La povertà nel Vangelo
E’ di questi giorni il diffondersi di gravi accuse, dirette e indirette, contro la predicazione e la nuova evangelizzazione di Papa Francesco, al secolo Bergoglio.
A furia di leggere, di ascoltare e di osservare i testi, le parole e i gesti di questo nuovo “vescovo di Roma” abbiamo finito col convincerci – magari ci sbagliassimo! – che la cifra prevalente di questo nuovo Papa non è la ecclesialità, come dovrebbe essere, ma la mondanità, come appare con sempre maggiore evidenza.
Intendiamo dire che il suo ragionare, e di conseguenza il suo agire, non si evidenzia per la preoccupazione tipica di un pastore d’anime di edificare i fedeli per condurli sui pascoli che preludono al Cielo, ma si evidenzia per la preoccupazione tipica dell’uomo mondano comune volta ad assicurarsi il miglior godimento delle cose della terra.Questo atteggiamento ci è sembrato apparire in modo particolare, tra l’altro, nell’omelia pronunciata il 25 settembre 2016 in piazza San Pietro nel corso della S. Messa ivi celebrata per il “giubileo dei catechisti”, nel quadro del “giubileo della misericordia”.
Ci sembra evidente che il passaggio chiave di questa omelia è quello in cui Bergoglio indica con forza che due cose devono contraddistinguere i cattolici che annunciano il Vangelo: la gioia e la preoccupazione per il povero.
“Chi annuncia la speranza di Gesù è portatore di gioia”, dice Bergoglio, e ha ragione, ma lo dice a chiarimento di questa espressione:
A furia di leggere, di ascoltare e di osservare i testi, le parole e i gesti di questo nuovo “vescovo di Roma” abbiamo finito col convincerci – magari ci sbagliassimo! – che la cifra prevalente di questo nuovo Papa non è la ecclesialità, come dovrebbe essere, ma la mondanità, come appare con sempre maggiore evidenza.
Intendiamo dire che il suo ragionare, e di conseguenza il suo agire, non si evidenzia per la preoccupazione tipica di un pastore d’anime di edificare i fedeli per condurli sui pascoli che preludono al Cielo, ma si evidenzia per la preoccupazione tipica dell’uomo mondano comune volta ad assicurarsi il miglior godimento delle cose della terra.Questo atteggiamento ci è sembrato apparire in modo particolare, tra l’altro, nell’omelia pronunciata il 25 settembre 2016 in piazza San Pietro nel corso della S. Messa ivi celebrata per il “giubileo dei catechisti”, nel quadro del “giubileo della misericordia”.
Ci sembra evidente che il passaggio chiave di questa omelia è quello in cui Bergoglio indica con forza che due cose devono contraddistinguere i cattolici che annunciano il Vangelo: la gioia e la preoccupazione per il povero.
“Chi annuncia la speranza di Gesù è portatore di gioia”, dice Bergoglio, e ha ragione, ma lo dice a chiarimento di questa espressione:
“come servitori della parola di Gesù siamo chiamati a non ostentare apparenza e a non ricercare gloria; nemmeno possiamo essere tristi o lamentosi. Non siamo profeti di sventura che si compiacciono di scovare pericoli o deviazioni; non gente che si trincera nei propri ambienti, emettendo giudizi amari sulla società, sulla Chiesa, su tutto e tutti, inquinando il mondo di negatività. Lo scetticismo lamentevole non appartiene a chi è familiare con la Parola di Dio.”
L’espressione, pur nella sua povertà espressiva, è complicata, perché rivela una visione del mondo che, tolte le contraddizioni, è una pura declamazione di principio fine a se stessa.
“…non possiamo essere tristi e lamentosi”, dice Bergoglio, e sembrerebbe aver ragione da un punto di vista psicologico, ma ha torto dal punto di vista della realtà oggettiva, poiché non si tratta di essere “lamentosi” e “tristi”, ma si tratta di guardare il mondo per quello che è: quello che da sempre il cattolico ha considerato “una valle di lacrime” – come ricorda ilSalve Regina -, non perché il cattolico è “lamentoso”, ma perché è il mondo ad essere causa continua di pianto e non di gioia.
Cosa peraltro in perfetta logica col Vangelo, visto che Nostro Signore è venuto non per regalarci un nuovo mondo di gioia, ma per offrirci la felicità eterna oltre questo mondo, che ha lasciato che continuasse ad essere il luogo del pianto, anche perché l’uomo potesse vivere consapevolmente la scelta della felicità di là a fronte del dolore di qua.
Quindi, è vero che il cattolico si sforza di mantenere la gioia nel cuore in forza della sua speranza nella felicità eterna, ma questo lo fa, a maggior ragione, conscio della caducità, della bruttura, della “negatività” che sono le cifre del mondo terreno in cui momentaneamente vive.
Non è il cattolico “lamentoso” che “inquina il mondo di negatività”, ma è il mondo che è intriso di negatività e che tende continuamente a coinvolgere in essa il cattolico, fino al punto che vorrebbe convincerlo che non di negatività si tratta, ma di gioia e di godimento.
E noi abbiamo l’impressione che papa Bergoglio si sia lasciato coinvolgere e convincere al punto tale da suggerire ai cattolici di seguire il suo esempio.
