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Harold Pinter

L’11 settembre 2001 ha causato 2.974 vittime innocenti in territorio USA e oltre 1.000.000 in altri paesi del mondo con un rapporto di 1/336. 

Questo è stato possibile perché l’11 settembre ha costituito una specie di “reset” della memoria collettiva.

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Quanto avvenuto è ben rappresentato da quello che è successo a Firenze il giorno prima, il 10 settembre 2001, allo scrittore Harold Pinter che poi nel 2005 avrebbe vinto il Nobel  per la letteratura. Pinter è stato un feroce critico delle guerre post 11 settembre e fu dichiaratamente critico sulla guerra in Iraq definendo il presidente degli Stati Uniti Bush un “assassino di massa” e Blair un “idiota” (fonte wikipedia), accuse che alla luce di quanto appurato dieci anni dopo dal rapporto Chilcot appaiono del tutto giustificate.
In occasione dell’attribuzione di una Laurea Honoris causa all’Università di Firenze proprio il giorno prima dell’attacco alle torri gemelle Pinter fece un discorso di forte e cruda denuncia delle politiche aggressive degli USA.
Il giorno dopo le azioni terroristiche, il 12 settembre 2001, da parte del Rettore dell’università di Firenze veniva pubblicata una pubblica dissociazione da quanto denunciato da Pinter.
La memoria degli ultimi anni subiva un “reset”, da quel giorno l’America e il mondo dimenticarono tutto, era nata un’America che in nome della lotta al terrorismo avrebbe disseminato il mondo di terrore.
Lo slogan “Never forget” rappresenta l’involontario messaggio di conferma, quel “Mai dimenticare” impegna la memoria a fissare l’attenzione sull’11 settembre, uno sguardo bloccato su un solo momento, una memoria cristallizzata che non permette di ricordare cosa era successo prima e cosa sarebbe accaduto dopo.

Discorso di Harold Pinter 10/09/2001
Sono molto onorato di ricevere questa laurea da un’Università di così grande prestigio. Credo di non sorprendere nessuno nel dire che per me l’uso che facciamo della lingua è sempre stato motivo di apprensione. E, in questi ultimi tempi, sono stato particolarmente colpito dall’espressione «Interventi Umanitari» usata dalla Nato per giustificare i bombardamenti in Serbia. Vorrei leggervi la relazione di una testimone oculare del bombardamento del mercato di Nis nel 1999. Il suo nome è Eve-Ann Prentice:
«La vecchietta sembra avere tre occhi. Ma osservandola da vicino mi sono resa conto che uno shrapnel le aveva perforato la fronte, uccidendola. A prima vista i corspi si confondevano con le macerie, gli alberi spezzati, i vetri rotti, ma poi ti accorgevi che c’erano corpi ovunque, alcuni avvolti da tovaglie e da coperte, altri lasciati così dove erano caduti. Le case con i loro recinti e le cassette piene di fiori, ora erano crivellate di proiettili. Nei giardini, le vedove vestite di nero, sopravvissute ai loro vicini che giacevano tra vetri rotti, alberi abbattuti, rottami di macchine e biciclette accartocciate, singhiozzavano sommessamente. Accanto ai morti, i sacchetti di plastica con la frutta, le uova e le verdure appena comprate al mercato. Era venerdì 7 maggio 1999, a Nis, una città del sud. La Nato ha poi detto che era stato un errore, che invece di lanciare quelle bombe micidiali sull’insediamento militare vicino all’aeroporto a tre miglia di distanza circa, le avevano sganciate su un groviglio di strade e stradine poco lontane dal centro della città. Sono morte almeno trentatré persone e molte altre sono rimaste atrocemente ferite, piedi e braccia squarciati o addirittura strappati via, addomi e toraci dilaniati da schegge di metallo vaganti».
