AUTORAZZISMO
Autorazzismo odio di sé denatalità 3 passi nel deserto. Vivere secondo le proprie usanze è consentito solo all’Altro. Una grottesca autoflagellazione che rifiuta l’eredità ricevuta aborriamo essere eredi dunque non vogliamo eredi
di Roberto Pecchioli
Un immigrato moldavo, padre di famiglia, uno che lavora come può nonostante diabete e cardiopatia, e cerca di tenere sotto controllo la famiglia che si sfascia a causa dell’emigrazione, si dice sbalordito che gli italiani accettino senza vere reazioni l’invasione degli africani promossa e favorita da governo e clero, non reagiscano dinanzi a tutto ciò che hanno davanti agli occhi e che, oltretutto, pagano di tasca propria. Mette tutto ciò a confronto con la Russia, che pure non ama, e fa un facile pronostico: l’Italia è spacciata.
L’Istat diffonde i dati demografici finali dell’anno 2015, dai quali emerge una ulteriore flessione della natalità. Il record negativo del 2014 è polverizzato: altri 15mila italiani mancano all’appello. La grande sostituzione della popolazione, tuttavia, non è affidata agli immigrati presenti da tempo sul territorio. Anche loro, una volta insediati nel Bel Paese, evitano di procreare. Le immigrate in età fertile hanno meno di due figli a testa, contro la media di 2,40 di cinque anni prima, al di sotto della soglia di 2,10 che è il minimo per mantenere stabile la popolazione.
Un giovane insegnante elementare racconta dell’incredibile attitudine delle sue colleghe che non solo rifiutano di allestire il presepe a scuola, ma sono contrarie anche all’albero di Natale ed all’iconografia di Babbo Natale, in quanto evocherebbero la festività cristiana, con danno psicologico per i bimbi di altre culture ed in spregio della cosiddetta laicità delle istituzioni. Sembra incredibile, ma solo due generazioni fa i genitori parlavano dell’arrivo di Gesù Bambino.
Odio di sé, autorazzismo, denatalità. Tra stazioni di una Via Crucis che ha un denominatore comune nel progressivo declino della nostra civiltà, la lunga interminabile vecchiaia di un gigante bimillenario, che, come aveva intuito Emil Cioran già alla metà del secolo trascorso, non può morire di colpo, ma agonizza nell’indifferenza dei più. E poiché chi è sradicato, sradica a sua volta, e chi non crede più nel futuro trascina nel pessimismo anche i “nuovi italiani”, risulta ormai anacronistico anche parlare di una civiltà “nostra”.
La prima persona plurale, il pronome noi, è ormai abolito, anzi espunto dal lessico contemporaneo. Solo un lungo elenco di individui falsamente liberi, emancipati, liberati, nudi, destinati all’angoscia dell’uomo senza lineamenti dell’Urlo di Munch o alla stranita contemplazione del nulla del Viandante sul Mare di Nebbia di Kaspar David Friedrich. Una delle caratteristiche fondamentali di questo tempo (resta grande la tentazione di chiamarlo ancora “nostro”) è l’assenza di verità, anzi l’orrore per la verità. Sfrattata dalla libertà, la verità si rifugia nelle fenditure, cerca di resistere al politicamente corretto, all’eufemismo, all’umanitarismo spurio, alla “contaminazione” tanto amata dai contemporanei. Hans-Georg Gadamer parlò di ermeneutica, quindi di interpretazione, come surrogato filosofico della verità, pur intitolando Verità e metodo il suo opus magnum, ma il fallimento è palese.
Altri, come la teologia neo cattolica, hanno sfrattato la verità in favore di un amore universale non meglio identificato. Non poteva finire diversamente. Constatare che le radici fondamentali del continente Europa sono quelle cristiane è evidenza storica, ma non è opportuno affermarla ed ancor meno è una verità creduta. Giovanni Sartori, sociologo liberale, insospettabile di fondamentalismo, scrisse che quando non risulta opportuno dire le cose che si pensano, si finirà col non pensarle più. Questo è un punto fondamentale dell’odio di sé che si trascina in autorazzismo: ogni idea si disperde nel conformismo, le identità, tanto più se culturali, religiose o etniche si dissolvono se non più condivise, vissute, introiettate.
