato e con il quale già pensavano di porsi alla guida della nazione. Può darsi che ad altri, anzi, a molti, tali circostanze non paiano affatto strane; e, semmai, la storiografia ufficiale ha sempre presentato eventi del genere come una fortuna per l’Italia, la quale, dopo il crollo della dittatura e l’avvento della democrazia (sulle baionette dei vincitori), poté disporre di una classe dirigente nuova di zecca, giovane e ardimentosa, e di una base ideologica e programmatica sulla quale avviare il processo di ricostruzione nazionale. A noi, invece, forse perché siamo di stomaco troppo sensibile, quelle circostanze procurano un certo qual disagio: se almeno quei giovani avessero fatto qualche mese in Grecia, in Russia o in Africa Settentrionale; se avessero condiviso almeno per un poco, nel fango dell’Albania, nelle nevi del Don o sulle sabbie del Deserto egiziano, il rancio, i pidocchi e il destino dei figli dei contadini e degli operai, e avessero combattuto al loro fianco, pur non credendo in quella guerra (ma quanti di coloro che l’avevano fatta, avevano creduto nella guerra del 1915-18?); se fossero tornati, non diciamo con i piedi congelati o con un braccio di meno, ma, comunque, moralmente arricchiti dall’avere sofferto, gomito a gomito con la gente del popolo, i rischi e i sacrifici di una impari lotta per tenere lontano il nemico dai confini nazionali, ebbene, allora anche il loro Codice di Camaldoli ci si presenterebbe sotto una luce diversa e, diciamolo pure, più simpatica.
Così come nacque, invece, somiglia troppo a una ambigua, spregiudicata operazione – oltretutto mascherata da “ritiro spirituale”, con una ipocrisia pretesca, nel peggior senso del termine - volta a predisporre lo scenario dopo l’imminente salto dal treno in corsa, dall’alleanza tedesca a quella angloamericana, e per tracciare le linee guida del futuro governo del Paese, sotto l’occhio benevolo del futuro occupante, nonché futuro “amico”, il quale, però, al presente, era, a tutti gli effetti, morali e materiali (piccolo particolare), un nemico spietato e un invasore senza scrupoli: il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943, che provocò 3.000 morti e 11.000 feriti nel quartiere di San Lorenzo, fu una inutile, calcolata carneficina ai danni della popolazione civile. Possiamo dire, in ogni caso, che fu una anticipazione di come la nascente classe dirigente democratica si accingeva a prendere la guida del Paese, dopo la sconfitta, non solo del fascismo, ma, è bene ricordarlo sempre, dell’Italia in quanto nazione indipendente e sovrana: sconfitta che in tanti fecero di tutto per affrettare, come dimostra il vergognoso articolo 16 del Trattato di pace i Parigi del 1947, che proibiva alle autorità italiane di perseguire i traditori che s’erano adoperati per la vittoria del nemico e per la disfatta della Patria, non dopo il 25 luglio o l’8 settembre del 1943, ma fin dal primo giorno di guerra, ossia dal 10 giugno del 1940: conferma indiretta, ma eloquente, del fatto che i tradimenti ci furono, eccome, e che non ebbero una parte irrilevante nella sconfitta finale del nostro Paese. Tuttavia, ripetiamo, si tratta, evidentemente, di opinioni personali: ad altri, l’operato dei giovani di Camaldoli è piaciuto; e, del resto, rispetto a quel che stavano facendo gli uomini del Partito comunista italiano, vale a dire preparare minuziosamente la guerra civile, onde far fuori qualche decina di migliaia di “fascisti” e di “borghesi”, come poi puntualmente avvenne, e come essi avevano teorizzato fin dai tempi della guerra di Spagna, sei anni prima), si è trattato di qualcosa di assai mite.
Facevano parte del gruppo Mario Ferrari Aggradi, Giulio Andreotti, Paolo Emilio Taviani, Guido Gonella, Ezio Vanoni, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giuseppe Medici e Giuseppe Capograssi: il fior fiore della futura Democrazia Cristiana, uomini che avrebbero governato l’Italia fino al principio degli anni Novanta, mezzo secolo dopo. C’erano anche sacerdoti destinati a una brillante carriera, fra gli altri Pietro Pavan, futuro cardinale e destinato a diventare uno dei massimi esponenti del pensiero sociale della Chiesa. Fu proprio lui a presentare la redazione finale del documento elaborato in quella settimana, e passato alla storia come il Codice di Camaldoli, e fu lui a pronunciare le considerazioni conclusive: parlando, si noti bene, non a titolo della Chiesa, benché fosse stata proprio la Chiesa a coordinare e rendere possibile operazione; però i partecipanti al convegno preferirono assumersi la responsabilità individuale del documento, esentandone, almeno ufficialmente, la gerarchia ecclesiastica. E che non si fosse trattato di semplice accademia, ma di una cosa estremamente seria e concreta, lo si sarebbe visto in seguito: si può affermare che nessun altro documento più di questo, elaborato nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale, oltre due anni prima delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, abbia esercitato una influenza sulla politica economica italiana dei decenni successivi.
