ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 30 giugno 2016

La “sbandata cattolica”

IL "MISERICORDISMO" E' MORALISMO
Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno IX n° 7 - Luglio 2016
  
                                 Il “Misericordismo” tanto in voga è pur sempre moralismo.


Lo vedete tutti, va di moda presentare la Chiesa Cattolica come colei che perdona sempre, che accoglie senza giudicare. Chi vuol star dentro al nuovo corso della chiesa ammodernata ormai deve presentarsi così. Sono tanti i pastori nella Chiesa che non osano pronunciare nemmeno più una condanna riguardo al peccato – a meno che questa condanna non segua i dettami della cultura laicista dominante – e che si riprogrammano come silenti misericordisti; e sotto questo misericordismo sembrano benedire i peccati più orrendi che diventano libertà civili.

Anche la Sardegna senz'acqua?

Quando la “Parola di Dio” dà fastidio anche ai vescovi



Decimoputzu (CA) - Manifestano, a comando, contro il parroco
Sabato 28 maggio scorso, si è verificato in Sardegna un piccolo terremoto, per l’esattezza a Decimoputzu, un paese di 4500 abitanti in provincia di Cagliari. Qui, il parroco, Don Massimiliano Pusceddu, dopo aver letto il Vangelo del giorno ha svolto l’omelia ricordando l’importanza della famiglia e, di contro, gli attacchi alla stessa famiglia condotti oggi con mezzi diversi, comprese le leggi dello Stato, come quella sulle cosiddette “unioni civili” che, ha detto il parroco, è un attacco al cuore della famiglia.
(si ascolti l'omelia: https://www.youtube.com/watch?v=_IdVKz0I-20)

La ‘preghiera per la pioggia’

“Preghiera per la pioggia” palestinese: Israele e l’uso dell’acqua come arma di guerra

di  Ramzy Baroud
Comunità intere, in Cisgiordania, non hanno accesso all’acqua o hanno avuto il rifornimento idrico ridotto quasi della metà.
Questa situazione drammatica è in corso da settimane, da quando l’azienda idrica nazionale israeliana, la ‘Mekorot’, ha deciso di tagliare – o di ridurre in modo considerevole – la fornitura a Jenin, a Salfit, in molti paesi attorno a Nablus e in altre zone.

Cattolico, sincero ,non e' tollerabile nel mondo di oggi ..

La maledizione dei banchieri di Dio


08:13
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Intervista a Ettore Gotti Tedeschi www.newsrss24.com/…/la-maledizione-…


«Mantenere la calma»?

Zen ai cattolici cinesi: se si fa l’accordo con la Cina, non dovete seguire il Papa

Il vescovo emerito di Hong Kong fa appello alla «coscienza» e richiama i «fratelli e le sorelle» della Repubblica Popolare a ignorare una possibile intesa tra Cina e Santa Sede approvata dal Successore di Pietro. Uno “strappo” annunciato, rispetto alla via del dialogo seguita già da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
Il cardinale Zen, al centro, durante una protesta
Se mai ci sarà un accordo tra Cina popolare e Santa Sede, esso avrà di certo «l’approvazione del Papa». Eppure i cattolici cinesi non saranno tenuti a prenderlo in considerazione, se ritengono «in coscienza» che esso sia «contrario al principio della fede». Parola del cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong.  

Spiragli o spifferi?

Belgio, una buona notizia (a metà)…
L’arcivescovo di Malines-Bruxelles, mons. De Kesel, ha fatto, parzialmente, marcia indietro. Il 15 giugno scorso aveva annunciato di non voler più ospitare nella sua diocesi la Fraternità dei Santi Apostoli. Adesso ci sono spiragli...



“Dio c’aiuti!”..

“Scuse ai gay? Dio ci salvi dal politicamente corretto”, dice il card. Napier

Il porporato sudafricano risponde via Twitter al tedesco Marx
Il cardinale sudafricano Wilfrid Fox Napier

 Roma. Ancora prima che lo dicesse il Papa rispondendo a una domanda rivoltagli a bordo dell’aereo che lo riportava a Roma dall’Armenia, era stato il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, presidente della conferenza episcopale tedesca e stretto collaboratore sul fronte finanziario di Francesco – è coordinatore del Consiglio per l’economia – a sostenere l’esigenza di “chiedere scusa ai gay” (Francesco, nella sua risposta, aveva aggiunto anche “ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati nel lavoro”). Il porporato bavarese era intervenuto a una conferenza organizzata presso il Trinity College di Dublino, in Irlanda. In quell’occasione aveva detto che “la storia degli omosessuali nelle nostre società è stata molto negativa, poiché abbiamo fatto molto per marginalizzarli”. Ecco perché “come chiesa e come società dobbiamo dire ‘mi dispiace, mi dispiace’”.

6 x 6..