In questo senso, è normale che le maestrine figlie dell’istruita ignoranza della scuola di massa rigettino presepi e tradizioni religiose o civili del popolo italiano. Semplicemente non le riconoscono né le capiscono in nome del relativismo inoculato loro dagli anni Settanta in dosi industriali. Se l’unico assoluto, il solo principio veritativo è che non esiste una verità, ma semplicemente, ermeneuticamente ciò che ciascuno ritiene tale, esprimere qualunque convinzione forte è proibito in nome dell’ossessione delle sensibilità altrui e del non detto apertamente, ovvero l’opinione che non esista alcuna verità, eccetto quella delle formule tecnoscientifiche. A questo è ridotta l’identità degli europei e degli occidentali, alla negazione compulsiva, al rifiuto patologico di sé .
Vivere secondo le proprie usanze ed idee è consentito solo all’Altro. A noi è permessa, anzi imposta la fuoruscita da noi stessi. In Spagna è ormai severamente proibito il gioco secolare dei fanciulli “mori contro cristiani”, nonostante l’identità di quel popolo si sia formata proprio nella Reconquista, la secolare lotta degli spagnoli contro il dominio arabo. Lo stesso San Giacomo, Santiago apostolo, patrono della nazione iberica, è adesso visto di cattivo occhio: la leggenda vuole che abbia partecipato alla battaglia di Clavijo contro gli invasori e uno dei suoi predicati è Matamoros. Eppure gli arabi erano invasori e, con l’occhio dei moderni, la riconquista dovrebbe essere catalogata come lotta di liberazione.
L’odio di sé prende le forme più disparate. Si passa dalla negazione della storia alla sua interpretazione più comicamente manichea. Millenni di cultura non furono altro che violenza, sopraffazione, menzogna. Poi ci colpevolizziamo di aver ottenuto più e prima degli altri il benessere materiale, che, semmai, è il frutto di studio, lavoro, impegno, intelligenza. Infine, ci sarebbero i crimini da espiare collettivamente per il colonialismo. Tale fenomeno, peraltro, coinvolse solo alcuni popoli europei, fu del tutto estraneo ai tedeschi ed ai russi, interessò solo marginalmente l’Italia, e, per quanto riguarda lo schiavismo, fu un fenomeno del mondo anglosassone e protestante. Lo stesso razzismo biologico è un costrutto culturale interno al positivismo della gentry britannica. No, siamo tutti colpevoli, e per sempre, ci tocca espiare .
Ma come si concilia tale follia con l’individualismo assoluto in cui siamo immersi ? Come può un cittadino di Padova o di Friburgo in Brisgovia essere considerato responsabile, nell’era puntinista costituita di milioni di individui scollegati e deprivati di qualunque identità, di fatti che, comunque vadano valutati, non solo non ha commesso personalmente, ma non lo riguardano neppure come membro di una nazione ? Ed ha senso una grottesca autoflagellazione se rifiutiamo l’eredità ricevuta ? Se noi non siamo “quelli”, anzi ne abbiamo orrore, è ridicolo chiedere perdono notte e dì per ciò che riguarda i padri che abbiamo rifiutato, ammesso e non concesso che il loro mondo fosse tutto negativo.
I colpevoli principali sono due: da un lato la “nuova” chiesa cattolica, che mendica perdono al mondo intero piagnucolando ed affermando esplicitamente di avere sbagliato tutto nella propria storia bimillenaria, ed insinuando il dubbio anche nei fedeli più tenaci . Dall’altro la spregevole scuola di Francoforte, salita in cattedra per decenni negli Stati Uniti con figuri come Herbert Marcuse e Thomas Wiesengrund Adorno, neomarxismo borghese in salsa ebraica, con l’odio furente verso gli europei colpevoli della “personalità autoritaria”, spinti verso i paradisi artificiali, gli eccessi sessuali, il disprezzo per la verità e la conoscenza, ridotti alla figura dell’ “uomo a una dimensione”, che si è poi rivelata, per eterogenesi dei fini, quella del consumatore.
