ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 13 ottobre 2016

Disonora il Padre°

La lettera di una coppia gay a Papa Francesco:" Siamo una famiglia per la Chiesa?"

Insieme da 52 anni, grazie alla legge Cirinnà lo scorso agosto sono convolati a nozze, ma a Gianni e Franco non basta, hanno bisogno di essere accolti anche dalla Chiesa

Che cosa vuol dire famiglia? Se lo chiedono Gianni e Franco, rispettivamente 83 e 79 anni, una tra le prime coppie omossessuali unite civilmente in Italia.
O meglio lo chiedono a Papa Francesco in una lettera pubblicata su La Stampa: " Le domando Santità, dopo aver vissuto per 52 anni con il mio compagno, dopo esserci scambiati amore e sostegno, dopo aver condotto una vita a due, seguendo i canoni di correttezza ed onestà verso gli altri, siamo una famiglia?".
La lettera recapitata al Convitto Santa Marta e destinata al pontefice è scritta a mano in un linguaggio semplice ma efficace, volto non a fare del sarcasmo ma a cercare di trovare una soluzione ad un problema che affligge migliaia di coppie gay che si trovano nella stessa situazione: "Da oggi, come tratterà il clero noi coppia unita civilmente? Siamo anziani, fra non molto ci presenteremo in Chiesa per l’ultima Benedizione. Saremo accolti o respinti?", recita la raccomandata.

Grazie alla legge Cirinnà i due anziani signori dopo 52 anni di relazione, lo scorso agosto, hanno finalmente potuto dare forma giuridica alla loro unione: " Avevamo quasi buttato via la chiave della speranza -confida Franco al quotidiano piemontese - La legge Cirinnà ci ha dato questa opportunità splendida".
Ma ciò a cui Gianni e Franco, coppia tutta la vita fedele ai prinicipi cristiani, tengono di più è il poter sentrisi accolti e parte integrante della Chiesa nonostante la loro omossessualità: "Non ce la facciamo più a sentirci fuori da Essa. Io faccio la comunione da sempre, perché mi sento di farla", spiega Franco.
La lettera si conclude poi con uno sfogo, riprendendo la definizione di famiglia: " Sono forse famiglie quei nuclei in cui l’uomo picchia la moglie o la donna tradisce il marito, con corollario di trascuratezza dei figli? - chiedono i due anziani a Papa Francesco, e poi concludono - Allora siamo felici di aver costruito una famiglia diversa".
 Gio, 13/10/2016 - 

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LA TRADIZIONE E' IL MALE ?

    Chiamò il padre e gli disse: dalla Bibbia nel Libro di Tobia una specie di testamento spirituale con il quale il padre trasmette al figlio tutti i valori fondamentali della vita. Raccomandazioni al 90% attuali ai nostri giorni 
di Francesco Lamendola  





Apriamo a caso la Bibbia e leggiamo la prima pagina che ci capita sotto gli occhi. È un buon metodo: non ve ne sono di migliori. Ovunque cada lo sguardo, c’è di che riflettere, e soprattutto c’è di che edificarsi. Un po’ come in quella poesia di Paul Claudel, Angelus: si entra in chiesa, nella prima chiesa che s’incontra per via: il cuore canta, e la Vergine Maria è là che ci attende. Non si entra per pregare, per chiedere, per un motivo preciso: si entra e ci s’inginocchia, perché questo sgorga dall’anima; si brama un incontro con la Madre celeste, solo per guardarla.
È il Libro di Tobia, un libro poetico, pieno di fervore e d’immaginazione, pieno di mansuetudine e di coraggio; un libro che i protestanti non riconoscono come canonico, formalmente perché non compare nella Bibbia ebraica, che, per essi, è il fondamento; in effetti, perché è forse il più ricco in fatto di angelologia e demonologia, e sia gli Angeli che i dèmoni piacciono poco allo spirito protestante, specialmente in questi ultimi anni, sempre più imbevuto di storicismo, di razionalismo e di critica delle forme (Formgeschichte) e sempre più povero di fede.
Siamo all’inizio della parte centrale del libro, quando il vecchio Tobi, giunto al culmine delle difficoltà e dei dolori, si ricorda di avere depositato una ingente somma di denaro presso Gabael, suo parente, a Rages, città della Media; e decide di mandare suo figlio Tobia a riscuoterlo. Si trattava di un viaggio lungo e difficile, partendo da Ninive, nell’Assiria, dove Tobi era stato deportato con tutta la famiglia e con molti altri Giudei; e, se al fianco di Tobia non si ponesse niente meno che un Angelo, Raffaele, sotto le apparenze di un comune essere umano, in qualità di guida stipendiata (ma, alla fine del viaggio, non vorrà nulla), ben difficilmente il ragazzo porterebbe a compimento la sua missione, tornado a casa sano e salvo, e, per di più, con una giovane e brava moglie, Sara, sposta appunto a Rages.
Non sapendo se rivedrà mai suo figlio, essendo vecchio e malato, Tobi, prima di congedarlo, vuole lasciargli una specie di testamento morale (a quello materiale basterà, appunto, la somma da riscuotere): una vera e propria sintesi di tutto ciò che è giusto e necessario fare nella vita, per condursi degnamente in ogni circostanza e per essere in grazia di Dio. Sono parole chiare e concetti semplici, ma profondi e carichi di significato: sono un compendio della saggezza di un popolo, di una intera civiltà, e possono essere presi a modello anche per la vita odierna, sebbene le circostanze esteriori in cui essa si svolge siano mutate così radicalmente dall’epoca di cui parla ilLibro di Tobia. L’uomo moderno, infatti, a torto si è auto-convinto (o, forse, è stato convinto) che nulla di quanto ha elaborato la saggezza delle epoche precedenti potrebbe fare al caso suo ed essergli d’aiuto, perché la sua intelligenza, la sua cultura, il suo sapere sono talmente più progrediti e più sofisticati, da averlo reso il solo artefice della propria educazione, come se dovesse ripartire da zero, da una tabula rasa, per tutto ciò che attiene alla comprensione della vita e della morte.
Ecco il brano in questione (4, 3-19):

