Il “Patto delle Catacombe”
Ieri mi sono imbattuto casualmente in un articolo sul “Patto delle
Catacombe”. Mi sono stropicciato gli occhi e mi son detto, alla toscana
(un querciolino non rinnega mai le sue radici): oh icchegliè?
Incomincio a leggere l’articolo e, man mano che procedo nella lettura,
mi sento sempre piú smarrito. Scopro che il 16 novembre 1965, pochi
giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, quaranta Padri
Conciliari, nelle Catacombe di Domitilla, firmarono il “Patto delle
Catacombe”. Cado dalle nuvole: in cinquant’anni, non avevo mai sentito
parlare di simile patto.
Terminata la lettura, faccio una veloce ricerca su Google, e scopro che ci sono un’infinità di link,
in genere risalenti all’anno scorso (novembre 2015), quando ricorreva
il cinquantesimo anniversario del patto. In quell’occasione si tenne
anche un seminario all’Urbaniana, a cui parteciparono Mons. Luigi
Bettazzi (forse l’unico sopravvissuto dei firmatari), il gesuita Jon
Sobrino e il Prof. Alberto Melloni (e noi che pensavamo che nel 2015 si
dovesse celebrare il cinquantenario del Vaticano II...). Furono scritti
anche diversi articoli. Riporto solo qualche titolo: «Con Papa Francesco
rivive 50 anni dopo il “Patto delle catacombe”» (Agenzia SIR); «Catacombe: il Patto per una chiesa povera» (Avvenire); «Nel patto delle catacombe il seme della Chiesa di Francesco» (Aleteia); «A 50 anni del “Patto delle Catacombe”. Per una Chiesa “serva e povera”» (Zenit). Addirittura, nel giorno anniversario, a Napoli, nelle Catacombe di San Gennaro, al Rione Sanità, in trecento (la crème della “Chiesa dei poveri” italiana) rinnovarono il patto.
Nella mia ricerca su Google scopro anche che c’è un articolo di Wikipedia.
Chiedo a persone di mia conoscenza, solitamente bene informate, se ne
sanno nulla, e mi rispondono: “Sí, certo, ne parla anche il Prof. De
Mattei nella sua storia del Concilio”. Un volume, questo, che avevo
letto a suo tempo, ma evidentemente non avevo messo a fuoco l’evento.
Eravamo ancora durante il pontificato di Benedetto XVI: certi fatti
sembravano ormai consegnati alla storia. È chiaro che la percezione dei
medesimi eventi varia a seconda della situazione in cui ci si trova a
vivere.
Vi lascio immaginare il mio stato d’animo, ieri sera. Ho sentito il
mondo crollarmi addosso: ma dove sono vissuto io in questi
cinquant’anni? Pensavo che il grande evento della Chiesa del XX secolo
fosse il Vaticano II; e ora scopro che, no, era il “Patto delle
Catacombe”. Mi avevano sempre detto che il rinnovamento della Chiesa era
stato avviato dal Concilio; e invece no, ora mi sento dire che il seme
della “Chiesa di Francesco” si trova nel “Patto delle Catacombe”. Ma
allora ho sbagliato tutto? Ditemi voi che cosa deve fare uno che, fin da
giovane, ha scelto come programma di vita quello di “incarnare il
Concilio” (vedi qui)
e che, per questa sua scelta, è stato osteggiato ed emarginato, e ha
dovuto sorbirsi gli epiteti di “lefebvriano” (da sinistra) e di “prete
modernista” (da destra), ma che ha accettato tutto perché convinto che
quella fosse la scelta giusta, perché persuaso che «nel Vaticano II si
esprime ciò che Dio vuole oggi da noi» (vedi il precedente link).
E ora, arrivato a sessant’anni, gli dicono: no, guarda, deve esserci
stato un malinteso; il seme della vera Chiesa, quella evangelica, quella
“povera per i poveri”, non sta nel Concilio, ma nel “Patto delle
Catacombe”. Direte che sto esagerando. No, vi posso assicurare che ero
davvero sconvolto. Comunque, andiamo con ordine. Cominciamo con la
lettura del patto:
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesú Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli delle nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. [Mt 5:3; 6:33s; 8:20]
2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). [Mc 6:9; Mt 10:9s; At 3:6 Né oro né argento]
3. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. [Mt 6:19-21; Lc 12:33s]
4. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e piú pastori e apostoli. [Mt 10:8; At 6:1-7]
5. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore...). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. [Mt 20:25-28; 23:6-11; Gv 13:12-15]
6. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, precedenze, o anche di una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). [Lc 13:12-14; 1 Cor 9:14-19]
7. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. [Mt 6:2-4; Lc 15:9-13; 2 Cor 12:4]
8. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. [Lc 4:18s; Mc 6:4; Mt 11:4s; At 18:3s; 20:33-35; 1 Cor 4:12 e 9:1-27]
9. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. [Mt 25:31-46; Lc 13:12-14 e 33s]
10. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. [At 2:44s; 4:32-35; 5:4; 2 Cor 8 e 9 interi; 1 Tim 5:16]
11. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua piú evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale — due terzi dell’umanità — ci impegniamo:
• a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
• a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino piú nazioni proletarie in un mondo sempre piú ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; cosí:
• ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
• formeremo collaboratori che siano piú animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
• cercheremo di essere il piú umanamente presenti, accoglienti...;
• saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. [Mc 8:34s; At 6:1-7; 1 Tim 3:8-10]
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci, Dio, ad essere fedeli.