Con loro, si è rivelata verissima la vecchia massima secondo la quale chi paga i suonatori (il capitalismo post 1968) decide la musica, piegandola ai propri interessi. Un terzo elemento, che è un po’ la confezione esterna degli primi due, è il freudismo d’accatto, con la sua credenza senza prove che l’uomo non è che la sua libido, le forze infere e nascoste, talché tutto può essere letto in chiave pulsionale e anche la generosità, il coraggio, l’altruismo, il bene compiuto non sono che sublimazioni delle forze oscure di ciascuno. Se l’umanità è questa, l’umanità europea e bianca, beninteso, detestarla è quasi un dovere civico. Vide giusto Renan chiamando Marx e Freud maestri del sospetto. Il terzo sarebbe Nietzsche, ma il gigante solitario di Sils Maria tese davvero una corda tra la bestia e l’oltre uomo, consapevole della trappola in cui l’uomo d’Europa stava rinchiudendo se stesso. Infine, ciò che è fatto per amore, non è “al di là del bene e del male”, poiché la verità viene prima e comunque - ne fu consapevole il cantore di Zarathustra- bene e male esistono, con buona pace del nichilismo odierno, di cui per primo comprese gli esiti sino a perdere il senno.
Nell’odio di sé è compresa non la trasvalutazione nicciana di tutti i valori, ma la loro completa svalutazione. Di qui, il rancore sempre più profondo verso ciò che si è, la storia, i padri, e tutto ciò da cui si proviene. Un rigagnolo del transumanesimo: non abbiamo padri, siamo creatori di noi stessi, aborriamo essere eredi, dunque non vogliamo eredi.
Tutto questo oltrepassa largamente la prospettiva di società liquida indicata da un Bauman e ci conduce diritti alle generazioni ultime, quelle definite “millennials”, formatesi nel Duemila, i nativi digitali , cresciuti nel culto del nulla, dell’eufemismo obbligato, di quella che, alcuni decenni fa, Milan Kundera definì l’insostenibile leggerezza dell’essere. E’ la generazione che in America chiamanosnowflakes, cristalli di neve, impalpabile, senza peso, una piuma o una canna al vento, priva di consistenza e di spina dorsale. In essa, convivono odio di sé, autorazzismo , egoismo, assenza di senso di responsabilità, unificati in una impressionante incapacità di riconoscere altro che se stessi e le folli menzogne ricevute. Una generazione amniotica, mai uscita davvero dal grembo artificiale di chi l’ha gettata nel mondo.
Negli Stati Uniti, lo choc per la vittoria elettorale di Trump ha determinato in molti e molte di loro crisi di nervi, crolli emotivi con l’intervento di psicologi e consulenti vari. Un secolo fa, i diciottenni europei vennero scaraventati tra le trincee nel macello che uccise il continente e diede avvio al secolo americano. Non ebbero consulenti, psicoterapeuti e consolatorie mani sulla spalla.
Tra i “millennials” fiocchi di neve è considerato disdicevole il semplice evocare tutto ciò che li dispiace. Soggetti a molteplici, sconcertanti traumi emotivi, se pronunciate in loro presenza la parola “razza” potreste doverli soccorrere con l’ausilio del defibrillatore. Niente di strano: è l’esito delle confortanti menzogne consolatorie in cui sono (dis)educati. Hanno orrore delle parole come il gatto dell’acqua. Un esempio: nel 1950 l’Unesco consigliò in un documento ufficiale di “espungere totalmente il termine razza da discorsi che si riferiscono a razze umane, utilizzando invece il termine etnie”. Abolizione ufficiale delle parole sgradite, il politicamente corretto ante litteram.
Abrogare la verità reca con sé il rifiuto della realtà, di quella che Tommaso chiamò, sulle piste di Aristotele,”adaequatio rei et intellectus”, la corrispondenza tra la realtà e l’intelletto. Massimo Fini notava recentemente il disuso della parola morte, sino all’incredibile “fine vita”.
Le razze, dunque, non esistono, o meglio, non è opportuno evocarle o chiamarle così. La bestia bionda potrebbe svegliarsi. Le etnie sono più sfumate, accettabili, quasi biodegradabili a patto di disinnescarne il potenziale di conflitto. Eppure il primo storico dell’umanità, Erodoto, definendo i Greci in opposizione ai barbari, attribuì loro la comunanza di sangue (vergognoso primitivismo!), la stessa discendenza (ahi, la tradizione), la lingua comune, la partecipazione agli stessi sacrifici e riti, i medesimi usi e costumi. A duemilacinquecento anni di distanza, nessuno è mai riuscito a fornire definizioni migliori, tanto meno la sociologia da quattro soldi dei mondialisti prezzolati dell’Onu e dell’Unesco.