Questo scambiare la “negatività” del mondo per una “gioia” e questo imputare la “negatività” a chi giustamente la constata nel mondo e la denuncia e la respinge, è il segno inequivocabile dell’essere “mondani”, esattamente quello che lo stesso Bergoglio sembrerebbe voler denunciare: “noi siamo caduti, in questo momento, in questa malattia dell’indifferenza, dell’egoismo, della mondanità.”
Come può, uno che esalta la mondanità, rimproverare agli altri di essere caduti nella “mondanità”? Eppure può, perché è confuso, perché confonde le declamazioni di principio con la realtà oggettiva e finisce col non avere più il senso della realtà: usa parole che sembrano buone per esprimere concetti senza senso, asservendo il bene al disordine.
Chi sarebbe questa gente che emette “giudizi amari sulla società, sulla Chiesa, su tutto e tutti, inquinando il mondo di negatività”? I “profeti di sventura che si compiacciono di scovare pericoli o deviazioni”, dice Bergoglio. E nell’usare il verbo “scovare”, confessa di essere convinto che nel mondo, nella Chiesa, in tutto e in tutti, non vi sarebbero “pericoli e deviazioni”, se non nascosti in qualche angolo remoto, e che quindi tutto sarebbe prevalentemente innocuo e retto.
Questo significa non avere il senso della realtà oggettiva, e soprattutto significa non aver capito il senso dell’essere cristiani: non aver capito che Nostro Signore non è venuto per confermarci in questo mondo, ma per aprirci la strada per l’altro mondo: questo, ricco di felicità eterna, a fronte di quello, fatto di “pericoli e deviazioni”.
Eppure, dovrebbe essere per primo il “pastore”, il “papa”, ad indicare alle pecorelle, ai fedeli, i “pericoli e le deviazioni” di qua, perché queste possano fuggirli e rivolgersi solo al perseguimento della felicità di là. E invece sembra che proprio il “pastore”, il “papa”, inviti le pecorelle, i fedeli, ad abbracciare questi “pericoli e deviazioni”, neutralizzandoli come inesistenti e solo “scovati” dai “profeti di sventura”.
Ora, bisogna stare attenti a questa espressione, che non è di Bergoglio, ma che costituisce il simbolico e insieme concreto punto di partenza di tutto il flagello che si è abbattuto sulla Chiesa in maniera massiccia, come mai prima d’ora: è la stessa espressione con la quale Roncalli, col nome di Giovanni XXIII, infierì contro i cattolici nell’inaugurare il nefasto Vaticano II.
A volte si dice che i due estremi si toccano: e da qui potrebbe derivare la considerazione che l’inizio rappresentato da Roncalli possa concludersi con Bergoglio che rappresenterebbe la fine; ma si dice anche che un male è spesso seguito da un male maggiore e a noi sembra che sia questo il caso.
Perché Bergoglio ha voluto usare, con i “catechisti”, questa vecchia espressione di Roncalli, che non ha mai smesso di suscitare critiche e precisazioni? Noi pensiamo che l’abbia fatto per due motivi: il primo perché è un’espressione “ad effetto”, il secondo perché è suo convincimento che nel mondo non ci sarebbero “sventure”, ma solo “gioie” e che sarebbe l’uomo a causare le “sventure”. E questo non lo diciamo da noi, senza alcun punto d’appoggio, ma lo ricaviamo da quella risibile e deprecabile “enciclica” che Bergoglio ha voluto e che continua a richiamare e a voler praticata: l’ecologista, mondana, moderna e newage: Laudato si’; un inno ai luoghi comuni del momento, senza alcun riferimento ai Vangeli,esattamente come in questa omelia che stiamo considerando dove non c’è alcun riferimento all’insegnamento di Nostro Signore.
C’era da aspettarsi che in un’omelia rivolta ai “catechisti”, il “Papa” ricordasse il peccato, quello stesso peccato che con l’Atto di Dolore ci si propone di “fuggire” col santo aiuto di Dio. Qui invece, il “papa”, sembra voler insegnare che non vi sia alcunché da “fuggire”, che il farlo equivarrebbe ad un lamento e ci farebbe diventare “profeti di sventura”: “lo scetticismo lamentevole non appartiene a chi è familiare con la parola di Dio”, sostiene Bergoglio. Eppure, come prete, dovrebbe sapere che la debolezza dell’uomo è tale che lo porta a cadere preda del peccato, proprio perché questo mondo, questa valle di lacrime, è sommersa da “pericoli e deviazioni” continuamente suscitati dal diavolo che come “leone ruggente va in giro cercando chi divorare”, come ammoniva il primo Papa (I Pietro, 5, 8), il quale, a proposito, ricordava: “siate temperanti, vigilate … resistetegli saldi nella fede”.
E come potrebbe vigilare, il fedele di Cristo, se, come insegna Bergoglio, non bisogna “scovare pericoli o deviazioni”?
E ancora una volta viene da considerare che nella realtà oggettiva non c’è affatto bisogno di “scovare”, cioè di andare a cercare come si fa con l’ago nel pagliaio, perché i “pericoli e le deviazioni” ti saltano agli occhi, anzi ti aggrediscono.