Citazione di Bergoglio

«Gli stati devono essere secolari, quelli confessionali finiscono male. [...] Sono contro la storia. Io credo che una versione della laicità, accompagnata da una solida legge che garantisca la libertà di religione, offra un quadro di riferimento per andare avanti. Siamo tutti figli e figlie di Dio, con la nostra personale dignità. Ognuno deve avere la libertà di esprimere la propria fede. Se una donna musulmana vuole indossare il velo, deve poterlo fare. Allo stesso modo, se un cattolico vuole indossare una croce. Le persone devono essere libere di professare la loro fede nel cuore delle loro proprie culture e non ai loro margini».

(Fonte: Vatican Insider)

Un’infelice risposta di papa Bergoglio

Il celibato ecclesiastico




Ripreso da SI SI NO NO, anno XLII, n. 11, del 15 giugno 2016

via Madonna degli Angeli, 78, 00043 Velletri
tel. 06. 963.55.68; fax 06.963.69.14
sisinono@tiscali.it


L'immagine sottostante è nostra






Un’infelice risposta di papa Bergoglio a un giornalista ha lasciato intendere che la legge sul celibato ecclesiastico potrebbe essere oggetto di revisione, se non di abolizione.
Ora, il cardinal Alfonso Maria Stickler nel 1994 pubblicò in italiano un libro interessantissimo intitolato Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana). In questo articolo lo riassumeremo affinché possano i nostri associati avere un’idea chiara sulla natura del celibato ecclesiastico, sulla sua istituzione e sulla differenza tra la Chiesa latina e quella orientale riguardo a questo problema.

mercoledì 29 giugno 2016

Il fascino irresistibile della fogna

Krzysztof Charamsa, protagonista nello scorso mese di ottobre di uno squallido esibizionismo per comunicare al mondo la sua patologia, torna in auge al raduno per invertiti di Padova. E si prospetta il business, perché verrà presentato il suo libro autobiografico. Il porno vende sempre.
di Paolo Deotto
ztopiKrzysztof Charamsa, anni 43, è un uomo (?) di cui davvero non varrebbe la pena parlare. Ma se è lui a mettersi di nuovo in mostra e ad avviare il suo personale business, allora può valer la pena mettere i puntini sulle “i”.
Non dilunghiamoci troppo sull’episodio, forse più squallido che scandaloso, del 6 ottobre 2015, quando Charamsa ci tenne a far sapere al mondo intero che lui era un omosessuale; non solo, la giuliva comunicazione, senza la quale il mondo avrebbe continuato a vivere benissimo, fu accompagnata dalla presentazione del suo “fidanzato”. Già l’omosessualità è una patologia, ma anni orsono, prima che la psichiatria diventasse una burla ideologica, anche il bisogno impellente di “parlare di sesso” era studiato tra i disturbi “minori” della psiche.

La nuova morale

Le Osservazioni sull’Amoris laetitia di don Alfredo Morselli
(di Emmanuele Barbieri) Mentre si moltiplicano le dichiarazioni sconcertanti di papa Francesco, si vanno moltiplicando le analisi critiche dei suoi principali documenti. Tra gli studi più seri e interessanti, va segnalato quello di don Alfredo M. Morselli, un dotto e pio sacerdote bolognese che sarebbe improprio catalogare come “tradizionalista”.
Il 29 settembre 2015 don Morselli firmò con l’abbé Claude Barth e mons. Antonio Livi, una serrata critica dell’Instrumentum Laboris predisposto per la XIV Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351141). Successivamente è intervenuto con delle accurate Osservazioni su alcuni punti controversi dell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, apparse nel mese di maggio sul blogMessainlatino (http://blog.messainlatino.it/2016/05/osservazioni-su-alcuni-punti_43.html).

La «nuova evangelizzazione»

Per i 500 anni di Lutero ora è la Chiesa ad autoaccusarsi

(di Mauro Faverzani) Per l’occasione si è scomodato persino il presidente federale di Germania, Joachim Gauck, che, tra l’altro, è anche un pastore protestante. Proprio lui, lo scorso 18 febbraio, ha incontrato la presidenza del Dekt, Convegno dei protestanti, ed il ZdK, Comitato Centrale dei cattolici, nel corso di un lungo colloquio, durato un paio d’ore.
Si è fatto il punto sullo stato dell’ecumenismo nel Paese, sull’impegno socio-politico dei laici di ambedue le confessioni ed anche sul contributo offerto dai cristiani in generale allo stato di coesione interna della società tedesca. Infine, il discorso è caduto lì e non poteva essere diversamente, ovvero sull’anniversario della Riforma, sulla ricorrenza nel 2017 dei 500 anni dall’affissione delle famose 95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittemberg ad opera di Martin Lutero.