Se poi le razze sono un’invenzione immonda di uomini spregevoli, non dovrebbe sussistere neppure il razzismo, in quanto fondato sul nulla. Al contrario, prendere atto , dichiarare l’esistenza di “razze” espone all’interdetto morale, all’isolamento culturale, all’ erezione di cordoni sanitari attorno al reprobo, e, da qualche decennio e con crescente intensità, al rischio di sanzioni penali. La psicopolizia veglia. Affermato che le razze non esistono, con l’imprimatur di Einstein il quale dichiarò solennemente di conoscere un’unica razza, quella umana, confondendo (ma era un fisico, non un sociologo….) specie con razza (o etnia ? mah…) non si capisce perché dovremmo preferire i connazionali a chiunque altro. Connazionale, poi, riposto Erodoto in un angolo buio della biblioteca, è chiunque venga dichiarato tale da una legge. La legge crea, dichiara vero con un tratto di penna e la firma dei superiori ciò che fu sempre falso e viceversa: sono le delizie del positivismo giuridico.
Perché parlare di invasione da parte di stranieri non invitati, quando si tratta di “fratelli” ? Un’altra menzogna, poiché, se tutti sono miei fratelli, siamo daccapo. Tutti fratelli, nessun fratello, come ad Alghero furono “todos caballeros” per proclamazione del re d’Aragona, ma nessuno, ovviamente, ebbe i privilegi del rango. Quindi, autorazzismo, autoflagellazione, noi siamo i cattivi, quando non si conosce alcuna civiltà o popolo sensato che non abbia preferito se stesso ed i propri figli a chiunque altro.
Quanto all’intimazione, specie di parte cattolica, di costruire ponti, anziché erigere muri, i popoli si sono sempre incontrati in luoghi chiamati frontiere, ma hanno saggiamente posto regole, limiti, costruito faticosamente linguaggi comuni. Non hanno mai pensato di rinunciare a se stessi, né hanno gettato ponti dinanzi a chi si mostrasse nemico o non riconoscesse un minimo di codici condivisi. Il disprezzo di se stessi, la debolezza, il dubbio sono sempre coincisi con le fasi finali delle civiltà, per saperlo non c’è stato bisogno delle scoperte di Spengler o di Toynbee . La sapienza profonda di Giambattista Vico chiarì tutto già dal primo settecento, senza i lumi francesi ed il commosso omaggio di Kant – un universalista che non si mosse mai dalla natia Koenigsberg- a chi aveva strappato l’umanità dall’infanzia culturale.
Intanto, i cristalli di neve avanzano e le società, da liquide diventano gassose. Chi non si ama più, ovviamente non si riproduce, per cui le culle si svuotano ogni anno di più. I figli sono responsabilità, tempo sottratto alla carriera, al divertimento, al consumo, alla smania individualista. Al centro commerciale i bimbi disturbano, anche se i gestori hanno apprestato per loro apposite aree con dipendenti precari a fare animazione, in molti resort turistici non sono ammessi o graditi, ancor meno nelle discoteche e negli altri locali dello sballo, della promiscuità sessuale e di altri vecchi e nuovi vizi.
L’egoismo è infettivo: anche gli stranieri evitano o limitano le gravidanze. Chi viene da noi spesso non sfugge la miseria, ma è attratto dai lustrini e dalle luci del varietà della nostra civilizzazione da luna park. Non sanno (ancora) che le luci si spengono, e, come cantava Mina tanto tempo fa, la musica è finita, gli amici se ne vanno. Che inutile serata, continuava il testo di Franco Califano, uno che ha bruciato talento e vita per morire solo e tutt’altro che ricco. Che inutile vita, quella di chi detesta se stesso ed è etereo, impalpabile come un fiocco di neve.
Il catalogo è questo. Prenderne atto significa recuperare la dimensione del dissenso radicale, della vita come lotta e milizia, della presa di distanza da quel che abbiamo attorno. Probabilmente questa nostra ex civiltà è finita irrimediabilmente sull’altare dell’individualismo, del consumo, dell’assenza di senso, ed è troppo tardi per rianimarla.
Proviamo ugualmente a credere ancora in tutto ciò che è nostro e perenne . Anche la notte più buia finirà, forse la sentinella idumea potrà portare la notizia dell’aurora ad un’altra generazione, e comunque, chi ama se stesso, chi ha il senso e la fierezza di sé, della propria gente e della propria razza non può finire come un fiocco di neve al primo disgelo. Il deserto potrà essere immenso, ma non ci inghiottirà con il nostro consenso.