E allora come può anche solo pensare, il “papa”, che chi addita tali evidentissimi pericoli e deviazioni sia un “profeta di sventura”? E come può anche solo pensare, il “papa”, che esprimere un giudizio amaro su di lui, per esempio come stiamo facendo noi adesso, equivalga a “inquinare il mondo di negatività”? E come può accadere che un prete, che dice Messa, non si renda conto della negatività che da tre anni e mezzo egli spruzza con ogni mezzo, terreno e aereo, sulle malcapitate folle cattoliche?
A questi interrogativi c’è una sola risposta possibile: Bergoglio non ha il senso della realtà, vive in un mondo di favole, favole inventate dal mondo per ingannare i fedeli chierici e laici; vive e si crogiola in un mare di luoghi comuni che ha sentito dire e che ha leggiucchiato qua e là su qualche giornaletto di periferia; vive e si compiace dei suggerimenti che continuamente gli sussurra il “leone ruggente”.
E se non si volesse accettare questa risposta che in qualche modo lo scagiona un po’, si sarebbe costretti a prenderne in considerazione un’altra: Bergoglio ha il senso della realtà, e proprio per questo vuole che tutti vivano in un mondo di favole raccontate fallacemente dal mondo per incatenare l’uomo alla terra e impedirgli di prendere il volo per il Cielo; vuole che tutti diventino preda del “leone ruggente”.
Non ci sono altre alternative.
E questo è confermato da quest’altra frase infelice:
“Chi annuncia la speranza di Gesù è portatore di gioia e vede lontano, ha orizzonti, non ha un muro che lo chiude; vede lontano perché sa guardare al di là del male e dei problemi.”
Ragionamento che ricorda quello del nichilista Nietzsche: “tutto ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male”. Come dire che sarebbe l’amore terreno il motore del mondo e non come diceva il Poeta: “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, cioè Dio.
Non è un accostamento forzato, il nostro, ma la logica conclusione a cui si è costretti a giungere dopo aver letto e ascoltato Bergoglio: niente cose brutte, come se non ci fossero, ma solo gioia e amore:
Non è un accostamento forzato, il nostro, ma la logica conclusione a cui si è costretti a giungere dopo aver letto e ascoltato Bergoglio: niente cose brutte, come se non ci fossero, ma solo gioia e amore:
“il Signore ci dia la grazia di essere rinnovati ogni giorno dalla gioia del primo annuncio: Gesù è morto e risorto, Gesù ci ama personalmente!”
Anche qui, neanche una parola sul vero motivo dell’Incarnazione, della Passione e della Morte in Croce di Nostro Signore. Non una parola sul riscatto dei peccati del mondo, non una parola sullo stesso insegnamento di Gesù che è venuto per i peccatori. Non una parola, come se il peccato non esistesse, come se bastasse compiacersi della Resurrezione senza minimamente curarsi della Redenzione.
Ma Gesù è risorto dopo aver compiuto l’opera di Redenzione e non è la Resurrezione la chiave di volta del cattolicesimo e la missione della Chiesa, ma la Redenzione, il riconoscimento dei peccati, il pentimento e la contrizione… solo dopo viene la vita eterna e la resurrezione. I sacramenti non servono a gioire per la Resurrezione, ma a riconciliarsi con Dio; non servono a “guardare al di là del male e dei problemi”, ma a guardare proprio al male e ai problemi per fuggirli e semmai per accettare questi ultimi come viatico per la sequela di Cristo.
Qui invece è come se essere cattolici equivalesse ad essere sempre felici e contenti, in una sorta di “paese delle meraviglie” tanto immaginario quanto deviante e compromissorio.
E veniamo alla frase conclusiva, che continua a presentarsi come una sorta di ritornello e continua ad esprimere un concetto che non è evangelico, se non nel senso moderno del termine, che identifica Vangelo e sentimentalismo filantropico:
Ma Gesù è risorto dopo aver compiuto l’opera di Redenzione e non è la Resurrezione la chiave di volta del cattolicesimo e la missione della Chiesa, ma la Redenzione, il riconoscimento dei peccati, il pentimento e la contrizione… solo dopo viene la vita eterna e la resurrezione. I sacramenti non servono a gioire per la Resurrezione, ma a riconciliarsi con Dio; non servono a “guardare al di là del male e dei problemi”, ma a guardare proprio al male e ai problemi per fuggirli e semmai per accettare questi ultimi come viatico per la sequela di Cristo.
Qui invece è come se essere cattolici equivalesse ad essere sempre felici e contenti, in una sorta di “paese delle meraviglie” tanto immaginario quanto deviante e compromissorio.
E veniamo alla frase conclusiva, che continua a presentarsi come una sorta di ritornello e continua ad esprimere un concetto che non è evangelico, se non nel senso moderno del termine, che identifica Vangelo e sentimentalismo filantropico:
“Ci renda sensibili ai poveri, che non sono un’appendice del Vangelo, ma una pagina centrale, sempre aperta davanti a tutti.”
Questa frase apre tutta una problematica, poiché, nonostante si pensi comunemente che la povertà sia un richiamo importante nell’insegnamento di Nostro Signore, in realtà le cose non stanno così. Non v’è dubbio che Gesù ha raccomandato di aiutare chi ha bisogno, insegnando la carità e l’amore per il prossimo, ma in tutto il Vangelo non v’è traccia della centralità della povertà come sostenuta da papa Bergoglio, né tampoco della sua supposta dichiarata evidenza.