Chiamò il figlio e gli disse: “Qualora io muoia, dammi una sepoltura decorosa; onora tua madre e  non abbandonarla per tutti i giorni della sua vita; fa’ ciò che è di suo gradimento e non procurarle nessun motivo di tristezza.  Ricordati, figlio, che ha corso tanti pericoli per te, quando eri nel suo seno. Quando morirà, dalle sepoltura presso di me, in una medesima tomba. Ogni giorno, o figlio, ricordato del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandi. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia. Se agirai con rettitudine, riusciranno le tue azioni, come quelle di chiunque pratichi la giustizia.  Dei tuoi beni fa’ elemosina.  Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio. La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, dà molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l’elemosina libera dalla morte e salva dall’andare tra le tenebre. Per tutti quelli che la compiono, l’elemosina è un dono prezioso davanti all’Altissimo. Guardati, o figlio, da ogni sorta di fornicazione, anzitutto, prenditi una moglie della stirpe dei tuoi padri e non una donna straniera, che cioè non sia della stirpe di tuo padre, perché noi siamo figli di profeti. Ricordati di Noè, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, nostri padri fin da principio. Essi sposarono tutti una donna della loro parentela e furono benedetti nei loro figli e la loro discendenza avrà in eredità la terra. Ama, o figlio, i tuoi fratelli; nel tuo cuore non concepire disprezzo per i tuoi fratelli, figli e figlie del tuo popolo, e tra di loro scegliti la moglie. L’orgoglio infatti è causa di rovina e di grande inquietudine. Nella pigrizia vi è povertà e miseria, perché l’ignavia è madre della fame. Non rimandare la paga di chi lavora per te, ma a lui consegnala subito; se così avrai servito Dio, ti sarà data la ricompensa. Poni attenzione, o figlio, in quanto fai, e sii ben educato in ogni tuo comportamento. Non fare a nessuno ciò che non piace a te. Non bere vino fino all’ebbrezza e non avere per compagna del tuo viaggio l’ubriachezza. Da’ il tuo pane a chi ha fame e fa’ parte dei tuoi vestiti agli ignudi. Da’ in elemosina quanto ti sopravanza e il tuo occhio non guardi con malevolenza, quando fai l’elemosina. Versa il tuo vino e deponi il tuo pane sulla tomba dei giusti, non darne invece ai peccatori. Chiedi il parere ad ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio. In ogni circostanza benedici il Signore e domanda che ti sia guida nelle tue vie e che i suoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine, poiché nessun popolo possiede la saggezza, ma è il Signore che elargisce ogni bene. Il Signore esalta o umilia chi vuole fino nella regione sotterranea. Infine o figlio, conserva nella mente questi comandamenti, non lasciare che si cancellino dal tuo cuore.