Roberto Pecchioli
Autorazzismo, odio di sé, denatalità. Tre passi nel deserto
di Roberto Pecchioli
In redazione il 01 Dicembre 2016
Un immigrato moldavo, padre di famiglia, uno che lavora come può nonostante diabete e cardiopatia, e cerca di tenere sotto controllo la famiglia che si sfascia a causa dell’emigrazione, si dice sbalordito che gli italiani accettino senza vere reazioni l’invasione degli africani promossa e favorita da governo e clero, non reagiscano dinanzi a tutto ciò che hanno davanti agli occhi e che, oltretutto, pagano di tasca propria. Mette tutto ciò a confronto con la Russia, che pure non ama, e fa un facile pronostico: l’Italia è spacciata.
L’Istat diffonde i dati demografici finali dell’anno 2015, dai quali emerge una ulteriore flessione della natalità. Il record negativo del 2014 è polverizzato: altri 15mila italiani mancano all’appello. La grande sostituzione della popolazione, tuttavia, non è affidata agli immigrati presenti da tempo sul territorio. Anche loro, una volta insediati nel Bel Paese, evitano di procreare. Le immigrate in età fertile hanno meno di due figli a testa, contro la media di 2,40 di cinque anni prima, al di sotto della soglia di 2,10 che è il minimo per mantenere stabile la popolazione.
Un giovane insegnante elementare racconta dell’incredibile attitudine delle sue colleghe che non solo rifiutano di allestire il presepe a scuola, ma sono contrarie anche all’albero di Natale ed all’iconografia di Babbo Natale, in quanto evocherebbero la festività cristiana, con danno psicologico per i bimbi di altre culture ed in spregio della cosiddetta laicità delle istituzioni. Sembra incredibile, ma solo due generazioni fa i genitori parlavano dell’arrivo di Gesù Bambino.
Odio di sé, autorazzismo, denatalità. Tra stazioni di una Via Crucis che ha un denominatore comune nel progressivo declino della nostra civiltà, la lunga interminabile vecchiaia di un gigante bimillenario, che, come aveva intuito Emil Cioran già alla metà del secolo trascorso, non può morire di colpo, ma agonizza nell’indifferenza dei più. E poiché chi è sradicato, sradica a sua volta, e chi non crede più nel futuro trascina nel pessimismo anche i “nuovi italiani”, risulta ormai anacronistico anche parlare di una civiltà “nostra”.
La prima persona plurale, il pronome noi, è ormai abolito, anzi espunto dal lessico contemporaneo. Solo un lungo elenco di individui falsamente liberi, emancipati, liberati, nudi, destinati all’angoscia dell’uomo senza lineamenti dell’Urlo di Munch o alla stranita contemplazione del nulla del Viandante sul Mare di Nebbia di Kaspar David Friedrich. Una delle caratteristiche fondamentali di questo tempo (resta grande la tentazione di chiamarlo ancora “nostro”) è l’assenza di verità, anzi l’orrore per la verità. Sfrattata dalla libertà, la verità si rifugia nelle fenditure, cerca di resistere al politicamente corretto, all’eufemismo, all’umanitarismo spurio, alla “contaminazione” tanto amata dai contemporanei. Hans-Georg Gadamer parlò di ermeneutica, quindi di interpretazione, come surrogato filosofico della verità, pur intitolando Verità e metodo il suo opus magnum, ma il fallimento è palese.
Altri, come la teologia neo cattolica, hanno sfrattato la verità in favore di un amore universale non meglio identificato. Non poteva finire diversamente. Constatare che le radici fondamentali del continente Europa sono quelle cristiane è evidenza storica, ma non è opportuno affermarla ed ancor meno è una verità creduta. Giovanni Sartori, sociologo liberale, insospettabile di fondamentalismo, scrisse che quando non risulta opportuno dire le cose che si pensano, si finirà col non pensarle più. Questo è un punto fondamentale dell’odio di sé che si trascina in autorazzismo: ogni idea si disperde nel conformismo, le identità, tanto più se culturali, religiose o etniche si dissolvono se non più condivise, vissute, introiettate.