Tornare a Dio

VERITA' E' COME DIO CI VEDE

    La verità è vedere noi stessi come Dio ci vede. Che altro è il peccato, se non essere al buio, lontani dalla verità? E che altro è la verità, se non tornare a Dio, ove la sete si placa e il cuore trova la pace? 
di Francesco Lamendola  


Uno degli aspetti più caratterizzanti della civiltà moderna è il suo atteggiamento nei confronti della verità: che è passato, nel corso del tempo, da un senso di euforia, e quasi d’onnipotenza, tipico della fase iniziale (dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo) ad una condizione di dubbio sempre più forte, a un crescente scetticismo, poi alla negazione e al rifiuto; per giungere, da ultimo, a una specie di odio contro la verità, un odio che si esprime rabbiosamente, o con ironia, o con derisione, o con disprezzo, ogni qual volta ci si trova in vicinanza di essa, per esempio quando si vede qualcuno che la antepone ad ogni altra cosa e che, per essa, appare pronto a qualunque sacrificio, compreso quello della vita.
In simili casi, l’atteggiamento complessivo della nostra società, a cominciare dai cosiddetti intellettuali, ondeggia fra l’incredulità, il sarcasmo e il compatimento, come se ci trovasse alle prese con un povero demente, o con un ingenuo presuntuoso, oppure con un fanatico, potenzialmente assai pericoloso. Ciascuno si fa queste domande: Come osa, costui, affermare che la verità esiste e che essa è conoscibile dall’uomo? Chi si crede di essere? Pensa, forse, di essere migliore di tutti gli altri, dal momento che la verità - è cosa nota - o non esiste, oppure, se anche esistesse, sarebbe molto al di là della nostra portata?
Infatti, i seguaci e i fautori del soggettivismo esasperato e del relativismo radicale, i due macigni che ostruiscono il nostro cammino verso la verità, ci hanno quasi persuasi che le cose stanno come affermano loro: che non esiste una verità assoluta, ma che ciascuno ha il diritto di coltivare la sua piccola verità personale, e che non esistono certezze o valori forti, perché tutto è relativo, tutto dipende da come lo si guarda e da come lo si interpreta.
Questa, ovviamente, è una filosofia che può adattarsi solamente a dei folli, ma dei folli che siano anche disperati: perché solo un folle disperato può pensare davvero di vivere in un mondo siffatto, dove non esistano né la verità, né la certezza di poterla trovare: folle, perché vivere in una simile maniera diventa, alla lettera, impossibile; disperato, perché equivale alla perdita totale della speranza.
Se fossero coerenti, quei signori la smetterebbero di intronarci gli orecchi con le loro litanie e cambierebbero mestiere; rinuncerebbero spontaneamente alle loro comode poltrone e alle loro prestigiose cattedre universitarie; la smetterebbero di scrivere articoli e libri, di partecipare a talk-show televisivi, di prestarsi a rilasciare interviste, a tenere conferenze, a presentare l’ultimo parto editoriale dell’amico, o dell’amico degli amici; se fossero coerenti, si ritirerebbero in campagna, a coltivare fagioli e pomodori, e le loro considerazioni le loro perle di saggezza le regalerebbero, tutt’al più, a pochissimi intimi, oralmente e quasi di nascosto, con un senso i pudore, se non proprio di vergogna.
Quale saggezza, infatti, sarà mai possibile, in un mondo totalmente abbandonato dalla speranza, ove non esistono né la verità, né la certezza di poterla trovare? No: se si vuole esser coerenti, dopo aver proclamato che il mondo è una nave dei folli, bisogna mettersi in capo il berretto coi campanelli ed unirsi, volonterosamente e con la massima convinzione, alla follia generale; bisogna fare come i dadaisti o i surrealisti, e scrivere commedie dell’assurdo, o dipingere quadri senza senso, o costruire strade che non portano da nessuna parte, o gettare ponti fra due isole deserte, o varare navi con un pescaggio maggiore del bacino di collaudo, o costruire aerei con le ali di piombo, o tenere conferenze ai cani e ai gatti, o candidare al Nobel per la pace il più grande criminale della storia. Queste son le cose da fare (e alcune, in effetti, sono state fatte, o almeno tentate) se davvero si vuol essere coerenti;e abbandonarsi a pazzie tali che l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, al confronto, appaia come uno scherzo da bambini.