Embè? potrebbe obiettare qualcuno alla romana. Che c’è di male in
questa dichiarazione? Si tratta di un testo che trasuda vangelo (basta
vedere i riferimenti che vengono riportati); un testo che solo dei santi
prelati potevano sottoscrivere. Mi spiace, ma questo per me non è
vangelo; è solo una interpretazione ideologica del vangelo. Il che è
diverso. Vediamo perché.
• Concedo che, a una lettura superficiale, si può rimanere affascinati
da tanto amore per la povertà, tanto distacco, tanta semplicità, tanta
generosità. Effettivamente solo dei santi sarebbero in grado di
realizzare un simile programma. E non escludo che qualcuno dei firmatari
lo fosse. Ma ciò non toglie al testo tutta la sua carica ideologica.
• Va apprezzata l’umiltà e la modestia che vi traspira: «un’iniziativa
nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la
presunzione»; «nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza»;
«aiutaci, Dio, ad essere fedeli». Ma non si può ignorare, allo stesso
tempo, una punta di presunzione: «in unione con tutti i nostri Fratelli
nell’Episcopato». L’unione con i fratelli nell’episcopato, in quei
giorni, si manifestava nell’aula conciliare, non nelle catacombe di
Domitilla.
• Riconosco pure che diversi punti sarebbero pienamente condivisibili,
se non fossero infettati dall’ideologia. Si vedano, per esempio i nn. 1 e
3: ci vuole molto a capire che si tratta di semplici utopie? A volte
sarebbero sufficienti le tradizionali virtú (distacco, semplicità,
onestà, correttezza, ecc.) per non cadere negli abusi a cui ci si illude
di porre rimedio con certi vani propositi. Un po’ di sano realismo non
guasterebbe!
• Non parliamo poi degli pseudo-problemi: vestiti, titoli, ecc. (nn. 2 e
5). Da quando in qua i “colori sgargianti” sono antievangelici?
«Rifiutiamo di essere chiamati … Eminenza, Eccellenza, Monsignore.
Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre». Ma,
veramente, nel vangelo è scritto: «Non chiamate “padre” nessuno di voi
sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt
23:9). E questa sarebbe fedeltà al vangelo?
• Evidentissimo è l’influsso del marxismo, tanto di moda in quegli anni:
«Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il
Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la
vita operaia e il lavoro» (n. 8); «l’adozione di strutture economiche e
culturali che non fabbrichino piú nazioni proletarie in un mondo sempre
piú ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro
miseria» (n. 11).
• Emerge una mentalità subalterna alle istituzioni pubbliche,
considerate le uniche legittime: «cercheremo di trasformare le opere di
“beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia,
che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile
servizio agli organismi pubblici competenti» (n. 9). Perché questo
rifiuto aprioristico della beneficenza? che male ha fatto? È evidente la
priorità, tutta ideologica, del momento sociale e politico rispetto a
quello puramente “assistenziale”.
• Vengono buttate lí proposte, che sanno tanto di massoneria: «l’avvento
di un altro ordine sociale, nuovo» (n. 10). Forse, un “nuovo ordine
mondiale”?
• Affermazioni giuste, ma che rischiano di rimanere dei semplici slogan:
«meno amministratori e piú pastori e apostoli» (n. 4); «piú animatori
secondo lo spirito che capi secondo il mondo» (n. 12).
• Alcuni passaggi poco chiari: «la collegialità dei vescovi trova la sua
piú evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini
umane in stato di miseria fisica, culturale e morale»; «investimenti
urgenti di episcopati di nazioni povere» (n. 11). Che significa?
Ma, a parte il contenuto del patto, quel che mi ha maggiormente turbato è la sua stessa esistenza.