Chiariamo subito che non siamo così stolti da pretendere di sostenere che la povertà di cui si parla nel Vangelo sarebbe una cosa insignificante o anche solo di relativa importanza, perché siamo ben convinti che l’insegnamento offerto dal Vangelo, insieme con le valenze legate ai segni e ai riferimenti presenti in esso, hanno una rilevanza notevole, soprattutto in termini di richiamo simbolico. Intendiamo dire che la povertà indicata manifestamente nel Vangelo è quasi sempre legata alla corrispondente suggerita necessità della ricchezza spirituale, come per esempio nel noto riferimento ai ricchi che molto difficilmente entreranno nel Regno dei Cieli: una simile limitazione sarebbe incomprensibile se non si riferisse essenzialmente all’opulenza materiale che non lascia spazio alla ricchezza spirituale, se non indicasse cioè che la ricchezza materiale è spesso indice di attaccamento ai beni terreni a scapito della ricerca dei superiori beni celesti. Il riferimento simbolico è simile a quello del cieco che è tale per la cecità del proprio cuore, simboleggiata a volte dalla cecità degli occhi: a volte, perché non tutti i ciechi sono chiusi alla luce del Cielo.
Detto questo, vediamo innanzi tutto quante volte il Vangelo parla di povertà: basta contare le parole che vi corrispondono. Su poco più di 6000 parole, la parola povera è presente 3 volte,poveri 19 volte, povero 1 volta e povertà 1 volta, per un totale di 24 su 6000, quindi con un’incidenza inferiore al 4 per mille.
Come sostegno all’evidenza supposta da papa Bergoglio, ci sembra ben misera cosa, né ci aiuta a capire come la povertà e il povero riescano in tal modo a costituire “una pagina centrale” del Vangelo. Ne deriva, quindi, che papa Bergoglio esaspera il riferimento per dar forza, impropriamente, ai suoi personali convincimenti. Cosa, peraltro, umanamente comprensibile, ma proprio per questo doverosamente criticabile, perché non si finisca col farsi un’idea errata del Vangelo, proprio per bocca del Papa.
Prima che ce lo faccia notare qualche lettore, diciamo subito che il dato prima segnalato ha un valore molto relativo, lo sappiamo bene, perché la sua valenza quantitativa non è sufficiente a dar corpo al nostro appunto.
Vediamo allora la valenza qualitativa, che è la sola che può rendere giustizia del vero significato che nel Vangelo ha la “povertà” con i suoi correlativi.
Pur non figurando nel racconto della nascita di Nostro Signore, per cominciare diciamo poche parole a proposito della più volte segnalata “povertà” nel contesto di questa nascita e nel contesto della famiglia del Salvatore.
Gesù è nato in una stalla, è stato deposto in una mangiatoia ed è stato riscaldato dal calore di due creature animali: un bue e un asino. Ovviamente questo non esclude affatto la cura che ebbe di Lui la Sua Santa Madre, con quanto occorreva per questo evento e che si era portata dietro in vista di esso. Ma quello che ci interessa far notare è la valenza simbolica di tale contesto.
Precisiamo che nell’Oriente cristiano la stalla in cui nacque Gesù è rappresentata in maniera più realistica e al tempo stesso più rispondente al valore simbolico che essa ha; le due cose infatti sono sempre strettamente connesse, diversamente non si potrebbe neanche più parlare di valore simbolico, ma di mera valenza immaginativa.
Il luogo in cui si tenevano gli animali, la stalla, era quasi sempre ricavato in una grotta, per tutta una serie di motivi che non staremo qui ad elencare, esempi di questo tipo sono ancora oggi presenti in tante nostre contrade del Sud.
Ora, la grotta ha per sua natura il significato sia di ambito collocato al centro della terra – nel senso pratico e figurato – sia di ambito riservato, appartato e insieme protetto. Per esempio, la grotta non può essere fatta crollare ad opera dell’uomo.
Il Figlio di Dio è nato in un luogo che meglio Gli si addiceva: riservato, come riservate erano state le teofanie di Dio ricordare nel Vecchio Testamento. D’altronde, se c’è una cosa che salta all’occhio nella nascita di Gesù è il Mistero: da quello del Suo concepimento a quello della Sua nascita da una Vergine. E il mistero, per sua natura, è imperscrutabile dall’occhio dell’uomo. Gesù è nato dal Mistero e nel Mistero, e la grotta è un simbolo del mistero e del nascondimento in relazione all’occhio umano, e di conseguenza in relazione alla comprensione umana; se così non fosse non sarebbe un Mistero.
Il Figlio di Dio è nato in un luogo privo di comodità, anche delle comodità di quel tempo, meno “comode” di quelle a cui siamo abituati oggi col “progresso materiale”. Tale condizione suggerisce ed è segno di un altro aspetto dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Gesù poteva nascere in mezzo all’opulenza, anche relativa, invece è nato, praticamente e simbolicamente, in un contesto che dista enormemente dall’opulenza terrena, un contesto che, in termini terreni, simboleggia l’essenziale, l’essenziale per vivere, e di conseguenza simboleggia il distacco dalle comodità terrene in forza del possesso delle ricchezze celesti.