Lo ripetiamo: la civiltà attuale non si limita a negare la verità e a dichiarare impossibili, o fasulle, tutte le certezze; si è spinta molto più avanti: essa ha dichiarato guerra contro la verità, l’ha presa in odio, la combatte con accanimento ovunque se ne offra l’occasione. Strano comportamento: se la verità non esiste, se fosse fatta – per usare un’immagine di Shakespeare – della stessa sostanza dei sogni, dovrebbe essere sufficiente ignorarla, anzi, non parlarne e non pensarci neppure, perché già il solo fatto di parlarne e di pensarci, sia pure per dichiararla inesistente, le conferirebbe una qualche forma di esistenza, e sia pure fantastica e soggettiva. In un certo senso, l’atteggiamento della cultura e della società attuali nei confronti della verità è analogo a quello che esse dimostrano nei confronti di Dio: non ci credono, però lo considerano un nemico pericoloso; lo negano, però non desistono dal combatterlo accanitamente, o dal combatterne la credenza; ridono di Lui e di tutti coloro che ci credono, però scattano in piedi, pronti a menare fendenti a destra e a manca, non appena sembra loro di udire dei passi nella stanza che ha lasciato vuota e deserta, come se, in fondo al cuore, temessero di vederne uscire un fantasma, e quel pensiero trasmettesse loro una paura tremenda che, per dispetto, per non darla vinta al Dio defunto, camuffano in furore.
Ma che cos’è la verità? La verità – non possiamo procedere senza darne una definizione, e ci sembra che quella classica sia sempre valida – è l’accordo del giudizio con la cosa. Se il giudizio è in accordo con la cosa, siamo nella verità; se è in disaccordo con essa, siamo nell’errore. Tuttavia, vi è differenza fra dire che cosa è la verità e come la si posa definire; nel secondo caso, stiamo già ragionando non sulla verità, ma su quel che la verità appare a noi, o su quella parte di verità che è a noi accessibile. Ecco, dunque, che le parole acquistano un peso determinante: dare una definizione della verità non equivale forse ad ammettere che altro è la cosa in sé, altro ciò che della cosa noi possiamo dire? Probabilmente sì; però questo accade a proposito di qualunque enunciato, anche se il carattere paradossale di ciò emerge con più forza quando si parla della verità, perché la verità, per definizione (appunto), fornisce il criterio di discriminazione necessario a qualsiasi discorso, su qualsiasi argomento. Se non si definisce cosa sia la verità, non si può parlare né di geometria, né di chimica, né di giurisprudenza, né di finanza; nondimeno, definire la verità significa anche un po’ tradirla, perché la definizione fissa dei paletti, traccia dei confini, mentre la verità, come e più di qualunque altra cosa, non sopporta di essere limitata a priori, la sua vera dimensione eccede sempre le nostre categorie, i nostri concetti e le nostre parole.
Cercheremo di essere ancora più chiari. La verità ultima, la Verità che regge tutte le altre verità, o tutto quel che ci appare come vero, è una sola: Dio. Dio solo è vero per se stesso; Dio solo garantisce la verità delle cose che noi constatiamo essere vere; Dio solo vede ogni cosa con verità (cioè con amore e con giustizia), per cui, se noi pure vogliamo rendere limpido il nostro sguardo, e cercare la verità delle cose, dobbiamo adeguare la nostra vista a quella di Dio. Questo, umanamente parlando, è impossibile: ed è proprio qui che inizia il cammino della fede. La fede diviene possibile e necessaria laddove la ragione ha condotto a termine il suo percorso: essa non è una negazione della ragione, ma una prosecuzione del cammino da quella intrapreso. La fede non nega la ragione, ma le dà la possibilità di portare a compimento quel che essa aveva incominciato, ma non è, né sarà mai capace di concludere.
La ragione umana cerca la verità; non questa o quella piccola verità, ma la Verità assoluta; quindi, anche se non lo sa, essa cerca Dio. Trovare Dio è la stessa cosa che trovare la Verità; non trovarlo, o non cercarlo, è la stessa cosa che voler travasare tutta l’acqua del mare in una piccola buca scavata nella sabbia, presso la riva. Ecco perché l’anima ha sete di Dio: perché la mente dell’uomo ha sete di verità, e non ha pace, né riposo, fino a quando non l’abbia trovata. Però non la troverà mai, se non la cerca là dove essa si trova: troverà solo delle mezze verità, delle false verità, delle ombre, o larve, o fantasmi di verità: e li scambierà ogni volta per la verità intera, si illuderà e poi resterà atrocemente delusa. Di delusione in delusione, l’anima dell’uomo moderno ha dichiarato che la verità non esiste. Però, la sete di essa non si estingue per il fatto di dichiararla inesistente; ed ecco la radice dell’odio, tutto moderno, contro la verità. L’anima moderna odia la Verità perché si sente delusa e tradita in un suo bisogno fondamentale; e, soggettivamente parlando, ha ragione di sentirsi così, delusa e tradita, e perciò anche arrabbiata. Solo che non si rende conto di essere lei stessa la causa della propria delusione e del proprio senso di tradimento e di abbandono: e continua a prendersela non con se se stessa, che è la vera responsabile della propria infelicità, ma con la verità, per la “colpa” di non esistere. Di fatto, è impossibile prendersela con qualcuno che non c’è, che nemmeno esiste: allora, inevitabilmente, un po’ alla volta, si finisce per trasferire la propria rabbia e la propria disperata ribellione contro questa o quella cosa, poi contro altre cose, e, alla fine, contro tutte.
