ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 11 ottobre 2016

Squillo di trombe e carambolar di turiboli?

Dati e riflessioni sul comportamento di tanti cattolici quando, come cittadini, si devono esprimere in materia di immigrazione e di riconciliazione. Dalla Francia al Canton Ticino, dall’Italia all’Ungheria e infine alla Colombia larghe fasce cattoliche votano diversamente da quanto predica Francesco.

In un pacato e interessante editoriale apparso su Avvenire l’8 ottobre (dunque dopo il voto in Ungheria e in Colombia) Marco Impagliazzo - presidente di una Comunità che ha nel dna la vocazione alla diplomazia negoziale, quella di Sant’Egidio – evidenzia che oggi è il “tempo del noi”, citando in chiusura anche papa Francesco. Che il 6 giugno 2015, rispondendo a Sarajevo ad alcune domande di giovani, disse tra l’altro: “Voi non volete essere nemici l’uno dell’altro. Volete camminare insieme (...) E questo è grande! (…) Non siamo loro ed io, siamo noi.Noi vogliamo essere “noi”, per non distruggere la patria, per non distruggere il Paese. Tu sei musulmano, tu sei ebreo, tu sei ortodosso, tu sei cattolico… ma siamo  noi”. Questo è fare la pace! Voi avete una vocazione grande. Una vocazione grande: mai costruire muri, soltanto ponti”.  
Ponti, non muri: un’espressione che in papa Francesco è – come noto – ricorrente. Ad esempio: “Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore: servono ponti, non muri” (Angelus dell’8 novembre 2014); “La pace costruisce ponti, l’odio è il costruttore dei muri. Tu devi scegliere nella vita: o faccio ponti o faccio muri” (28 luglio 2016, Cracovia, ai giovani italiani). Ma soprattutto: “ Chi pensa solo a fare muri e non ponti, non è cristiano. Questo non è nel Vangelo. Votarlo o non votarlo? Soltanto dico che, se ha parlato così, quest’uomo non è cristiano” (17 febbraio 2016, conferenza-stampa in volo dal Messico, riferendosi a dichiarazioni di Donald Trump).
Chiediamoci però: come si comportano tanti cattolici quando, da cittadini, devono scegliere tra chi in qualche modo propone i ‘muri’ o non riesce a perdonare chi si è reso autore di crimini e chi invece intende ineludibile costruire ponti a oltranza o la riconciliazione a ogni costo?
Evochiamo allora le situazioni createsi in tempi recenti o addirittura qualche giorno fa in 5 Paesi, 4 europei e uno latino-americano.

1. FRANCIA, ELEZIONI REGIONALI DEL 6 DICEMBRE 2015. In Francia la quota di chi oggi si dichiara cattolico è del 56% . Un sesto dei cattolici si dichiara praticante, poco più del 4% frequenta regolarmente la messa domenicale.
Secondo un sondaggio dell’Istituto demoscopico Ifop, commissionato dal settimanale cattolico ‘Pèlerin’, il 32% dei votanti dichiaratisi cattolici ha votato per il Front National (media generale elettori: 28,4%), il 33% per la destra moderata. Tra i cattolici praticanti il 24% ha votato per il Front National (+ 15% rispetto al voto amministrativo del marzo 2015).

2. SVIZZERA, CANTON TICINO, VOTO DEL 25 SETTEMBRE 2016 SULL’INIZIATIVA “PRIMA I NOSTRI” LANCIATA DALL’UNIONE DEMOCRATICA DI CENTRO (destra moderata) E APPOGGIATA DALLA LEGA DEI TICINESI. L’INIZIATIVA CHIEDEVA LA PREFERENZA PER I CITTADINI SVIZZERI NEL MERCATO DEL LAVORONel Canton Ticino la quota di chi si dichiara oggi cattolico è attorno al 75% (gli agnostici oltre il 16%).
L’iniziativa “Prima i nostri” è stata approvata con il 58,3% di voti e con una partecipazione del 44.9%.