Se si possiede la valenza celeste non c’è alcun bisogno di alcun elemento terreno, si possiede la vera ricchezza del Cielo a cui corrisponde la “povertà” della terra.
D’altronde, come si evince dal racconto evangelico, San Giuseppe cerca come può un luogo comodo che ospitasse la Vergine Maria in procinto di partorire, ma non lo trova, dice il Vangelo. Questa ricerca, però, suggerisce che San Giuseppe potesse permettersi di pagare l’ospitalità, non era un povero, infatti, ma non la trovò, proprio perché Gesù doveva nascere in un posto quasi inospitale, a simbolo del suo venire in questo mondo non per goderne, ma per emendarlo dalla ricerca del godimento.
Il Figlio di Dio è nato anche fuori dalla “calca”, in un momento in cui quei posti erano affollati da gente che adempiva l’obbligo del censimento stabilito dal Governatore romano. Praticamente, questo fu uno dei motivi perché non si trovava posto, ma simbolicamente lo stare lontano dalla folla concretizzava uno dei segni di Gesù, segno che si ritroverà più volte nel corso della sua predicazione. Gesù non nasce in una casa piena di donne che aiutano il parto della Vergine Maria, Gesù nasce in un posto dove erano presenti solo due animali. D’altronde, lo stesso parto verginale della Vergine Maria non poteva avvenire in mezzo a tante persone, sia per la sua valenza misterica, sia per la valenza di teofania in quanto manifestazione in terra del Figlio di Dio.
E gli stessi animali che sono presenti nella grotta/stalla hanno anch’essi una valenza simbolica legata a questa particolare teofania. In realtà, i Vangeli non ne parlano e il riferimento è fornito da alcuni apocrifi, ma i Padri e i Dottori non hanno evitato di commentarlo, indice che almeno dal punto di vista simbolico questo particolare ha sempre avuto la sua importanza, fino alla composizione del presepe di Greccio, voluto da San Francesco d’Assisi.
Entrambi questi animali hanno una valenza simbolica duplice.
Il bue simboleggia la stabilità, la docilità e la pazienza, anche in forza della sua derivazione dall’addomesticamento del toro, e non a caso è associato all’Evangelista San Luca, come richiamo ad uno degli animali dell’Apocalisse; ma simboleggia anche la pesantezza terrena che allontana dal richiamo del Cielo: è l’animale che nel Vecchio Testamento viene usato per indicare il distacco da Dio - il vitello d’oro – e il riscatto del popolo davanti a Dio – i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme -. Questi due ultimi richiami permettono di collegare il bue col popolo di Israele, ad un tempo scelto da Dio e ribelle a Dio.
L’asino simboleggia la mobilità e l’istinto incontrollato che dev’essere dominato, in qualche modo il richiamo più bruto delle forze sotterranee; ma simboleggia anche la regalità e la disponibilità a farsi strumento dell’alto – l’asina di Balaam -, non a caso è la cavalcatura nobile che porta in groppa i Profeti e, nel Nuovo Testamento, la Sacra Famiglia in fuga e lo stesso Gesù che entra osannato a Gerusalemme. A questo titolo non può escludersi che l’asino della stalla non fosse altro che l’asino che aveva condotto San Giuseppe e la Santa Vergine fino a Betlemme. Questi due ultimi richiami, in cui si ritrova l’asino anche come “cristoforo” – portatore di Gesù - permettono di collegare questo animale coi popoli dei gentili, ad un tempo vinti dalla potenza della verità e fattisi portatori della Nuova Alleanza istituita da Gesù in sostituzione dell’Antica che lo ha respinto.
Insieme, questi due animali, simboleggiano la creazione degli esseri viventi e per estensione tutta la creazione, così che al momento dell’Incarnazione, nonostante l’isolamento, o anche in forza di esso, è la l’intera creazione che adora il Figlio di Dio fattosi uomo.
Aggiungiamo brevemente un richiamo ai pastori e ai Magi.
I primi non avrebbero potuto essere invitati a rendere omaggio al Bambino Gesù se questo fosse nato in un albergo o in una ricca casa di amici, non solo, ma non avrebbero potuto portare con loro gli agnelli, che simboleggiano i fedeli di Cristo, né avrebbero potuto inneggiare con i loro suoni e i loro canti al Figlio di Dio fattosi uomo.
E il fatto che gli Angeli portano l’annuncio dell’Incarnazione per primi ai pastori, non è un segno della preferenza per i poveri, che i pastori di allora non sono mai stati, ma il chiaro indice che la Buona Novella viene annunciata per prima ai semplici e ai più vicini alla essenzialità della vita terrena, piuttosto che ai cittadini che già si crogiolavano nelle mollezze e nella vita artificiosa e staccata da Dio. Checché ne dica Ratzinger (L’infanzia di Gesù) che smentisce tutto il presepe e perfino la nascita di Gesù a Betlemme… in base all’esegesi moderna, che è più esatto chiamare modernista, fuorviante e dissacrante.