L’anima moderna è come in preda a una possessione demoniaca, perché odia il mondo, odia la vita e, soprattutto, odia se stessa, senza rendersi conto di ciò che realmente prova, e, in ogni caso, dirigendo la sua aggressività verso il bersaglio sbagliato. Come l’idrofobo anela alla frescura dell’acqua, però, nello stesso tempo, la detesta e se ne tiene lontano, così l’anima moderna anela al possesso della verità, però non sa avvicinarsi ad essa, non lo vuole, e preferisce illudersi che le piccole verità parziali – quelle della scienza, ad esempio; o quelle che le suggeriscono l’edonismo, il relativismo e l’indifferentismo – potranno placare la sua sete. Ma rimane ogni volta delusa, e, ogni volta, afflitta da un più grave senso di frustrazione e di vuoto.
Ora, è evidente che la verità più importante, per l’uomo, è quella relativa a se stesso; e non già una verità astratta e generica, bensì la verità concreta e vitale di ciascun singolo individuo, come giustamente insegnava Kierkegaard. A che cosa mi servirebbe conoscere mille verità lontane, se ignoro la verità del mio stesso io, se sono nell’ignoranza riguardo a me stesso? Infatti, dalla conoscenza di me, potrò poi procedere alla conquista di altre verità, e, alla fine, giungere alle soglie della Verità ultima; mentre il cammino inverso risulta praticamente impossibile. Ma eccomi di nuovo preso in trappola: come giungere alla verità di me stesso, se io, come parte in causa, non posso, per definizione, innalzarmi a un punto di vista superiore, e vedermi così come sono, cioè come sono veramente, e non come appaio a me stesso, probabilmente in maniera illusoria e ingannevole? Chi o cosa mi darà la forza d’innalzarmi al di sopra di me stesso, per uscire al di fuori di me stesso, e guardarmi con sguardo veritiero, cioè con sguardo realmente oggettivo? È evidente che questa forza non me la posso dare da solo; e Nietzsche, che sosteneva esattamente questo, in realtà stava indulgendo a un sofisma, del tutto simile a quello del Barone di Münchhausen allorché, sprofondato nella palude con tutto il cavallo, se ne trasse fuori afferrandosi e tirandosi in su per i capelli. Solo da Dio mi può venire questa forza, che si chiama Grazia; ma, per poterla ricevere, devo essere disposto ad accoglierla, e, pertanto, devo riconoscermi debole e privo di quel che mi occorre. Il segreto della fede è tutto qui: essa resiste agli orgogliosi e ai superbi, proprio come ha detto Gesù, mentre Dio la dona ai semplici e agli umili di cuore. Lui solo, infatti, ci vede come siamo realmente, sino in fondo; Lui solo ci conosce in maniera veritiera, perché siamo opera Sua. Di nostro, possiamo metterci solo la possibilità di dire no a Lui, e quindi alla verità. Ma se ci facciamo umili e diciamo , abbandonandoci a Lui, allora noi saremo, anzi, noi resteremo uniti alla Verità, dalla quale abbiamo avuto origine, così come ha avuto origine tutto ciò che esiste. In fondo, la cosa è abbastanza semplice: siamo noi stessi, con i nostri vani ragionamenti, con i nostri sofismi e con le nostre fumisterie, che abbiamo reso tutto così terribilmente complicato. Essere in Dio, vuol dire essere nella verità: e chi è nella verità, non s’inganna e non costruisce nel vuoto. Non ha bisogno di fare il buffone, di mettersi il cappello con i sonagli e di costruire strade che non portano da nessuna parte. La sua vita acquista una profonda serietà, perché la verità è una cosa seria; acquista un valore e una direzione, perché fuori dalla verità non ci sono valori di sorta, né mete da raggiungere, ma solo emozioni fuggevoli, ed un vagabondare capriccioso e insensato. Questo vagabondare, è, in termini cristiani, il peccato: un oziare lontano da Dio, un voltargli le spalle.
Ha scritto padre Livio Fanzaga (in: La confessione. Dove il cuore trova pace, Milano, Sugarco, 2008, p. 71): Che cos’è la verità? Nel nostro caso è vedere noi stessi come Dio ci vede. Infatti noi siamo nella realtà non come noi pensiamo di essere, ma come Dio ci guarda e ci giudica. Quando siamo immersi nelle tenebre del peccato non vediamo la nostra vita così com’è. Siamo ciechi e non ci rendiamo conto della nostra miseria e del pericolo che incombe sulla nostra esistenza mentre siamo lontani da Dio e chiusi alla sua grazia. Che altro è il peccato, se non essere al buio, lontani dalla verità? E che altro è la verità, se non tornare a Dio, ove la sete si placa e il cuore trova la pace?