3. ITALIA, SONDAGGIO DEMOSCOPICO DI ‘DEMOS-REPUBBLICA’ SULL’ATTEGGIAMENTO DEGLI ITALIANI VERSO I CONTROLLI ALLE FRONTIERE, PUBBLICATO SU ‘REPUBBLICA’ IL 26 SETTEMBRE 2016In Italia la quota di chi si dichiara oggi cattolico è del 75%. I praticanti regolari sono circa un quarto del totale dei cattolici.
Pur non dando un valore assoluto al metodo dei sondaggi demoscopici (molto dipende da forma e contenuto delle domande e dalle emozioni del momento), si deve notare la dimensione percentuale delle risposte. Alla domanda: “Il trattato di Schengen prevede che le persone possano circolare liberamente all’interno di 26 Paesi europei. Secondo Lei, di fronte al problema dell’immigrazione e della sicurezza, l’Italia, rispetto ai confini con i Paesi europei, dovrebbe… ripristinare i controlli (48%); ripristinare i controlli, ma solo in circostanze particolari (35%); mantenere la libera circolazione senza controlli (15%), l’83% degli interpellati ha risposto che è a favore del ripristino di controlli ai confini italiani (sempre o in ‘circostanze particolari’… e oggi tali ‘circostanze particolari’ sembrano evidenti).

4. UNGHERIA, REFERENDUM DEL 2 OTTOBRE 2016 SUI POTERI DECISIONALI IN MATERIA DI QUOTE DI MIGRANTI (UE O PARLAMENTO NAZIONALE?). In Ungheria i battezzati cattolici sono tra il 60 e il 65% della popolazione; i protestanti (calvinisti e luterani) attorno al 25%.
La domanda sottoposta al giudizio popolare suonava così: “Volete che l’UE prescriva il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del Parlamento ungherese?”. I favorevoli sono risultati l’1,66%, i contrari il 98, 34%. I votanti il 43,63%, non raggiungendo la soglia del 50% richiesta perché il referendum fosse giuridicamente vincolante.
ALTRE ANNOTAZIONI SUL REFERENDUM UNGHERESE. In due delle circoscrizioni, quelle di Györ-Moson-Sopron e quella di Vas, il quorum è stato raggiunto. Per quanto riguarda la partecipazione ai referendum gli ungheresi hanno sempre dimostrato scarso entusiasmo: dal 1998 solo i referendum del 2008 in materia di ticket sanitari e di tasse universitarie hanno superato il quorum del 50% (50,40%). Nel 1997 il referendum sull’adesione alla NATO ha registrato un’affluenza del 49%, nel 2003 quello sull’adesione all’UE del 45,62%: ambedue però sono stati considerati validi dato che a quel tempo non esisteva il quorum. I referendum del 2004 per bloccare la privatizzazione degli ospedali e sulla doppia cittadinanza hanno registrato un’affluenza del 37,49% (giuridicamente non vincolanti, dato che era già stato introdotto il quorum).
Bisogna considerare poi che l’opposizione (conscia di essere in palese e netta minoranza) aveva invitato a disertare le urne come unica possibilità per impedire il raggiungimento del quorum. In cifre, su 8.261.394 potenziali elettori, ne sono andati alle urne 3.604.109 e i voti validi sono stati 3.338.483. I ‘no’ sono risultati 3.282.928 e i ‘sì’ 55.555. Anche nel caso in cui fosse stato raggiunto il quorum e lo si fosse superato - siamo generosi se guardiamo alla tradizione dei referendum in Ungheria - del 3%, i sì nella migliore delle ipotesi non sarebbero riusciti a oltrepassare il milione di suffragi (poco più del 10% degli elettori). Come si può evincere, in ogni caso il  sarebbe andato incontro a una pesante sconfitta. Da notare inoltre, a proposito di partecipazione, che generalmente la disaffezione verso la politica in questi ultimi anni è esplosa un po’ dappertutto in Europa; e l’Ungheria non fa eccezione.
Conclusione: Pur non avendo raggiunto il quorum per essere giuridicamente vincolante, il referendum ungherese ha confermato che il governo Orban gode su un consenso certamente e largamente  maggioritario nel Paese anche sulla questione dei migranti.
Postilla: Il portale cattolico d’informazione della Conferenza episcopale ungherese ‘Magyar Kurir’ ha pubblicato – ed è dato significativo - pochi giorni prima del voto, il 23 settembre, un’intervista molto ampia al premier Viktor Orban sull’aiuto ai  cristiani del Medio Oriente, sull’istituzione di un Ufficio per i cristiani perseguitati nel mondo, sul futuro dell’Ungheria. Nei giorni precedenti il referendum, invece, il sito paravaticano Il Sismografo ha praticato la politica della censura verso le notizie ‘positive’ in provenienza dall’Ungheria e dei giudizi  insultanti verso lo stesso Orban. Evidentemente il suo conducator Luis Badilla mostra da diverso tempo un concetto molto particolare, diremmo in salsa cileno-allendista, dell’equilibrio nell’informazione. Nel contempo l’organo della Conferenza episcopale italiana, l’Avvenire galantino,  si è distinto per un editoriale curvaiolo del direttore Marco Tarquinio e per articoli vari (tutti in grande evidenza) che giustamente l’ambasciatore di Ungheria presso la Santa Sede ha definito (e bacchettato) su twitter come“semplicisti, una caricatura dell’Ungheria”. Rileviamo poi che L’Osservatore Romano ha mantenuto una studiata sobrietà di toni: il 2 ottobre in seconda pagina ha titolato “Ungheria al voto” e il giorno successivo nel taglio basso di prima pagina “Senza quorum”, cui seguono poche righe in cui tra l’altro si annota che “i media mettono in luce gli appelli al boicottaggio dell’opposizione ungherese, ma anche la tradizionale disaffezione degli ungheresi per lo strumento referendario”.