Questa specie di testamento spirituale, con il quale il padre trasmette al figlio tutti i valori fondamentali della vita (e non solo della sua vita: perché al suo orizzonte è estranea l’idea di una saggezza di vita che sia puramente individuale), si inscrive in un contesto storico-culturale in cui la famiglia è posta come il valore sociale più forte in assoluto, e l’autorità dei genitori, fatta soprattutto di autorevolezza, è il cardine di essa, il pilastro fondamentale su cui si regge tutta l’architettura del vivere civile. Contrastare il padre e la madre, sfidare la loro autorità, calpestare le loro raccomandazioni, sono azioni inconcepibili; i genitori, a loro volta, esercitano un ascendente tanto più forte sui loro figli, quanto più hanno saputo mettere in pratica e incarnare i valori che si sforzano di trasmettere, affinché i figli, a loro volta, li trasmettono ai nipoti. La vita familiare è percepita come un flusso, come una corrente continua, nella quale le acque mutano sempre, ma il fiume stesso è sempre il medesimo, e l’obiettivo non cambia mai: scorrere ordinatamente dentro i propri argini e aprirsi la strada fino al mare. Il mare è il ritorno all’origine, la pace presso gli antenati che ci hanno preceduto nel cammino della vita; e, anche se nel Libro di Tobia, come un po’ in tutto l’Antico Testamento, le concezioni intorno alla natura dell’Aldilà sono ancora piuttosto vaghe ed incerte, così come lo è la natura del culto da rendere ai morti – ci vorrà il Nuovo Testamento per chiarirle, illuminarle e stabilirle definitivamente -, resta il fatto che esiste, come esistette presso tutti i popoli e tutte le società pre-moderni, la persuasione che la morte non sia la fine di tutto, ma, in qualche modo, il luogo in cui si raccolgono i frutti di cui si è fatta la seminagione in vita, e, nello stesso tempo, il ritorno a Dio.
Le fervorose, commoventi raccomandazioni di Tobi al figlio Tobia sono, al novanta per cento e più, perfettamente attuali ai nostri giorni; o, per meglio dire, lo sarebbero, se tre secoli di cattiva cultura illuministica non ci avessero convinti che la tradizione è il male, che il passato deve essere continuamente riscritto, e che il progresso ha creato un nuovo tipo di umanità, la quale, non essendo più bambina, non può accontentarsi di credenze, valori e norme di vita da bambini, ma che, essendo diventata adulta, deve attrezzarsi, anche psicologicamente, a vivere in un mondo complesso e perennemente instabile, dove nulla è definitivo ed è realmente quello che sembra; dove bisogna sempre stare in guardia e sospettare che, dietro le maschere, vi sia una realtà completamente diversa da quella che appariva; e dove solo gli idealisti e gl’imbecilli (due categorie, peraltro, notevolmente affini) credono che al mondo vi sia anche solo un filo d’erba che viene mosso per ragioni altruistiche e disinteressate, mentre, in realtà, la vita non è che la somma, disordinata e casuale, degl’innumerevoli egoismi individuali, ciascuno dei quali proteso – e legittimamente proteso! – alla realizzazione dei suoi particolari fini, con poca o nessuna considerazione per l’armonia e il buon funzionamento dell’insieme, ossia della famiglia e del corpo sociale.
Che cosa raccomanda, dunque, Tobi, a suo figlio? Primo, di onorare i genitori, da vivi e dopo che saranno morti; secondo, di compiere opere buone, e specialmente opere di misericordia verso il prossimo indigente; terzo, di astenersi dal commettere qualsiasi forma d’ingiustizia, ad esempio di frodare i propri dipendenti, o di ritardare nel corrispondere loro la giusta paga; quarto, di tenersi lontano dalla lussuria, di non correre dietro a facili amori, ma di scegliesi una brava moglie e di sposarla, e di fare attenzione che sia della propria stirpe, preferibilmente legata da vincoli di parentela; quinto, di amare i propri fratelli ed evitare le liti e le discordie con essi; sesto, di essere umile e laborioso, perché orgoglio e pigrizia sono la rovina della famiglia; settimo, di rispettare tutti e di non fare ad alcuno ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui; ottavo, di stare lontano dalle osterie e dal vizio del bere, che è esiziale per la vita serena e ordinata; nono, di