I Magi vengono ad adorare il Dio Incarnato e Gli recano in dono tre elementi simbolici che demoliscono l’immagine della povertà materiale come centro del Vangelo e in certo modo collimano con quanto abbiamo detto fin qui. Essi offrono al Bambino appena nato: oro, che simboleggia la regalità terrena di Gesù, incenso, che simboleggia la Sua regalità celeste, emirra, che rappresenta la vita eterna e la resurrezione.
Come si può vedere, in tutto questo non c’è traccia della centralità della povertà nel Vangelo immaginata da papa Bergoglio. Non c’è traccia di questo nel Vangelo, semmai la si potrà trovare nel culto popolare che si muove sulla base della passione religiosa legata al sentire umano, così come espresso mirabilmente da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori nel suo “Tu scendi dalle stelle” col verso: “A te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e foco, o mio Signore”.
Circa la povertà della casa paterna di Gesù, ricordiamo solo che San Giuseppe non era un “pover’uomo delle periferie”, ma un quotato artigiano discendente della tribù regale di Davide, e il suo mestiere gli assicurava, in quel tempo, una posizione sociale ben lontana dal pauperismo di papa Bergoglio e dalle sue patologiche “periferie”; una posizione sociale a cui corrispondeva una buona condizione economica, come peraltro è stato per tutti gli artigiani fino a quanto la società moderna, nata dalla rivolta contro Dio, con la sua massificazione industriale non li ha ridotti a poveri attaccabottoni.
Fra l’altro, lo stesso mestiere di San Giuseppe: falegname – cioè trasformatore del “legno”- ha una valenza simbolica notevole, sia perché richiama le prescrizioni del Vecchio Testamento che ne imponevano l’uso, insieme ai preziosi, a scapito del ferro; sia perché associa la maestria sul legno di Gesù fa-legname, alla dominazione sul legno di Gesù crocifisso: tale che regnavit a ligno Deus.
Detto questo, per tornare al preteso “insegnamento” di papa Bergoglio ai “catechisti”, vediamo la valenza qualitativa degli termini povertà e correlativi che abbiamo indicato prima quantitativamente.
Innanzi tutto guardiamo ad una delle beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt. 5, 3). Questa beatitudine, insieme con la similare riportata da San Luca: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc. 6, 20), sono le più importanti per il tema che stiamo trattando, ma danno un’indicazione particolare della povertà.
Per prima cosa notiamo che, così espresse, sembrerebbero indicare che lo stato di povertà debba essere quello privilegiato per un cristiano, tale che più poveri si sarebbe, più si sarebbe certi di raggiungere il Regno. E’ ovvio che le cose non stanno proprio così, poiché il Signore non ha creato l’uomo per farlo vivere su questa terra in stato di totale indigenza. Piuttosto, come si evince anche dalla vita degli innumerevoli Santi, la povertà materiale può essere una scelta lodevole in quanto è la pratica realizzazione della rinuncia alle cose del mondo a favore della tensione alla ricerca delle cose del Cielo.
Elemento questo che rende l’uomo che la pratica il meglio disposto spiritualmente ad accedere al Regno dei Cieli, di cui ha un’anticipazione in terra con la sua santità.
E’ la dizione di San Matteo che puntualizza meglio questo concetto, ove dice “beati i poveri in spirito”, cioè beati coloro il cui spirito è di una semplicità tale da essere più simile a quello dei beati in Paradiso. La semplicità di spirito, infatti, è l’assenza nell’uomo dei pensieri che appesantiscono, è quella stessa assenza di ricchezza conoscitiva terrena per cui è detto: “hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.” (Mt. 11, 25). Così com’è la stessa semplicità di spirito riscontrabile nei bambini, non ancora intrisi delle pesantezze del mondo, per cui è detto: “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18, 3).
Da cui si evince che non è certo la povertà materiale che rende beati, perché è evidente che un povero in canna non è detto che non possa essere un peccatore impenitente, come un ricco non è detto che non possa essere un attento virtuoso. Tale che viene demolita l’idea dell’elogio della povertà e quella della riprovazione della ricchezza.
D’altronde, lo stesso San Luca, che riporta solo il termine “povero”, riporta poi “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati”, concetto rafforzato da: “Beati voi che ora piangete, perché riderete.” (6, 21).
Ora, se fosse come dice papa Bergoglio, verrebbe fuori una situazione paradossale, poiché se per ipotesi tutti i poveri diventassero ricchi, magari ad opera degli stessi ricchi, crollerebbe tutto il castello di carte demagogico e verrebbe meno, non solo la principale ragion d’essere del cristiano, ma perfino il nucleo centrale del Vangelo, come visti e presentati dallo stesso Bergoglio.
E questo dovrebbe bastare per togliere una prima gamba al “tavolino a tre gambe” approntato da Bergoglio.
Veniamo alla seconda gamba.
La parola “povera” è presente 3 volte, in relazione ad un solo fatto: il piccolo obolo della vedova a confronto del grande obolo dei ricchi (Mc 12, 42 e Lc 21, 2 e 3).
Qui si parla certo di povertà materiale, ma proprio per far risaltare la ricchezza spirituale della vedova, che è la sola cosa che conti in questo passo del Vangelo, così che la povertà non è un elemento centrale, ma un pretesto per far meglio apparire la virtù di “quella” povera, che non si cura della sua povertà, ma della sua anima.