5. COLOMBIA, REFERENDUM DEL 2 OTTOBRE 2016 SULL’ACCORDO DI PACE CON LE FORZE ARMATE RIVOLUZIONARIE COLOMBIANE (FARC), In Colombia i cattolici sono oggi il 75% della popolazione, i protestanti (soprattutto evangelici pentecostali) attorno al 20% (e comprendono diversi battezzati cattolici convertiti).

La domanda sottoposta al giudizio popolare suonava così: “Lei approva l’Accordo Finale per porre fine al conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?” I favorevoli sono risultati il 49,78% (6.377.482), i contrari il 50,22% (6.431.376), i votanti il 37,43% (13 milioni su quasi 35). L’Accordo è stato respinto.
ALTRE ANNOTAZIONI SUL VOTO COLOMBIANO. A detta di molti osservatori il voto colombiano è stato una sorpresasmentendo tutti i pronostici che indicavano una vittoria del , alcuni prospettando addirittura un vantaggio di una ventina di  punti percentuali. L’elettore doveva accettare o respingere un Accordo molto complesso e dettagliato contenuto in 297 pagine, diviso in 6 parti principali, raggiunto a Cuba il 24 agosto 2016 e firmato solennemente a Cartagena de las Indias (Colombia) il successivo 26 settembre. L’Accordo nelle intenzioni doveva por fine a un conflitto incominciato 52 anni fa, esportato dalla Cuba castrista come diversi altri per il trionfo della Revolucion nell’America latina.
Purtroppo in Colombia, in 52 anni di guerriglia, tale ‘sogno’ (ma in Colombia da tempo la cocaina aveva sostituito l’ideologia) ha provocato oltre 260 mila morti, oltre 20 mila vittime di rapimenti, oltre 13mila vittime dei campi minati, circa 7 milioni di sfollati interni e distruzioni innumerevoli (in tutto ciò sono gravi anche le colpe di gruppi militari e paramilitari). Dell’Accordo sono apparse subito indigeribili per una fetta consistente dell’opinione pubblica colombiana le norme riguardanti il trattamento previsto per le FARC: perdóno per i guerriglieri non colpevoli di ‘crimini contro l’umanità’, riduzione di pena per i colpevoli pentiti di crimini contro l’umanità, possibilità di rientro nella vita politica, dieci seggi assicurati in Parlamento fino al 2026, 31 stazioni radio in FM, una rete televisiva. Nell’Accordo poi erano contenute altre norme che hanno provocato la sollevazione di molte comunità cristiane, in particolare evangeliche: sono quelle che ‘sdoganavano’ la scellerata ideologia gender. Non a caso il presidente Santos qualche giorno dopo il voto ha voluto ascoltare i leader evangelici, invitandoli nella sua residenza.
E la Chiesa cattolica? Qui bisogna distinguere tra l’atteggiamento di papa Francesco e quello della Chiesa colombiana. Il Papa più e più volte ha pubblicamente incoraggiato gli sforzi per giungere a un accordo tra le parti (come durante il viaggio a Cuba e al ritorno dal viaggio in Armenia). Non solo: sul volo Baku-Roma (2 ottobre, prima di conoscere i risultati del voto) ha detto di voler subordinare il viaggio in Colombia all’approvazione dell’Accordo, in modo che non si possa più “tornare indietro”.  Il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, era poi presente alla firma solenne dell’Accordo a Cartagena, pronunciando per l’occasione un discorso nel quale ha evocato la “grande attenzione” con cui Francesco aveva seguito “gli sforzi di questi ultimi anni”. Insomma: il coinvolgimento della Santa Sede è stato rilevante (come si evince anche dai titoli dei tanti articoli pubblicati da L’Osservatore Romano). E la Chiesa colombiana? Ha preferito non lanciare una parola d’ordine, invitando unicamente ad andare a votare secondo coscienza. I vescovi, poi, non erano presenti alla cerimonia di Cartagena.