scegliersi dei buoni consiglieri e ascoltare le loro parole, qualora si trovai nel dubbio riguardo a qualcosa; decimo, di benedire Dio e affidarsi a Lui in tutto e per tutto, mettendosi sotto la sua protezione. Sono precetti pieni di buon senso, e, pur essendo molto semplici, scaturiscono da una profonda esperienza della vita. Forse le cose hanno incominciato ad andare di male in peggio, nella società moderna, a partire dal momento in cui i genitori hanno smesso d’insegnare simili cose, non solo e non tanto a parole, ma principalmente con l’esempio, e si sono mostrati tolleranti verso ciò è sbagliato, egoistico e immorale, in none di un affetto per i figli che è soltanto una fuga dalle proprie doverose responsabilità parentali. La cultura moderna, da molto tempo, ha preso a irridere le basi stesse di questa saggezza: Dio, il proprio popolo, la propria famiglia, sono diventati oggetti di scherno, o di negazione e di rifiuto mescolato a disprezzo: con quali risultati, è sotto gli occhi di tutti.
C’è solo un punto, forse, che può risultare ostico alla mentalità odierna, anche per coloro i quali condividano la pietas di Tobi nei confronti del Signore, della propria famiglia e del proprio popolo (non si può dire: della propria patria, perché i Giudei, all’epoca, erano dispersi in esilio), e cioè la raccomandazione di non prendere una moglie straniera, anzi, se possibile, di sceglierla nel proprio parentado. Non solo, infatti, i matrimoni misti sono divenuti, ai nostri giorni, talmente frequenti, da essere considerati pressoché normali, ma tale pratica nasce da una filosofia “multiculturale” che nessuno, neppure la grande maggioranza dei cosiddetti conservatori, si sentirebbe più di contestare; anche perché, a sua volta, essa deriva da una concezione rigorosamente individualistica della persona e dell’amore. Oggi, cioè, si dà assolutamente per scontato che l’amore sia una faccenda privata fra due persone, e che la famiglia, in esso, c’entri poco o niente. Ci si dimentica che aver confuso amore e matrimonio, come fossero una sola ed unica cosa, è stato un passaggio culturale relativamente recente, i cui effetti, se si vuole essere onesti, non possono essere considerati del tutto positivi. Il matrimonio è fatto per durare, per dare stabilità alla famiglia e un sicuro orientamento ai figli; l’amore, e specialmente l’amore passionale e romantico, tanto caro alla cultura moderna, è, al contrario, qualcosa di estemporaneo, che non si sa quando arrivi né quando se ne vada, che dura quello che dura e che non può essere trattenuto, qualora sia finito: con buona pace delle promesse a suo tempo scambiate, della famiglia e dei figli. Le culture nelle quali sono ancora i genitori a scegliere, o, perlomeno, a consigliare la scelta del coniuge ai propri figli – come lo era la nostra, finché fu una società rurale e patriarcale – appaiono, alla cultura moderna, come prevaricatrici del sacro e inviolabile bene del diritto individuale alla ricerca della felicità. Lo si vede bene, ad esempio, nel film di Ken Loach Un bacio appassionato (Ae Fond Kiss…), del 2004, che descrive la complicata storia d’amore fra un giovane figlio d’immigrati pakistani a Glasgow e una insegnante cattolica irlandese. Il regista si sforza di essere imparziale, nel mostrare i risvolti dei due diversi approcci culturali all’amore e al matrimonio (o alla convivenza), ma l’effetto, sul pubblico, è di indirizzare tutte le simpatie verso la professoressa divorziata e la sua “libertà” da qualunque schema e condizionamento. Eppure, siamo certi che l’impostazione tradizionale fosse così sbagliata? Non è evidente che essa ha assicurato la stabilità familiare per dei secoli, cosa che oggi è solo un ricordo?
Si è letto spesso, di questi tempi, che tra i difensori dell'indissolubilità del matrimonio ci sarebbero molti farisei, i quali sceglierebbero una posizione "rigorista" perché, privi di misericordia, vorrebbero così affermare una loro superiorità morale sul prossimo, chiudendogli così la porta. Una Chiesa "aperta" sarebbe dunque una Chiesa che rifiuta il legalismo farisaico e sancisce una nuova visione della misericordia e, nel caso del matrimonio, della fedeltà e dell'adulterio.