La parola “poveri” è presente 19 volte:
2 volte nel discorso delle beatitudini, di cui abbiamo già detto.
2 volte nella risposta che i discepoli avrebbero dovuto riferire a San Giovanni il Precursore:ai poveri è annunciata la buona novella (Mt. 11, 5; Lc. 7, 22).
Qui, il termine ha un’accezione più vasta della sola povertà materiale, con un forte richiamo alla povertà spirituale: i poveri a cui è annunciata la Buona Novella sono i peccatori: è per la loro salvezza che Nostro Signore si è Incarnato ed è morto sulla Croce; così che la povertà materiale è quasi fuori questione.
1 volta nella lettura di Isaia fatta da Gesù nella sinagoga (Lc, 4, 18), sempre in relazione alla missione di Gesù, quindi vale quanto abbiamo appena detto.
3 volte nella risposta che Gesù dà al giovane che gli chiede cosa deve fare per conseguire la vita eterna. Dai i tuoi beni ai poveri, dice Gesù (Mt. 19, 21; Mc. 10, 21; Lc. 18, 22)).
3 volte nella risposta che Gesù dà al giovane che gli chiede cosa deve fare per conseguire la vita eterna. Dai i tuoi beni ai poveri, dice Gesù (Mt. 19, 21; Mc. 10, 21; Lc. 18, 22)).
Qui è chiaro il riferimento alla povertà materiale, ma è importante notare come la ragion d’essere dell’intimazione e del merito del giovane, stanno nello spogliarsi del proprio per darlo ai poveri; non c’è merito né vantaggio spirituale in questa richiamata povertà, essa è esistente per dar modo al povero in spiritualità di arricchirsi di quest’ultima: così che ancora una volta non è la povertà l’elemento centrale dell’insegnamento.
7 volte in occasione della lamentela dei discepoli per il presunto spreco fatto dalla donna che versa sul capo di Gesù dell’olio profumato (Mt. 26, 9 e 11; Mc.14, 5 e 7; Gv. 12, 5, 6 e 8).
Qui solo Giovanni riferisce che a lamentarsi è stato Giuda, ma a tutti Gesù risponde che la donna ha compiuto un’opera buona, soprattutto per averla compiuta nei Suoi confronti, in vista della Sua morte, quando Lui non ci sarà più, mentre i poveri ci saranno anche dopo. Da cui si evince una gerarchia di preferenze nel compiere la carità, per i poveri c’è tempo, per prima viene la carità, l’amore, per Dio e per il prossimo per amore di Dio.
Da notare che il racconto di San Giovanni introduce l’elemento della strumentalizzazione della povertà altrui a proprio vantaggio, una sorta di richiamo alla “carità pelosa”, che può esercitarsi a proprio vantaggio sia in termini materiali, sia in termini psicologici; e questo richiamo sembra fatto apposta per papa Bergoglio e per quelli come lui.
1 volta (Lc. 14, 13) quando Gesù suggerisce che il merito non sta nell’essere generosi con chi certamente potrà ricambiare, ma nell’essere generosi sapendo che non ci sarà ritorno.
Chiaro il riferimento al disinteresse che deve contraddistinguere la carità, ed è il richiamo a questo disinteresse che costituisce l’elemento centrale dell’insegnamento e non certo la carità materiale, che è solo un punto d’appoggio.
1 volta (Lc. 14, 21) in relazione al rifiuto degli invitati a recarsi al convito nuziale, in sostituzione dei quali il padrone di casa fa chiamare i miseri, compresi i poveri.
E ancora una volta il riferimento non è la povertà materiale, ma il demerito di colui che rifiuta l’offerta divina della redenzione per mezzo della conversione, nonostante questi ne fosse il predestinato e ne avesse avuto preventiva conoscenza: verrà sostituito da quelli che, poveri spiritualmente, non se l’aspettavano ed accetteranno l’offerta con gratitudine, ricavandone i benefici spirituali. Non v’è dubbio che qui Nostro Signore annuncia il rifiuto degli Ebrei, eletti e predestinati, e la loro sostituzione con i Gentili, che saranno grati a Dio per l’invito e diverranno i nuovi eletti della Nuova Alleanza.
Come si vede, neanche qui la valenza della povertà è centrale, ma solo strumentale, per un insegnamento di ben altra portata, il cui sviluppo ci porterebbe fuori tema, ma che anche per un semplice accenno attiene ad un altro aspetto della predicazione non ortodossa di papa Bergoglio e dei suoi immediati predecessori “conciliari”: la leggenda moderna dei “fratelli maggiori”, Ebrei, che sarebbero sempre i predestinati nonostante l’insegnamento contrario di Nostro Signore Gesù Cristo.
1 volta (Gv. 13, 29) in occasione dell’indicazione da parte di Gesù del traditore, indicazione che i discepoli non comprendono subito, scambiando l’intimazione di Gesù a Giuda – fallosubito! – come una sollecitazione ad aiutare i poveri da parte di Giuda che era il tesoriere.
Qui, come in diversi altri punti, le implicazioni sono molteplici, e non sviluppabili in questo contesto, ma si coglie facilmente il fatto che il riferimento ai poveri è relativo al loro mero esistere, come elemento di forte connotazione simbolica: la missione di Gesù, di carattere spirituale, trova nei poveri l’esempio più evidente della mancanza di vita spirituale in cui si trovano gli uomini e quindi dell’importanza e del valore della venuta di Nostro Signore per redimerli.