Non stupisce allora che la prima reazione al voto del conducator de Il Sismografo sia stata tanto amara quanto rabbiosa (com’è nel suo stile da diverso tempo). Ha scritto (e sentenziato)Luis Badilla il 3 ottobre: “Allo stato attuale delle cose ciò che appare chiaro è un dato incontrovertibile: sono stati troppi i colombiani tiepidi, i colombiani a cui è mancato il coraggio della pace, i colombiani che si sono lasciati trascinare da sentimenti, forse comprensibili, ma del tutto anti-storici”. Aggiungendo: “Sembrerebbe che quest’atteggiamento sia stato molto diffuso in una larga fetta di elettori cattolici e ciò è paradossale”. Un disastro insomma: “La stessa voce del Papa è rimasta inascoltata”. Perciò la Chiesa colombiana non può cavarsela a buon mercato: “La Chiesa in Colombia è chiamata ora ad una profonda e seria riflessione. (…) Al momento del referendum non ha avuto la lungimiranza, forse per controversie interne, di prendere con coraggioso discernimento l’unica via possibile, necessarie giusta: mobilitare le coscienze in favore del ”.
Sull’atteggiamento della Chiesa colombiana ha scritto anche - nel Corriere della Sera dell’8 ottobre Andrea Riccardi, senza lamentarsi troppo, in un’analisi serena e onesta.  Annota il fondatore di Sant’Egidio, coinvolta intensamente anche nel processo di pace colombiano: “Con un suo intervento, forte e popolare com’è, (la Chiesa colombiana) avrebbe determinato la vittoria del , però schierandosi con una parte del Paese”. Le ragioni della rinuncia all’intervento in favore dell’Accordo sono “molteplici, spesso non dissimili da quelli della popolazione”. Ancora: “Molti vescovi erano perplessi verso le trattative con le FARC, sospettate di doppiogiochismo”. Nell’accordo poi c’erano “aspetti che riguardavano il ‘genere’, sgraditi alla Chiesa. Insomma: “La Chiesa non ha voluto assumere una posizione impopolare, che i vescovi non sentivano e che magari avrebbe loro alienato una parte del Paese”. E’ vero che “si è manifestato più entusiasmo per l’Accordo nel Papa che nei vescovi”; e “la permeabilità dell’episcopato ai timori della società nasce anche dalla relativa condivisione della prospettiva del Papa”.

PER CONCLUDERE
Chi ha avuto la costanza e la pazienza di arrivare fino in fondo nella lettura avrà notato che in cinque Paesi (Francia, Canton Ticino, Italia, Ungheria e Colombia) in cui l’humus cattolico è ancora largamente diffuso (pur se con intensità diversa e con le differenze che si sanno tra cattolici sulla carta, cattolici ‘tiepidi’, cattolici praticanti) l’insistenza continua di papa Francesco sul tema dei migranti e su quello del perdono/riconciliazione/misericordia non sembra avere quei riscontri popolari che Santa Marta (soprattutto la folta schiera dei turiferari) si attenderebbe. Il Papa parlai cattolici ne prendono conoscenza… ma – da cittadini – in tanti poi privilegiano altre opzioni. C’è chi come in Francia vota – e non sono pochi – per il Front National; chi come nel Ticino appoggia l’iniziativa protezionista “Prima i nostri”; chi come in Italia vorrebbe ripristinare i controlli alle frontiere; chi come in Ungheria chiede di poter essere padrone in casa propria e non dipendere per le decisioni in materia di immigrazione da poteri europei; chi come in Colombia non si sente di usare misericordia verso chi ha ucciso tanti connazionali, di premiarlo con seggi in Parlamento e una rete mediatica. La realtà è questa e non valgono squillo di trombe né carambolar di turiboli per cancellarla.  
PONTI, NON MURI: FRANCESCO PROPONE, MOLTI CATTOLICI DISPONGONO – DI GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 11 ottobre 2016

http://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/633-ponti-non-muri-francesco-propone-molti-cattolici-dispongono.html