Rifacendosi, a sua volta, al Codice di Malines, nel Belgio, del 1927 (e rielaborato nel 1933), oltre che alle encicliche sociali di Leone XIII, la Rerum novarum, e di Pio XI, la Quadragesimo anno, i cinquanta giovani dell’Azione cattolica e dell’Istituto cattolico di attività sociali, stabilirono una serie di principi sociali e delinearono una serie di provvedimenti di ordine economico, che si possono così riassumere: 1) dignità della persona e preminenza di essa rispetto al principio del profitto; 2) eguaglianza dei diritti individuali; 3) solidarietà come elemento essenziale dell’azione economica; 4) destinazione dei beni a vantaggio di tutti; 5) diritto alla proprietà privata; 6) libertà di commercio, ma in un quadro di “giustizia sociale”; 7) giustizia commutativa nei rapporti privati; 8) giustizia distributiva nei rapporti pubblici. Inoltre, ponevano l’accento sulla necessità di impedire il formarsi di ricchezze private eccessive, a scapito del bene della comunità nazionale; e il dovere dello Stato di farsi carico della povertà delle classi o delle zone più arretrate, mediante opportuni interventi volti a migliorarne le condizioni, in base al principio aristotelico (e tomista, oltre che paolino) della solidarietà. Gli interventi straordinari per il Sud - leggi: Cassa per il Mezzogiorno -, e un certo statalismo, un certo assistenzialismo, che, negli anni e nei decenni seguenti, avrebbero caratterizzato la politica sociale democristiana, trovano qui la loro base teorica. Anche molti aspetti della Costituzione, come il principio della dignità del lavoro e del valore degli obiettivi sociali, accanto al riconoscimento del diritto alla proprietà privata e alla legittima ricerca del profitto, che avrebbero ispirato, nel 1946-47, i lavori dei padri costituenti, trovano qui la loro piattaforma concettuale. L’aspetto più importante, però, a nostro avviso, di quel documento, è l’importanza data in esso alla questione delle partecipazioni statali nei settori chiave dell’economia; e, più in generale, il principio del diritto-dovere dello Stato di avocare a sé la direzione strategica di taluni settori economici considerati d’importanza essenziale, o sotto il profilo produttivo, o sotto quello energetico, o sotto quello militare. Oltre all’abbozzo di una cospicua riforma agraria (che poi sarebbe stata realizzata solo in parte), si delineava uno scenario di massicce partecipazioni statali, specialmente nel settore energetico (E.N.I.; I. R. I.), peraltro assumendo l’eredità di una politica economica che era stata specificamente e caratteristicamente fascista, che la cosa piaccia o non piaccia: è forse necessario ricordare che l’Italia di Mussolini fu, a parte il caso dell’Unione Sovietica, il Paese d’Europa nel quale esistette, negli anni Venti-Trenta, una più massiccia presenza dello Stato nell’economia, un vero e proprio Stato imprenditore: assai più reale e significativo del tanto decantato, ma, in effetti, mai decollato, Stato corporativo? E occorre ricordare che solo in questo nucleo teorico e su questa base di esperienza pregressa, si può veramente capire il fenomeno Mattei, con tutto quel che esso ha significato, in bene e forse anche in male, nella politica italiana nel dopoguerra, ivi compresa la continua, inevitabile commistione di interessi propriamente imprenditoriali e di interessi, non sempre limpidi, non sempre fondati sulla ricerca del pubblico bene, politici (anche se il personale disinteresse di Mattei è fuori questione)?
Perfino il principio, poi tanto criticato, degli “oneri impropri”, ossia del dovere, da parte dello Stato, di non badare soltanto all’utile, ma di assumere una funzione morale e sociale, quando si tratti di creare occupazione nelle aree depresse mediante il diretto impegno della finanza pubblica, trova la sua radice, più che New Deal rooseveltiano, nella politica di opere pubbliche del fascismo, come le bonifiche nell’Agro Pontino: analogia, per non dire continuità, che appare ancor più evidente se si riflette sul perdurare, in entrambi i casi, del medesimo obiettivo: impedire, o frenare, la ripresa della emigrazione verso l’estero dalle aree più arretrate, anche per non impoverire ulteriormente il Paese di mano d’opera, principale risorsa in vista d’un prossimo sforzo di decollo industriale (che si sarebbe manifestato negli anni Cinquanta con il cosiddetto “miracolo economico”, e del quale, se si vuole essere onesti, il fascismo aveva già poste, se non le basi, almeno talune premesse). Quanto al fatto che le partecipazioni statali fossero indicate come la forma principale d’intervento dello Stato nei settori chiave dell’economia, era una ferma convinzione di quasi tutti gli uomini di Camaldoli, a cominciare da quel Mario Ferrari Aggradi che sarebbe poi diventato ministro dell’Agricoltura e delle foreste, in tre successivi periodi, fra il 1958 e il 1974; ministro dei Trasporti ad interim nel 1960; ministro delle Finanze nel 1968; ministro della Pubblica istruzione nel 1968-70; ministro delle Poste e delle telecomunicazioni nel 1968-69; e ministro per i rapporti con il Parlamento, nel 1970. Ci siano soffermati sulla carriera di Ferrari Aggradi per mostrare quanto sarebbero diventati potenti i giovanotti di Camaldoli, quanto lunga e prestigiosa sarebbe stata la loro carriera, quanto avrebbero influito, e pesato, sullo sviluppo del Paese, le loro idee, le loro scelte, il loro modo di concepire l’azione politica e l’economia.