In questo senso, è normale che le maestrine figlie dell’istruita ignoranza della scuola di massa rigettino presepi e tradizioni religiose o civili del popolo italiano. Semplicemente non le riconoscono né le capiscono in nome del relativismo inoculato loro dagli anni Settanta in dosi industriali. Se l’unico assoluto, il solo principio veritativo è che non esiste una verità, ma semplicemente, ermeneuticamente ciò che ciascuno ritiene tale, esprimere qualunque convinzione forte è proibito in nome dell’ossessione delle sensibilità altrui e del non detto apertamente, ovvero l’opinione che non esista alcuna verità, eccetto quella delle formule tecnoscientifiche. A questo è ridotta l’identità degli europei e degli occidentali, alla negazione compulsiva, al rifiuto patologico di sé .
Vivere secondo le proprie usanze ed idee è consentito solo all’Altro. A noi è permessa, anzi imposta la fuoruscita da noi stessi. In Spagna è ormai severamente proibito il gioco secolare dei fanciulli “mori contro cristiani”, nonostante l’identità di quel popolo si sia formata proprio nella Reconquista, la secolare lotta degli spagnoli contro il dominio arabo. Lo stesso San Giacomo, Santiago apostolo, patrono della nazione iberica, è adesso visto di cattivo occhio: la leggenda vuole che abbia partecipato alla battaglia di Clavijo contro gli invasori e uno dei suoi predicati è Matamoros. Eppure gli arabi erano invasori e, con l’occhio dei moderni, la riconquista dovrebbe essere catalogata come lotta di liberazione.
L’odio di sé prende le forme più disparate. Si passa dalla negazione della storia alla sua interpretazione più comicamente manichea. Millenni di cultura non furono altro che violenza, sopraffazione, menzogna. Poi ci colpevolizziamo di aver ottenuto più e prima degli altri il benessere materiale, che, semmai, è il frutto di studio, lavoro, impegno, intelligenza. Infine, ci sarebbero i crimini da espiare collettivamente per il colonialismo. Tale fenomeno, peraltro, coinvolse solo alcuni popoli europei, fu del tutto estraneo ai tedeschi ed ai russi, interessò solo marginalmente l’Italia, e, per quanto riguarda lo schiavismo, fu un fenomeno del mondo anglosassone e protestante. Lo stesso razzismo biologico è un costrutto culturale interno al positivismo della gentry britannica. No, siamo tutti colpevoli, e per sempre, ci tocca espiare .
Ma come si concilia tale follia con l’individualismo assoluto in cui siamo immersi ? Come può un cittadino di Padova o di Friburgo in Brisgovia essere considerato responsabile, nell’era puntinista costituita di milioni di individui scollegati e deprivati di qualunque identità, di fatti che, comunque vadano valutati, non solo non ha commesso personalmente, ma non lo riguardano neppure come membro di una nazione ? Ed ha senso una grottesca autoflagellazione se rifiutiamo l’eredità ricevuta ? Se noi non siamo “quelli”, anzi ne abbiamo orrore, è ridicolo chiedere perdono notte e dì per ciò che riguarda i padri che abbiamo rifiutato, ammesso e non concesso che il loro mondo fosse tutto negativo.
I colpevoli principali sono due: da un lato la “nuova” chiesa cattolica, che mendica perdono al mondo intero piagnucolando ed affermando esplicitamente di avere sbagliato tutto nella propria storia bimillenaria, ed insinuando il dubbio anche nei fedeli più tenaci . Dall’altro la spregevole scuola di Francoforte, salita in cattedra per decenni negli Stati Uniti con figuri come Herbert Marcuse e Thomas Wiesengrund Adorno, neomarxismo borghese in salsa ebraica, con l’odio furente verso gli europei colpevoli della “personalità autoritaria”, spinti verso i paradisi artificiali, gli eccessi sessuali, il disprezzo per la verità e la conoscenza, ridotti alla figura dell’ “uomo a una dimensione”, che si è poi rivelata, per eterogenesi dei fini, quella del consumatore.
Con loro, si è rivelata verissima la vecchia massima secondo la quale chi paga i suonatori (il capitalismo post 1968) decide la musica, piegandola ai propri interessi. Un terzo elemento, che è un po’ la confezione esterna degli primi due, è il freudismo d’accatto, con la sua credenza senza prove che l’uomo non è che la sua libido, le forze infere e nascoste, talché tutto può essere letto in chiave pulsionale e anche la generosità, il coraggio, l’altruismo, il bene compiuto non sono che sublimazioni delle forze oscure di ciascuno. Se l’umanità è questa, l’umanità europea e bianca, beninteso, detestarla è quasi un dovere civico. Vide giusto Renan chiamando Marx e Freud maestri del sospetto. Il terzo sarebbe Nietzsche, ma il gigante solitario di Sils Maria tese davvero una corda tra la bestia e l’oltre uomo, consapevole della trappola in cui l’uomo d’Europa stava rinchiudendo se stesso. Infine, ciò che è fatto per amore, non è “al di là del bene e del male”, poiché la verità viene prima e comunque - ne fu consapevole il cantore di Zarathustra- bene e male esistono, con buona pace del nichilismo odierno, di cui per primo comprese gli esiti sino a perdere il senno.