Dall’invasione migratoria alla guerra civile

(di Roberto de Mattei) Ormai anche i più riluttanti cominciano ad aprire gli occhi. Esiste un piano organizzato per destabilizzare l’Europa attraverso l’invasione migratoria. Questo progetto viene da lontano. Fin dagli anni Novanta, nel libro 1900-2000. Due sogni si succedono: la costruzione, la distruzione (Fiducia, Roma 1990), descrivevo questo progetto attraverso le parole di alcuni suoi “apostoli”, come lo scrittore Umberto Eco e il cardinale Carlo Maria Martini.
Eco scriveva: «Oggi in Europa non ci troviamo di fronte ad un fenomeno di immigrazione. Ci troviamo di fronte a un fenomeno migratorio (…) e come tutte le grandi migrazioni avrà come risultato finale un riassetto etnico delle terre di destinazioni, un inesorabile cambiamento dei costumi, una inarrestabile ibridazione che muterà statisticamente il colore della pelle, dei capelli, degli occhi delle popolazioni». Il cardinale Martini, da parte sua, riteneva necessaria «una scelta profetica» per comprendere che «il processo migratorio in atto dal Sud sempre più povero verso il Nord sempre più ricco è una grande occasione etica e civile per un rinnovamento, per invertire la rotta della decadenza del consumismo in atto nell’Europa occidentale».
In questa prospettiva di “distruzione creatrice”, commentavo, «non sarebbero gli immigrati a doversi integrare nella civiltà europea, ma sarebbe al contrario l’Europa a doversi dis-integrare e rigenerare grazie all’influenza delle etnie che la occupano (…) È il sogno di un disordine creatore, di una scossa simile a quella che diede nuova vita all’Occidente all’epoca delle invasioni barbariche per generare la società policulturale del futuro».
Il piano era, e resta, quello di distruggere gli Stati nazionali e le loro radici cristiane, non per costruire un Superstato, ma per creare un non-Stato, un orrido vuoto, in cui tutto ciò che ha la parvenza di vero, di buono, di giusto, venga inghiottito nell’abisso del caos. La postmodernità è questa: non un progetto di “costruzione”, come era stata la pseudo-civiltà nata dall’umanesimo e dall’illuminismo e poi sfociata nei totalitarismi del XX secolo, ma una nuova e diversa utopia: quella della decostruzione e della tribalizzazione dell’Europa. Il fine del processo rivoluzionario che da molti secoli aggredisce la nostra civiltà è il nichilismo; il “nulla armato”, secondo una felice espressione di mons. Jean-Joseph Gaume (1802-1879).
Gli anni sono passati e l’utopia del caos si è trasformato nell’ incubo che stiamo vivendo. Il progetto di disgregazione dell’Europa, descritto da Alberto Carosa e Guido Vignelli nel loro documentato studio L’invasione silenziosa. L’“immigrazionismo”: risorsa o complotto? (Roma 2002), è divenuto un fenomeno epocale. Chi denunciava questo progetto veniva definito “profeta di sventura”. Oggi sentiamo dirci che si tratta di un processo inarrestabile, che deve essere “governato”, ma non può essere frenato.
Lo stesso si diceva negli Settanta e Ottanta del ‘900 del comunismo, finché non arrivò la caduta del muro di Berlino, a dimostrare che nulla è irreversibile nella storia, tranne forse la cecità degli “utili idioti”. Tra questi utili idioti sono sicuramente da annoverare i sindaci di New York, Parigi e Londra, Bill de Blasio, Anne Hidalgo e Sadiq Khan, che il 20 settembre, in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in una lettera su The New York Times, dal titolo Our immigrants, our strenght (I nostri immigrati, la nostra forza), hanno lanciato un appello «a prendere misure decise per garantire soccorso e un rifugio sicuro ai profughi in fuga dai conflitti e ai migranti in fuga dalla miseria».
Le centinaia di migliaia di immigrati che approdano sulle nostre coste non fuggono né i conflitti, né la miseria. Sono giovani in ottima salute, ben curati nell’aspetto, senza segni di ferite né di denutrizione, come accade a chi proviene da zone di guerra o di fame.