Notate, esso viene concluso il 16 novembre 1965, a pochi giorni dalla
chiusura del Concilio. Perché? Che bisogno c’era? I firmatari erano
Padri Conciliari («Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II...»);
avevano partecipato a tutte le sedute conciliari; certamente avevano
proposto all’attenzione degli altri Padri anche i punti che che sono
oggetto del patto, ma evidentemente l’assemblea non aveva ritenuto
opportuno farli propri. Ora, se teniamo conto che i sottoscrittori del
patto erano 40 e i Padri Conciliari 2500, umiltà e buon senso avrebbero
voluto che i 40 si arrendessero alla volontà della maggioranza. Le
Costituzioni del mio Ordine, approvate nel Cinquecento, disponevano, a
proposito delle decisioni capitolari: «Si eviterà, quando verrà deciso
qualcosa contro il proprio parere, di continuare a opporsi o a ripetere
che non si condivide quella decisione; bisogna infatti persuadersi che è
giusto quanto è stato approvato dalla maggioranza» (l. IV, c. 7). A
quanto pare, invece, i piú spirituali dei Padri Conciliari non si
rassegnarono, non videro nelle decisioni della maggioranza il risultato
del “discernimento” del Concilio, “ciò che lo Spirito dice alla Chiesa”;
a loro non bastava quanto era stato approvato; evidentemente ritenevano
di essere portatori di una ispirazione speciale, esclusiva, e sentirono
il bisogno di riproporla con un gesto a parte, riservato a pochi
eletti: il “Patto delle Catacombe”. E il bello è che questo patto non è
rimasto un accordo privato fra quei pochi che lo hanno sottoscritto, ma
ha costituito la fonte di ispirazione per quanti in questi cinquant’anni
non si riconoscevano nella Chiesa istituzionale. Si ha l’impressione
che ci siano stati due concili: uno “essoterico”, destinato al vasto
pubblico, fatto dei sedici lunghi documenti approvati dai Padri, e uno
“esoterico”, riservato a pochi “illuminati”, fatto di dodici
paragrafetti (per altro, scritti con una certa approssimazione), che
però avrebbero condizionato la Chiesa nei decenni a venire. E
sembrerebbe quasi che il Concilio ufficiale sia servito solo da
paravento per coprire quello “reale”, rimasto sotto la cenere per
cinquant’anni, per manifestarsi infine ai nostri giorni. Che ci fossero
delle lobby, lo si sapeva; che queste, prima e durante il Concilio, si
riunissero separatamente per decidere e organizzare le modalità dei loro
interventi, sarà pure poco corretto, ma è comprensibile, rientra nella
normalità. Ma che quaranta Padri, alla vigilia della conclusione del
Concilio, abbiano sentito il bisogno di stringere un “Patto delle
Catacombe”, supplementare al Concilio, quasi suo momento supremo, a me
sembra semplicemente inconcepibile. Dà l’impressione di una specie di
Carboneria. Non bastava la “Mafia di San Gallo”; ora viene fuori (almeno
per me, che in questi cinquant’anni sono stato un po’ ingenuo e un po’
distratto) il “Patto delle Catacombe”. Questa nuova Chiesa, a quanto
pare, nasce sotto il segno della cospirazione. Ma non erano state aperte
le finestre per fare entrare aria fresca? Non doveva sentirsi profumo
di primavera? Io, per il momento, sento solo puzza di zolfo.
più che ministri di Dio sembrano dei "ragni" intenti a tessere la tela dove attirano le anime per sottrarne quante più possibile alla salvezza!amore mieloso che si tramuta in vischio dalla quale solo la grazia del Signore può preservarci dal cadere!Amen!Sia lodato Gesù Cristo!
RispondiEliminaZolfo e fogna !!!!!
RispondiEliminaBisognerebbe stanarli nei loro appartamenti vescovili e smerdarli davanti a tutti questa feccia dell'umanità: stirpe di Caifa che, se non si sarà ravveduta, andrà dritta all'Inferno! Nel frattempo li sbatterei in un manicomio con camicia di forza a vivere tutto l'anno in una tenda sotto le stelle e cagare nei bagni chimici! Schifosi bestemmiatori di nostro Signore, solo pedate in culo meritate!
RispondiEliminaIl concetto é chiaro, ma le espressioni volgari, a chi giovano?
EliminaEffettivamente il tizio non capisce che il turpiloquio va a favore del mister che sta al piano di sotto...noi possiamo solo pregare che si ravvedano...e anche presto prima che la barca di Pietro debba rendere conto al Signore della strada errata che ha imboccato...allora si che non ci salva la parolaccia...
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