La verità è vedere noi stessi come Dio ci vede

di Francesco Lamendola

DIFFICOLTA' DI CREDERE E SUPERBIA

    La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna. Credere in Dio: i sedicenti cristiani ne parlano con un misto d’incredulità e scoraggiamento gli altri con un tono beffardo d’ironia e quasi d’irrisione 
di Francesco Lamendola  



Credere in Dio; credere alla possibilità di giungere alla Verità; credere alla possibilità di realizzare in se stessi la vita buona, di rispondere affermativamente alla chiamata alla santità rivolta a tutti gli uomini, nessuno escluso: tutto ciò, per l’uomo moderno, sembra divenuto impossibile, o comunque difficilissimo: i sedicenti cristiani ne parlano con un misto d’incredulità e scoraggiamento; gli altri, con un tono beffardo, d’ironia e quasi d’irrisione.
Partiamo dalla fede in Dio, cioè dalla fede che sorregge la fede in tutto il resto: nella verità e nella possibilità di raggiungerla; nella santità e nella possibilità di realizzarla. La fede in Dio, si dice, è diventata difficile, pressoché impossibile, perché la civiltà moderna ha demolite, una dopo l’altra, le credenze dei nostri progenitori, mediante il progresso della scienza: sicché noi non possiamo più credere come credevano loro, e, anche se lo facessimo, ci macchieremmo di una duplice colpa, intellettuale e morale: intellettuale, perché getteremmo nel cestino secoli di progresso scientifico, morale, perché mostreremmo di non avere il coraggio di guardare avanti, di accettare la nostra condizione di animali evoluti e intelligenti, i quali devono affrontare la realtà e vivere contando solo su se stessi, senza coltivare favole religiose per consolarsi della duplice, tragica scoperta del sapere moderno: che il mondo è senza senso, perché non è scaturito da un atto d’amore di Dio; e che la morte del corpo è la fine di tutto.
Si tratta, a ben guardare, di una specie di ricatto, anzi, di auto-ricatto; se io credo in Dio, se mi affido a Lui, se leggo il Vangelo con fede, e non come uno dei tanto documenti dell’umana illusione d’immortalità, vengo meno al mio stesso statuto ontologico di essere razionale, e mi rendo colpevole di vigliaccheria e diserzione: è come se abbandonassi il mio posto nella battaglia per la civiltà, come se voltassi le spalle al vero, e così regredisco allo stato infantile, in un mondo fittizio, alienato, popolato di creature invisibili, angeli e demoni, nel quale tento di rassicurare le mie paure e di tacitare i miei dubbi, il timore che ho di comportarmi da persona adulta e di assumermi le relative responsabilità. I miei amici, che siano persone colte oppure no, mi guarderanno con stupore e commiserazione, come si guarda un fenomeno anacronistico o un povero individuo spaventato, che si rifugia nelle infantili sicurezze di un tempo trascorso per sempre.
Nella società attuale, infatti, tutte le simpatie, tutta l’ammirazione, vengono riservate alle persone audaci, intrepide, le quali rifiutano teorie e “storielle” consolatrici, e che mostrano il coraggio di vivere la vita accettandola per quello che è: un tempo breve, limitato, fra il nulla del prima e il nulla del dopo: un lampo di luce, inspiegabile e irragionevole, nel buio dell’universo; una occasione tutta immanente di gioire, di conoscere, di amare, sempre con i piedi bene attaccati alla terra, sempre con lo sguardo rivolto in avanti, non troppo in alto, perché in alto ci sono le nuvole, e, oltre le nuvole, il cielo, e il cielo non è la nostra vera patria, la nostra unica patria è questa qui, che abbiamo sotto di noi: la terra, con tutte le cose che contiene, belle o brutte che siano, e che, del resto, sta in noi rendere brutte o belle, perché noi, e noi soltanto, siamo i giudici della nostra vita e gli artefici del nostro destino.
Le donne ammirano l’uomo audace, intrepido, che non china la testa davanti a niente e a nessuno, che è sempre sicuro di sé, che non teme l’Aldilà, perché crede solo nell’al di qua; gli studenti ammirano il giovane professore di filosofia, originale, anticonformista (anche se non lo è poi tanto quanto essi credono), che non mostra alcun rispetto per la tradizione e che parla come se non occorresse neanche prendesi il disturbo di dimostrare che Dio non c’è, e che pensa unicamente a come migliore la società, magari per mezzo di una rivoluzione; i bambini ammirano la mamma disinvolta e innamorata di sé, che non va in chiesa, ma in palestra, e il papà intraprendente, concreto, che bada al lavoro e al guadagno, poi si gode le vacanze esotiche, senza fisime spirituali e senza troppi scrupoli di coscienza; i giovani ammirano gli amici i quali non hanno paura di niente e di nessuno, disinvolti, sfacciati, che inseguono mille piaceri e si lasciano sedurre da mille