Nell’odio di sé è compresa non la trasvalutazione nicciana di tutti i valori, ma la loro completa svalutazione. Di qui, il rancore sempre più profondo verso ciò che si è, la storia, i padri, e tutto ciò da cui si proviene. Un rigagnolo del transumanesimo: non abbiamo padri, siamo creatori di noi stessi, aborriamo essere eredi, dunque non vogliamo eredi.
Tutto questo oltrepassa largamente la prospettiva di società liquida indicata da un Bauman e ci conduce diritti alle generazioni ultime, quelle definite “millennials”, formatesi nel Duemila, i nativi digitali , cresciuti nel culto del nulla, dell’eufemismo obbligato, di quella che, alcuni decenni fa, Milan Kundera definì l’insostenibile leggerezza dell’essere. E’ la generazione che in America chiamanosnowflakes, cristalli di neve, impalpabile, senza peso, una piuma o una canna al vento, priva di consistenza e di spina dorsale. In essa, convivono odio di sé, autorazzismo , egoismo, assenza di senso di responsabilità, unificati in una impressionante incapacità di riconoscere altro che se stessi e le folli menzogne ricevute. Una generazione amniotica, mai uscita davvero dal grembo artificiale di chi l’ha gettata nel mondo.
Negli Stati Uniti, lo choc per la vittoria elettorale di Trump ha determinato in molti e molte di loro crisi di nervi, crolli emotivi con l’intervento di psicologi e consulenti vari. Un secolo fa, i diciottenni europei vennero scaraventati tra le trincee nel macello che uccise il continente e diede avvio al secolo americano. Non ebbero consulenti, psicoterapeuti e consolatorie mani sulla spalla.
Tra i “millennials” fiocchi di neve è considerato disdicevole il semplice evocare tutto ciò che li dispiace. Soggetti a molteplici, sconcertanti traumi emotivi, se pronunciate in loro presenza la parola “razza” potreste doverli soccorrere con l’ausilio del defibrillatore. Niente di strano: è l’esito delle confortanti menzogne consolatorie in cui sono (dis)educati. Hanno orrore delle parole come il gatto dell’acqua. Un esempio: nel 1950 l’Unesco consigliò in un documento ufficiale di “espungere totalmente il termine razza da discorsi che si riferiscono a razze umane, utilizzando invece il termine etnie”. Abolizione ufficiale delle parole sgradite, il politicamente corretto ante litteram.
Abrogare la verità reca con sé il rifiuto della realtà, di quella che Tommaso chiamò, sulle piste di Aristotele,”adaequatio rei et intellectus”, la corrispondenza tra la realtà e l’intelletto. Massimo Fini notava recentemente il disuso della parola morte, sino all’incredibile “fine vita”.
Le razze, dunque, non esistono, o meglio, non è opportuno evocarle o chiamarle così. La bestia bionda potrebbe svegliarsi. Le etnie sono più sfumate, accettabili, quasi biodegradabili a patto di disinnescarne il potenziale di conflitto. Eppure il primo storico dell’umanità, Erodoto, definendo i Greci in opposizione ai barbari, attribuì loro la comunanza di sangue (vergognoso primitivismo!), la stessa discendenza (ahi, la tradizione), la lingua comune, la partecipazione agli stessi sacrifici e riti, i medesimi usi e costumi. A duemilacinquecento anni di distanza, nessuno è mai riuscito a fornire definizioni migliori, tanto meno la sociologia da quattro soldi dei mondialisti prezzolati dell’Onu e dell’Unesco.