1 volta quando Zaccheo si presenta al Signore (Lc. 19, 8) dicendo di aver dato metà dei suoi beni ai poveri.
Qui il riferimento è così particolare che può non considerarsi in relazione all’argomento sul senso della povertà, è solo una semplice constatazione dell’esistenza dei poveri, di cui abbiamo già detto.
La parola “povero” è presente 1 volta, nel racconto del mendicante Lazzaro (Lc. 16, 22) che viene ricompensato in Cielo a fronte del ricco che viene punito.
Qui si parte da un dato di fatto per indicare il castigo di chi non pratica la carità e nel contempo si indica il premio che si riceve per la propria fede, indipendentemente dall’essere ricco o povero.
E così giungiamo alla terza gamba del traballante tavolino di papa Bergoglio.
Da quanto abbiamo detto fin qui è facile intendere che i “poveri” “che non sono un’appendice del Vangelo, ma una pagina centrale, sempre aperta davanti a tutti”, appartengono a quell’insieme di deduzioni molto personali di Jorge Mario Bergoglio e poco confacenti col suo compito di “Pastore Supremo”, a cui da più di tre anni ci ha abituati questo “papa” amato dal mondo.
Anche questa volta, come spesso ha fatto, papa Bergoglio pretende di piegare il Vangelo alle esigenze della sua pastorale mondana, e lo fa rivolgendosi colpevolmente ai “catechisti”, che dovrebbero essere indotti a trasmettere ai catechizzati il vero insegnamento del Signore e della Chiesa e non un surrogato buono per cercare di far coincidere le istanze spirituali del Vangelo con quelle materiali del mondo… cosa peraltro impossibile, come abbiamo visto anche qui.
Il nostro assunto circa la mondanità della catechesi bergogliana, quindi, non è affatto infondato: papa Bergoglio predica e pratica una pastorale buona per il mondo e fondata su istanze terrene, trascurando gli imperativi celesti e il bene supremo dei fedeli: la salvezza della loro anima; una catechesi ed una pastorale che, a ben vedere, è più che mondana, perché è anche capziosa, in quanto assomiglia più alle pretese comuniste, utopiche e avvilenti fino ad essere anti-umane, che alle vere esigenze dell’insegnamento cattolico tradizionalmente elargito per edificare i fedeli e condurli sulla via che dalla terra porta al Cielo e non viceversa.
Ma da dove viene, nel “Papa”, questa concezione mondana della pastorale?
Viene dalla sua predilezione per l’insegnamento socialista che, già dalla metà dell’800, sovvertiva la missione del Figlio di Dio venuto a offrirsi in sacrificio al Padre per la salvezza delle anime, nella missione di un uomo “giusto” che incitava i poveri a scrollarsi di dosso il giogo dei ricchi: una sorta di intellettuale sovietico ante litteram che avrebbe promosso l’utopica e sovversiva lotta di classe. Concezione che papa Bergoglio ha tenuto ad evidenziare organizzando in Vaticano i raduni dei moderni rivoluzionari sovversivi comunisti, soprattutto sudamericani.
Caduta anche la terza gamba, il tavolino spiritista di papa Bergoglio crolla miseramente, anche con un certo fracasso, rivelando il trucco da imbonitore che si celava dietro.
Quello che rimane è che papa Bergoglio non ricava la sua predicazione dal Vangelo, ma dai suoi preconcetti: si lascia guidare dalle sue idee personali piuttosto che dagli insegnamenti evangelici.
Chiudiamo ricordando che il principale comandamento datoci da Nostro Signore è: ama Iddio con tutto te stesso e il prossimo tuo come te stesso (cfr. Mt. 22, 37-40). Un comandamento che ricorda al cristiano che nel praticare l’amore per il prossimo per amore di Dio, egli deve partire da se stesso, innanzi tutto dimostrando di amare se stesso volgendosi interamente all’amore di Dio e al perseguimento della beatitudine celeste, fuggendo il mondo e annullando in se stesso, nei limiti del possibile, l’amore per le cose del mondo.
E nel praticare l’amore per il prossimo, tenendo presente “se stesso” così emendato, il cristiano deve rivolgersi agli altri a cominciare dai più “prossimi”, appunto, e via via allargando la sua attenzione a quelli meno prossimi, seguendo così una “gerarchia” preferenziale che è ben lungi dal concetto di “uscita nelle periferie”, impropriamente propagandato da papa Bergoglio.
In realtà, un buon cristiano capisce con facilità che non c’è bisogno di andare a cercare chissà dove le “periferie esistenziali”, perché è a cominciare da se stesso che deve sforzarsi di trasformare la periferica povertà spirituale dell’animo suo nella ricchezza centrale di esso; e così via nei confronti del suo prossimo: dalla sua famiglia, ai suoi parenti, ai suoi amici, ai suoi vicini e a tutti coloro che strada facendo incontrerà bisognosi di essere aiutati, sia materialmente sia e soprattutto spiritualmente.
di Giovanni Servodio
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV1671_Servodio_Papa_catechesi_mondana.html
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