richiami, mentre disprezzano le anime pensose, introverse, meditative, profonde, sensibili; i giovani preti ammirano i vescovi che parlano male della Chiesa, della gerarchia, della “repressione” sessuale, che deridono la credenza nel Diavolo e che nascondono a fatica un sorrisetto di superiorità quando si parla della Madonna, della sua intercessione, del suo ruolo di suprema mediatrice; e i giovani parrocchiani ammirano i preti d’assalto che hanno sempre in bocca la “liberazione” e la “giustizia sociale”, che si gettano a capofitto in mille attività e non perdono mai tempo a pregare, perché pregare è una cosa poco utile e, per giunta, è una forma d’ipocrisia, perché vi si rifugiano quelli che non hanno voglia d’impegnarsi per cambiare in meglio la società.
Lo stesso tipo di atteggiamento esiste, ed è largamente diffuso, nei confronti del cinema, della televisione, della letteratura, dello sport, degli svaghi e del tempo libero: non sono apprezzati i film, i programmi, i libri, le persone che parlano del bene e che cerano di praticarlo, ma sono ammirati e ricercati tutti quei film, quelle opere, quelle persone e quei comportamenti che riflettono uno stile di vita materialista ed edonista, cinico e disilluso, dove l’importante è fregare il prossimo prima che sia il prossimo a fregare noi, e dove gli altri servono solo per il nostro piacere, per soddisfare la nostra vanità, per celebrare le nostre doti, vere o presunte, e gratificare e carezzare il nostro immenso, ipertrofico Ego. Un film che abbia come tema centrale la ricerca del bene, ad esempio, viene guardato con fastidio e malcelata ironia dalle giurie incaricate di assegnare i premi; e lo stesso vale per i romanzi, le poesie, i saggi, le opere d’arte, le opere musicali, il modo di comportarsi quando si è in vacanza o quando si gode del proprio tempo libero. Degne di ammirazione sono le persone le quali si fanno largo senza tanti complimenti (ad esempio, nell’ambito sportivo, quelle che assumono sostanze chimiche proibite, beninteso purché sappiano farlo con l’abilità necessaria per non essere scoperte), e afferrano al volo tutte le occasioni di piacere, di avanzamento e di carriera, perché quello che conta è il risultato, e, pur d’arrivarci, va bene qualsiasi mezzo.
Questo è il contesto generale in cui si inscrive la difficoltà della fede per l’uomo moderno. Dopo che legioni di filosofi, d’intellettuali e di romanzieri hanno sostenuto che l’unica realtà di cui possiamo disporre è quella materiale e contingente; dopo aver appreso, dai loro libri, che non vale nemmeno la pena di confutare la credenza in Dio, perché essa appartiene alla preistoria, e ad un filosofo moderno, ad esempio, non resta altro che trarre le conseguenze dalla non esistenza di tutto ciò che è trascendenza, e dalla convenzionalità di tutto ciò che era stato considerati sacro, è chiaro che la maggioranza delle persone finisce per introiettare l’idea che il discorso sia chiuso da un pezzo e che l’impossibilità di credere non sia affatto una anomalia, bensì, al contrario, che anomalo, e un po’ buffo, un po’ rétro, sarebbe il suo contrario, cioè rivolgere la propria fede a Dio. Ma è chiaro che gli effetti sono insiti nella premessa. Se si semina incredulità e disprezzo per la trascendenza e per il sacro, si raccoglieranno generazioni d’increduli e di cinici. Se si irride il bene da tutti i pulpiti e si tesse l’apologia del piacere ad ogni angolo di strada, nessuna meraviglia può esserci quando scopre il rovescio della medaglia: famiglie che si disgregano, rapporti di lavoro che si logorano, ansia ed angoscia che spingono milioni di persone verso la pace illusoria dei farmaci, delle cure psichiatriche, delle sette di esaltati che promettono di portare le persone fuori dal tunnel della depressione e di avviarle in un mondo paradisiaco, fatto di assoluta sicurezza in se stessi, esigendo, però, una cieca sottomissine degna di schiavi, non di uomini liberi.
E allora, vediamo un po’ meglio, un po’ più da vicino, quali siano i veri termini della questione. È difficile credere, oggi? Forse; può darsi. Ma non si ha il diritto di dirlo, né, tanto meno, di farsene una giustificazione, se si è coltivata una tale difficoltà con ogni mezzo, con ogni studio. La condizione privilegiata per credere è abbandonare il proprio Ego, staccarsi dagli idoli del potere, del piacere, del (falso) sapere, e mettersi sulla strada della vita buona. Se non si prova a fare questo, non ha senso, poi, parlare della difficoltà di credere: sarebbe come parlare della difficoltà di ottenere buoni risultati in una determinata pratica sportiva, se non si è capaci di smettere di fumare e di frequentare amici che sono fumatori accaniti. D’altra parte, la fede non viene su nostro comando: noi non