Non era stata un’incursione di routine, ammesso che ciò possa esistere. La zona era stata colpita da bombe Cluster, o bombe a riempimento, congegni che, quando esplodono, costellano la zona bersagliata di frammenti di metallo roventi e devastanti. Il bombardamento di Nis non è stato affatto un «errore». Il generale Wesley K. Clarkaveva dichiarato subito, il giorno stesso in cui la Nato aveva iniziato i bombardamenti:
«Attaccheremo progressivamente e sistematicamente scardinando, sradicando, devastando e – se il presidente Milosevic non si adegua alle richieste della comunità internazionale – distruggeremo le loro “forze”, le loro fonti e i loro sostegni».
E per «forze» intendevano, come sappiamo tutti, stazioni televisive, scuole, ospedali, teatri, ospizi – e anche il mercato di Nis. Terrorizzare la popolazione civile era l’obiettivo principale della politica della Nato. Il bombardamento di Nis, che non è stato affatto un «errore», è stata un’azione delittuosa. Un atto criminale all’interno di una «guerra» già illegale di per se stessa, e fuori da tutti i parametri riconosciuti dalla Legge Internazionale, a dispetto delle Nazioni Unite, che ha violato perfino le regole della Nato stessa. Ma ci dicono che queste imprese fanno parte della politica degli «interventi umanitari» e le morti dei civili non sono altro che una «disgrazia secondaria».
L’«intervento umanitario» è un concetto relativamente nuovo. Ma il presidente George W.Bush, per non deludere la grande tradizione presidenziale americana, parla sempre di «uomini che amano la libertà» (sarebbe curioso conoscere gli «uomini che odiano la libertà»). E in effetti il presidente Bush è circondato da parecchi «uomini che amano la libertà»: che si trovano non solo nelle prigioni del suo beneamato Texas ma in quasi tutti gli Stati Uniti, uno sconfinato gulag – due milioni di detenuti – in gran parte neri.
La violenza carnale in carcere, praticata indistintamente su giovani maschi e femmine, è diventata un luogo comune. E anche l’uso degli strumenti di tortura, come li definisce Amnesty International, pistole elettriche e cinture elettriche (ad altissimo voltaggio, che possono addirittura far svenire le vittime), sedie di costrizione.
Le prigioni sono una grande industria negli Stati Uniti i cui profitti vengono superati solo dalla pornografia. La parola «libertà» per un gran numero d esseri umani evoca solo tortura e morte. Mi riferisco alle centinaia e centinaia di migliaia di persone in Guatemala, El Salvador, Turchia, Israele, Haiti, Brasile, Grecia, Uruguay, Timor Est, Nicaragua, Corea del Sud, Argentina, Cile, Filippine e Indonesia, che sono state uccise tutte da governi influenzati e sottomessi dagli Stsati Uniti.
Perché sono morti? Sono morti perché hanno osato mettere in dubbio lo status quo, hanno osato ribellarsi contro la povertà, le malattie, l’umiliazione e l’oppressione, tutti diritti acquisiti per nascita.
In memoria di quei morti dobbiamo renderci bene conto della sbalorditiva discrepanza che c’è tra il linguaggio del governo Usa e le sue azioni, con tutto il disprezzo che si merita. Gli Stati Uniti – dalla fine della seconda guerra mondiale in poi – hanno adottato un’eccellente strategia, a volte perfino furbesca. Sono riusciti a manipolare incessantemente, sistematicamente, spietatatamente e con fredda determinazione il potere mondiale travestendosi da dispensatori del bene universale.
Ma ora possiamo dire che gli Usa sono finalmente usciti allo scoperto. Il sorriso è sempre quello, naturalmente (tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno sempre dei magnifici sorrisi), ma l’atteggiamento di oggi è sicuramente più esplicito e più manifesto di quanto non sia mai stato. Il governo Bush, come sappiamo tutti, ha scartato l’accordo di Kyoto, si è rifiutato di firmare l’ordinamento che regola il commercio delle armi leggere, si è distanziato dal Trattato per la non proliferazione dei missili balistici, dalla Messa al bando totale degli esperimenti nucleari e dalla Convenzione delle armi biologiche. Per quanto riguarda quest’ultima gli Usa hanno detto ben chiaro che avrebbero aderito alla proibizione delle armi biologiche solo a patto che non ci fossero ispezioni in nessuna delle loro fabbriche di armi biologiche sparse sul territorio americano. Gli Usa si sono anche rifiutati di riconoscere la Corte Internazionale di Giustizia e metteranno in pratica quanto prima l’American Service Members Protection Act che autorizzerà le forze armate a far liberare tutti i soldati americani trattenuti dalla Corte Internazionale di Giustizia. Questa volta sembra che vogliano davvero «mandare i Marines».