Sorge spontanea, a questo punto, una domanda. Questi giovani democristiani (giovani, intendiamoci, nel 1943: ma che avrebbero governato il Paese, inamovibili e inossidabili, per i quattro decenni successivi), quasi tutti cattolici di sinistra, quasi tutti con forti propensioni “sociali” e con velleità egualitarie di matrice evangelica, o piuttosto pseudo evangelica, più che marxista, e alcuni dei quali ansiosi di fare ad ogni costo la loro politica sociale, anche nel ruolo di “semplici” sindaci, quasi altrettanti ministri di altrettante repubbliche medievali (La Pira, da sindaco di Firenze, farà una sua politica estera perfino con il Nord Vietnam, nel quale si recò in visita ufficiale, e questo in piena guerra d’Indocina!), cos’hanno rappresentato, a conti fatti, nella storia d’Italia del mezzo secolo successivo, cioè sino quasi alla fine della Prima Repubblica (e, per alcuni di essi, come Andreotti, senza il “quasi”)? Mescolando elementi tratti da San Paolo e Sant’Agostino, San Tommaso e Pascal, Mounier e Maritain, Rosmini e il Codice di Malines, quei giovani hanno creato un laboratorio i cui sviluppi avrebbero caratterizzato gran parte della nostra storia nazionale successiva, e, attraverso le loro applicazioni socio-economiche, avrebbero fatto dell’Italia quella che è tuttora: una nazione bloccata e contraddittoria, dove l’azione statale e l’iniziativa individuale non sono mai riuscite ad integrarsi e a creare sinergia; dove l’alternativa (irrisolta) è sempre quella fra le tasse e l’impresa, fra una spesa pubblica fuori controllo e un fisco che azzera il profitto, fra uno stato che non si fida del cittadino e un cittadino che non si fida dello stato. E forse tutto questo esiste, in nuce, nel Codice di Camaldoli: nel suo larvato, sotterraneo, dossettiano cattocomunismo…
È nel Codice di Camaldoli la base ideologica e programmatica di 50 anni di cattocomunismo?
di Francesco Lamendola
Unioni civili, Blondet: "Bagnasco sperava nelle promesse di democristiani non cattolici"
18 maggio 2016 ore 12:46, Adriano Scianca
"Bagnasco? Evidentemente aveva ricevuto rassicurazioni da Renzi sulla stepchild adoption che non si sono realizzate". Secondo il giornalista Maurizio Blondet è così che si spiega il motivo per cui le parole più forti della Chiesa cattolica contro la legge sulle unioni civili sono arrivate solo dopo l'approvazione della legge.
Si è fatto un'idea del perché i vertici della Chiesa abbiano tuonato contro la legge solo quando ormai era troppo tardi?
Quelli lì chi?
«Scalfari etc»
Ma perché questa fronda ha taciuto finora e ha alzato la voce solo dopo che la legge è stata approvata e non c'è più nulla da fare?
«Evidentemente avevano ricevuto rassicurazioni da Renzi. Rassicurazioni che non si sono realizzate. Bagnasco ha protestato perché questa legge apre la strada per la stepchild adoption. Si vede che gli avevano promesso che sarebbe stata chiusa la porta a questa pratica. Poi però la porta non è stata chiusa. È solo una mia ipotesi, ovviamente».
Curioso che i cattolici subiscano questo smacco quando sia il premier che il Presidente della Repubblica sono di estrazione cattolica...
«Sono democristiani, non cattolici. Comunque ci avviamo verso una deriva totalitaria».
Perché?
«Stamattina in tv ho visto un'intera puntata contro Bagnasco. Tutti dicono che è una legge dello Stato e va rispettata. La libertà di coscienza non è più permessa. Presto diranno ai medici che non vogliono praticare aborti che non danno più loro lo stipendio».
Intanto la Chiesa insiste sulle politiche per la famiglia, bonus bebé etc. Non è un po' un baratto al ribasso?
«È un compromesso politico. Io in realtà sarei pure d'accordo se si prendessero misure per incrementare le nascite. Ma è la solita cosa alla Renzi che non serve a nulla. A che serve dare i bonus a chi non ha lavoro o a chi prende 400 euro al mese? Detto questo, non condanno a priori il compromesso, cerchiamo almeno di ottenere il massimo possibile»
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