Certamente vi sono, tra coloro che si professano difensori della verità, dei farisei. La verità può, infatti, diventare un idolo, e un manganello da usare contro gli altri.Non lo è quando chi la afferma, lo fa con amore, anzitutto per sé, e convinto che essa vada testimoniata e annunciata, con umiltà, per il bene di tutti (né come un privilegio, né come motivo di orgoglio). Ma a parte i giudizi, spesso temerari, sui motivi che muoverebbero molti padri sinodali a mantenere la dottrina tradizionale rispetto alle tesi di parte degli episcopati dell'Europa del nord, è interessante andare al Vangelo, e osservare davvero il comportamento dei farisei.
Li troviamo intenti a difendere l'indissolubilità matrimoniale, così chiaramente annunciata da Cristo, nel nome della legge? No, accade l'esatto contrario. I farisei sono proprio gli oppositori della dottrina matrimoniale evangelica. Sono loro che si avvicinano a Gesù e cercano di scalfire la sua chiarezza, domandandogli «se è lecito rimandare la propria moglie per qualsiasi cosa?» (Matteo 19,3). Per la legge di Mosè, infatti, era concesso all'uomo il libello del ripudio, cioè il divorzio e la relativa possibilità di risposarsi. Gesù non entra nella casistica rabbinica, non si perde nei singoli casi, lui che certo li ha presenti, nella sua misericordia, ma ricorda che «in principio non era così»; che Mosè «a cagione della vostra durezza di cuore vi concesse di rimandare le vostre mogli» e che il disegno originario di Dio è che gli sposi siano «una sola carne».
«Ciò che dunque Dio congiunse», afferma Gesù ben sapendo che la sua parola risulterà dura e difficileda capire, «l'uomo non separi». Viene così archiviata la legge di Mosè, che aveva generato una grande casistica (aprendo al discernimento dei rabbini su quale fosse l'elenco possibile delle cause del ripudio) e viene enunciata la nuova legge dell'amore. «Terminata la lezione ai farisei», scrive Giuseppe Ricciotti, nella sua Vita di Gesù, «i discepoli tornano sulla questione dolorosa della moglie, interrogandone privatamente Gesù in casa». Sì, l'indissolubilità non piace tanto neppure a loro, ma Gesù non trova parole diverse, meno chiare, più accomodanti, per evitare che qualcuno esclami: «Se in tal modo è la condizione dell'uomo con la moglie, non conviene sposarsi».
Se tutto questo è vero, per un cattolico rimane una sola possibilità: riconoscere che l'adulterio e lacasistica, amata dai farisei, non hanno spazio nella visione evangelica, di cui la dottrina tradizionale è semplice trascrizione, perché appartengono al regno della legge, su cui i farisei hanno sempre fatto leva per attaccare Gesù. L'unica legge di Cristo, invece, è l'amore, così come Dio lo ha voluto dal principio. Quest'amore, sta qui lo scandalo, per tutti, anche per i discepoli, contempla anche la presenza della croce: ed è per questo che al mondo e a molti uomini di Chiesa la "buona novella" sembra troppo dura, e si vorrebbe introdurre l'eccezione, la casistica, in una religione in cui Dio va sino in fondo, con la sua fedeltà e il suo amore, sino a essere accusato di violare la legge di Mosè; sino a essere messo in croce, perché dice cose incomprensibili, e non vuole ammorbidirle.
Cristo manifesta così la sua misericordia: non venendo incontro alle pretese dei Farisei, né a quelle degli apostoli (alcuni dei quali, sposati, non sono contenti di vedersi togliere la tradizionale possibilità del ripudio), quali esse siano, né agli aggiustamenti che diminuirebbero il numero dei suoi nemici, ma dando tutto il suo cuore all'umanità (misericordia, deriva infatti da miseris cor dare: dare il cuore ai miseri): affinché gli uomini imparino a dare il loro ai propri cari, ai propri figli, alle proprie moglie, ai propri amici. Se i cristiani annunciano la possibilità di un amore così, annunciano non la legge, ma l'amore di Cristo.
E a quanti ripetono che l'amore indissolubile è un annuncio non realistico, nell'Occidente di oggi, si può ricordare anzitutto che non sembrava realistico neppure duemila anni fa, quando il divorzio e il ripudio, nell'Impero romano, erano la normalità, e in secondo luogo che Cristo non è Machiavelli: non è venuto a spiegarci la "realtà effettuale", né a ricordarci quanto l'uomo sia debole e fragile (ci arriviamo da soli), ma a indicarci le vette della santità, la via per la felicità. É venuto a dirci: «Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo, 5,48): volava troppo alto anche lui? Ogni annuncio che non ricordi all'uomo questa sua figliolanza con Dio, questa possibilità di grandezza e di amore totale, è un annuncio umano, troppo umano; non è la "buona novella".

di Francesco Agnoli
Istruzione Cattolicahttps://gloria.tv/article/2xLU9qC7rAJ83NvFAHQstXsfH

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