possiamo darcela da soli. Dobbiamo domandarla, perché è un dono: un dono, ha specificato Gesù Cristo, riservato alle anime umili e semplici, e negato agli orgogliosi e ai superbi, i quali si credono tanto intelligenti e tanto superiori a quegli altri, ai “piccoli”. Dio, però, ama appunto i piccoli; come afferma il Vangelo: Se non diverrete come questi fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli. Vorrà pur dire qualcosa. Ecco, dunque, che l’uomo moderno dovrebbe fare esattamente quel che facevano i suoi nonni e bisnonni: deporre la superbia intellettuale e farsi piccolo come un fanciullo. Molti ne sono incapaci, specialmente fra coloro i quali hanno studiato: giornalisti, professori, intellettuali, scienziati, artisti: proprio coloro dai quali dipende l’orientamento complessivo della società. Questo dimostra fino a che punto la ragione, concepita come staccata dalla fede e inconciliabile con essa, sia diventata la palla al piede dell’uomo moderno: ciò che gli impedisce di volare in alto, verso la libertà.
La vera libertà, infatti, non è quella di cui parlano e straparlano in tanti, in troppi, ossia una libertà negativa, contro qualcosa o contro qualcuno: non è affatto quella, ma un’altra: è la libertà di mettere in accordo se stessi con la propria parte migliore, con gli altri e con Dio. Non è vera libertà quella che implica un danno, una sopraffazione, una ingiusta sofferenza riservati agli altri, o anche alla propria parte migliore. La parte migliore di ciascuno di noi è quella che anela al bene, al vero, al giusto, al bello; la parte peggiore, quella che vorrebbe soddisfare tutti i suoi istinti e appetiti, calpestando la verità e la giustizia, ingannando e tradendo l’amore, deformando orribilmente la bellezza. Prendiamo quest’ultimo caso: la bellezza. Il vero artista è colui che la sa ritrarre con occhio sempre limpido, benevolo e spirituale: il che è possibile anche nella rappresentazione del nudo, come alcune famose opere di grandi artisti testimoniano. L’artista mediocre, fasullo, mercenario, che tradisce la propria vocazione per piacere al pubblico con i mezzi più facili, è colui che degrada la bellezza del corpo e la intorbida con allettamenti sessuali, i quali divengono pornografici, perché staccano la parte dal tutto, il corpo dall’anima, e trasformano il corpo umano in un mero oggetto, da desiderare in maniera brutale.
Resta fedele alla propria vocazione colui che resta ancorato alla verità. La verità ultima è Dio. Se il cinema, la televisione, la letteratura, l’arte, la scienza, la filosofia, la stessa teologia (come purtroppo si è visto nell’ultimo secolo) si allontanano da questa via, esse tradiscono se stesse e diventano incapaci di fare un discorso di verità. La stessa cosa vale per la psicologia, la sociologia e tutte le cosiddette scienze umane. Una antropologia che ignori il bisogno di Dio, o che lo consideri con sufficienza e con disprezzo, come qualcosa che si dovrebbe eliminare affinché l’uomo possa infine diventare “adulto”, non potranno che restituirci una immagine deformata e distorta di ciò che l’uomo effettivamente è. Lo abbasseranno al rango di un animale stupido e ingordo, bramoso di sempre nuovi piaceri, instancabile nel vizio, nella prepotenza, nell’egoismo, vile davanti alle prove, alle difficoltà della vita, esperto nella maldicenza, nella calunnia, nella disonestà, nella patologica, compulsiva affermazione di sé. Le persone che si affidano, per i loro disturbi e per le loro difficoltà, a siffatti psicologi e psichiatri, e gli studenti che vengono guidati al sapere da siffatti maestri, impareranno, forse, molte cose, ma non la cosa essenziale, l’unica che conti veramente: come giungere alla Verità e come trovare, in essa e in essa soltanto, la pace del cuore.
La Verità è Dio; la pace sta in Lui. La cultura moderna, gonfia di superbia, ha negato questa saggezza, antica di secoli e millenni, per sostituirla con la sua “saggezza”, tutta mondana e immanente. Ma non ha trovato quel che cercava, e, in compenso, ha visto crescere sempre di più il fardello della propria infelicità. L’uomo moderno è infelice perché si è allontanato da Dio. Per vincere la sua infelicità e per tornare a Dio, è necessario che si sbarazzi della radice di tutti i suoi mali: la superbia intellettuale. Deve tornare a riconoscersi piccolo e fragile, e avere abbastanza umiltà da chiedere a Dio la Grazia di quella fede, senza la quale non starà mai bene, né con gli altri, né con se stesso. Talvolta, negli squarci di lucidità, egli lo intuisce e vorrebbe quasi fare il gran salto della fede: ma è sempre la superbia a trattenerlo. Eppure Dio continua a cercarlo, a chiamarlo a Sé... 


La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna


di Francesco Lamendola