Se poi le razze sono un’invenzione immonda di uomini spregevoli, non dovrebbe sussistere neppure il razzismo, in quanto fondato sul nulla. Al contrario, prendere atto , dichiarare l’esistenza di “razze” espone all’interdetto morale, all’isolamento culturale, all’ erezione di cordoni sanitari attorno al reprobo, e, da qualche decennio e con crescente intensità, al rischio di sanzioni penali. La psicopolizia veglia. Affermato che le razze non esistono, con l’imprimatur di Einstein il quale dichiarò solennemente di conoscere un’unica razza, quella umana, confondendo (ma era un fisico, non un sociologo….) specie con razza (o etnia ? mah…) non si capisce perché dovremmo preferire i connazionali a chiunque altro. Connazionale, poi, riposto Erodoto in un angolo buio della biblioteca, è chiunque venga dichiarato tale da una legge. La legge crea, dichiara vero con un tratto di penna e la firma dei superiori ciò che fu sempre falso e viceversa: sono le delizie del positivismo giuridico.
Perché parlare di invasione da parte di stranieri non invitati, quando si tratta di “fratelli” ? Un’altra menzogna, poiché, se tutti sono miei fratelli, siamo daccapo. Tutti fratelli, nessun fratello, come ad Alghero furono “todos caballeros” per proclamazione del re d’Aragona, ma nessuno, ovviamente, ebbe i privilegi del rango. Quindi, autorazzismo, autoflagellazione, noi siamo i cattivi, quando non si conosce alcuna civiltà o popolo sensato che non abbia preferito se stesso ed i propri figli a chiunque altro.
Quanto all’intimazione, specie di parte cattolica, di costruire ponti, anziché erigere muri, i popoli si sono sempre incontrati in luoghi chiamati frontiere, ma hanno saggiamente posto regole, limiti, costruito faticosamente linguaggi comuni. Non hanno mai pensato di rinunciare a se stessi, né hanno gettato ponti dinanzi a chi si mostrasse nemico o non riconoscesse un minimo di codici condivisi. Il disprezzo di se stessi, la debolezza, il dubbio sono sempre coincisi con le fasi finali delle civiltà, per saperlo non c’è stato bisogno delle scoperte di Spengler o di Toynbee . La sapienza profonda di Giambattista Vico chiarì tutto già dal primo settecento, senza i lumi francesi ed il commosso omaggio di Kant – un universalista che non si mosse mai dalla natia Koenigsberg- a chi aveva strappato l’umanità dall’infanzia culturale.
Intanto, i cristalli di neve avanzano e le società, da liquide diventano gassose. Chi non si ama più, ovviamente non si riproduce, per cui le culle si svuotano ogni anno di più. I figli sono responsabilità, tempo sottratto alla carriera, al divertimento, al consumo, alla smania individualista. Al centro commerciale i bimbi disturbano, anche se i gestori hanno apprestato per loro apposite aree con dipendenti precari a fare animazione, in molti resort turistici non sono ammessi o graditi, ancor meno nelle discoteche e negli altri locali dello sballo, della promiscuità sessuale e di altri vecchi e nuovi vizi.
L’egoismo è infettivo: anche gli stranieri evitano o limitano le gravidanze. Chi viene da noi spesso non sfugge la miseria, ma è attratto dai lustrini e dalle luci del varietà della nostra civilizzazione da luna park. Non sanno (ancora) che le luci si spengono, e, come cantava Mina tanto tempo fa, la musica è finita, gli amici se ne vanno. Che inutile serata, continuava il testo di Franco Califano, uno che ha bruciato talento e vita per morire solo e tutt’altro che ricco. Che inutile vita, quella di chi detesta se stesso ed è etereo, impalpabile come un fiocco di neve.
Il catalogo è questo. Prenderne atto significa recuperare la dimensione del dissenso radicale, della vita come lotta e milizia, della presa di distanza da quel che abbiamo attorno. Probabilmente questa nostra ex civiltà è finita irrimediabilmente sull’altare dell’individualismo, del consumo, dell’assenza di senso, ed è troppo tardi per rianimarla.
Proviamo ugualmente a credere ancora in tutto ciò che è nostro e perenne . Anche la notte più buia finirà, forse la sentinella idumea potrà portare la notizia dell’aurora ad un’altra generazione, e comunque, chi ama se stesso, chi ha il senso e la fierezza di sé, della propria gente e della propria razza non può finire come un fiocco di neve al primo disgelo. Il deserto potrà essere immenso, ma non ci inghiottirà con il nostro consenso.
Roberto Pecchioli
Autorazzismo, odio di sé, denatalità. Tre passi nel deserto
di Roberto Pecchioli
In redazione il 01 Dicembre 2016
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