Arroganti, sprezzanti e indifferenti alle Leggi Internazionali, manipolano e al contempo rinnegano le Nazioni Unite – sono il potere più pericoloso che il mondo abbia mai conosciuto – un autentico «stato farabutto» – uno «stato farabutto» con un potere militare ed economico di dimensioni colossali. E l’Europa – soprattutto la Gran Bretagna – ne è complice e compiacente, o come dice Cassio nel «Giulio Cesare»: «scrutiamo intorno per trovarci tombe disonorate».
Ma come abbiamo potuto constatare, profonda intolleranza e disgusto nei confronti delle manifestazioni del potere Usa e del capitalismo globale stanno crescendo ovunque nel mondo, forti del proprio diritto di esistere. Credo che questa forza si sia ispirata soprattutto alle azioni e anche alla filosofia degli Zapatisti in Messico. Gli Zapatisti dicono: «Non cercate di definirci. Siamo noi a definirci. Non diventeremo mai ciò che voi volete. Non accettiamo il destino che avete scelto per noi. Non accettiamo le vostre condizioni. Non ci conformiamo alle vostre regole. Riuscirete a eliminarci solo annientandoci e voi non potete annientarci. Noi siamo liberi». Anche gli interventi della polizia a Genova ci hanno dimostrato che le rappresaglie e le repressioni sono e rimangono selvagge, violente e spietate. Ma noi siamo liberi. E penso che questo brutale e spietato ingranaggio mondiale debba essere smascherato e combattuto. (traduzione di Alessandra Serra)
Fonte Il Manifesto


Comunicato del Rettore dell’Università di Firenze, Augusto Marinelli, 12/09/2016:
Il Rettore Augusto Marinelli ha rilasciato ieri, martedì 11 settembre le seguenti dichiarazioni – pubblicate dal Giornale della Toscana, nell’edizione odierna – a riguardo del discorso tenuto dal drammaturgo Harold Pinter, in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa.
“Di solito il testo della lezione dottorale viene fatto conoscere in anticipo. Pinter, invece, lo ha tenuto segreto fino all’ultimo e ha fatto distribuire le copie del suo intervento pochi minuti prima di cominciare a parlare. Il testo era forte e soprattutto non attinente alle motivazioni del conferimento, ma in un’aula universitaria non esistono censure, nè reprimende per reati d’opinione.”
“Quando ho saputo quello che stava succedendo negli Stati Uniti, al dolore profondo e tremendo per le notizie che arrivavano, si è unito lo sconcerto al pensiero dell’intervento di Pinter di ieri. Ho immediatamente telefonato al Console USA per porgergli la mia solidarietà e per spiegare come non conoscessimo in anticipo il tenore della lezione di Pinter che alla luce di quanto è avvenuto oggi assume un sapore grottesco e terribile. Ho chiamato le altre autorità presenti per dire loro la stessa cosa. Sono veramente addolorato”.
.http://www.enzopennetta.it/2016/09/11-settembre-2001-levento-che-ha-sovrascritto-la-memoria-collettiva/

Il giorno dopo l'11 settembre il mondo si è svegliato cieco.
di Leonardo Palma - 11 settembre 2016
 La nostra generazione, quella nata nella prima metà degli anni Novanta, aveva tra i 7 e i 10 anni quando l’11 settembre 2001 gli aerei si schiantarono sulle due torri del World Trade Center e sul Pentagono.  Piccoli, ma non troppo per non ricordare le terribili immagini delle due torri crollare, delle persone gettarsi dalle finestre, delle chiamate al 911 delle persone intrappolate tra le lamiere e le fiamme o sotto le macerie, del fumo e dei calcinacci che inondarono New York.  A dieci anni dalla fine della Guerra Fredda, quella mattina di fine estate il mondo cambiò radicalmente, aprendo uno squarcio così profondo che da quel giorno, la mia generazione, non ha mai conosciuto altro se non la guerra. Intendiamoci, niente a che vedere con chi, come i nostri nonni, ha vissuto direttamente il dramma della Seconda Guerra Mondiale, ma i successivi quindici anni dall’11 settembre non hanno mai avuto momenti di pace.