Il coordinatore dell’anti-terrorismo dell’Unione Europea, Gilles de Kerchove, parlando il 26 settembre al Parlamento europeo, ha denunciato una massiccia infiltrazione dell’ISIS tra questi immigrati. Ma anche se, tra di essi, i terroristi fossero un’esigua minoranza, tutti i clandestini che sbarcano in Europa sono portatori di una cultura antitetica a quella cristiana e occidentale.
I migranti non vogliono integrarsi in Europa, ma dominarla, se non con le armi, attraverso il ventre delle loro e delle nostre donne. Dove questi gruppi di giovani maschi islamici si insediano, le donne europee rimangono incinte, si formano nuove famiglie “miste”, sottomesse alla legge del Corano, le nuove famiglie richiedono allo Stato moschee e sussidi economici. Ciò avviene con l’appoggio dei sindaci, delle prefetture e delle parrocchie cattoliche.
La reazione della popolazione è inevitabile e in paesi ad alto tasso di immigrazione come la Francia e la Germania sta diventando esplosiva. «Siamo sull’orlo di una guerra civile», ha dichiarato Patrick Calvar, capo della DGSI, la Direzione generale della sicurezza interna francese, davanti a una commissione parlamentare (Le Figaro, 22 giugno 2016). Il governo tedesco, da parte sua, ha redatto un “piano di difesa civile” di 69 pagine, in cui si invita la popolazione a fare scorte di cibo e di acqua e a «prepararsi in maniera appropriata ad un evento che potrebbe minacciare la nostra esistenza» (Reuters, 21 agosto 2016).
Chi sono i responsabili di questa situazione? Bisognerebbe cercarli a più livelli. C’è naturalmente la classe dirigente postcomunista e sessantottina, che ha preso in mano le redini della politica europea; ci sono gli intellettuali che hanno elaborato teorie deformi nei campi della fisica, della biologia, della sociologia, della politica; ci sono le lobby, le massonerie, i potentati finanziari, che agiscono talvolta nelle tenebre, talvolta alla luce del sole. È noto, ad esempio, il ruolo del finanziere George Soros e della sua fondazione internazionaleOpen Society.
In seguito a un attacco hacker, oltre 2.500 mail sono state trafugate al server del magnate americano-ungherese e diffuse su Internet, attraverso il portale DC Leaks. Dalla corrispondenza privata sottratta a Soros risulta il suo finanziamento di attività sovversive in tutti i campi, dall’agenda LGTB ai movimenti pro-immigrazione. Attingendo a questi documenti, Elizabeth Yore, con una serie di articoli su The Remnant, ha dimostrato il sostegno di Soros, diretto e indiretto, anche a papa Bergoglio e ad alcuni dei suoi collaboratori più stretti, come il cardinale Oscar Andres Rodríguez Maradiaga e mons. Marcelo Sanchez Sorondo.
Tra George Soros e papa Francesco appare un’oggettiva convergenza strategica. La politica dell’accoglienza, presentata come la “religione dei ponti” opposta alla “religione dei muri”, è divenuta il leit-motiv del pontificato di Francesco, al punto che qualcuno si chiede se la sua elezione non sia stata favorita proprio allo scopo di offrire agli artefici dell’invasione migratoria l’“endorsment” morale di cui essi hanno bisogno. Quel che è certo è che oggi la confusione nella Chiesa e quella nella società avanzano di pari passo. Il caos politico prepara la guerra civile, il caos religioso apre la strada agli scismi, che sono una sorta di guerra civile religiosa.
Lo Spirito Santo, a cui non sempre i cardinali corrispondono in conclave, non cessa però di operare e oggi alimenta il sensus fidei di coloro che si oppongono ai progetti demolitori della Chiesa e della società. La Divina Provvidenza non li abbandonerà. (Roberto de Mattei)
Article printed from CR – Agenzia di informazione settimanale: http://www.corrispondenzaromana.it
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