In questi quindici anni il nostro mondo è stato plasmato perennemente intorno alla guerra e alla paura, non c’è stato telegiornale senza immagini da qualche fronte, non c’è stato anno senza qualche funerale di Stato di soldati, di ostaggi all’estero, di bombardamenti, di attentati a Madrid, Londra, Parigi, Islamabad, Mosca, Beslan.  Il fanatismo che riscuoteva favore, l’islam politico che urlava nelle piazze, le necessità di sicurezza che hanno infranto le libertà civili violandone, a torto o a ragione, i precedenti confini e ponendo con drammatica potenza il dilemma di un imperativo morale rispetto a valori considerati assoluti, le “vittime collaterali” dei bombardamenti, le decapitazioni su internet, una politica americana caduta nelle mani dei falchi neoconservatori e vittima acquiescente di ambigui e ipocriti alleati.  E nella paura si è finito per comportarsi come chi si voleva combattere e posti come Guantánamo, Abu Ghraib, leextraordinary renditions, le torture, le tute carcerarie arancioni, gli omicidi selettivi, sono ormai parte di un immaginario con cui nessuno sarebbe dovuto crescere.  E se chi, come me, negli anni successivi all’11 settembre frequentava le scuole medie o il liceo assorbiva tutto ciò dalla televisione, dai computer, da internet, i nostri cugini o fratelli più grandi erano con un fucile tra le mani a combattere e morire in Iraq o Afghanistan. Quindici anni di guerra significa infatti che tutti coloro che sono nati tra il 1975 e il 1990, a cavallo tra due generazioni, hanno prestato servizio in combattimento. E come tutte le guerre, è un calcolo che vale anche per afghani, pakistani, iracheni, siriani, libici, georgiani, ucraini, russi e tutti coloro che sono stati coinvolti in un modo o nell’altro nelle troppe guerre che si sono succedute dal 2001.
È bastato l’11 settembre per mettere in crisi l’Europa e spaccarla tra un asse atlantico e uno renano, per far tornare in auge comportamenti più vicini alla logica della potenza che non a quella dell’integrazione comunitaria. Quindici anni di guerra che hanno fatto sentire il loro peso anche sulle finanze pubbliche americane, sull’inflazione, sulle tasse, sui mercati e che hanno contribuito, direttamente e indirettamente, ad alimentare quel circuito tossico dell’economia crollato miseramente nel 2008 e che ha dato il via alla Grande Recessione. Perché oltre alla guerra, la 9/11 generation, come la chiamano in America, ha sperimentato anche l’incertezza, la disoccupazione, la contrazione del benessere e l’instabilità dell’ipertrofico sistema del capitalismo. E mentre passavamo dalle medie al liceo, o dal liceo ai primi anni di università, all’Afghanistan e all’Iraq si aggiunse la Cecenia, il Libano nel 2006, Gaza e la Georgia nel 2008 (per la prima volta dal 1945 la guerra tornò anche in Europa), la Libia nel 2011, il Mali, ancora Gaza nel 2014 insieme all’Ucraina e l’annessione della Crimea, la Siria con le sue armi chimiche e la confluenza di terrorismo, ribellione islamica, jihadismo e conflitti occidentali. L’11 settembre il mondo si svegliò diversamente, più sofferente, più cieco nel suo odio immotivato, più lontano nonostante la tecnologia ci abbia reso così vicini e, per quanto sembri un controsenso in un mondo di 7 miliardi di individui, ancora più soli.