ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 11 dicembre 2016

Chi eri tu per non essere giudicato?

LA VIA DELLA VITA E DELLA MORTE

    Didaché: la via della vita e la via della morte. La Dottrina dei 12 Apostoli uno dei testi più antichi e ispirati della Chiesa. Dobbiamo ritrovare le leggi morali inscritte nelle nostre coscienze e il senso della domanda su Dio di Francesco Lamendola  



Uno degli aspetti da cui appare più evidente il fatto che la modernità è una vera e propria malattia è la crescente, sempre più diffusa, sconcertante irresponsabilità delle singole persone riguardo alle loro scelte e ai loro comportamenti: persone che, forse, già non sono più realmente tali, ma anonimi componenti - partecipanti sarebbe già dire troppo, perché indicherebbe una volontarietà - della massa, nella quale vivono costantemente immersi e alla quale hanno delegato, in un certo senso, il proprio giudizio etico, estetico, intellettuale, spirituale, in quasi ogni ambito del reale, compresa la loro stessa vita, e, anzi, incominciando proprio da quella.
Gli uomini moderni, infatti, hanno una strana pretesa: replicano all’infinito i medesimi eccessi, si immergono coscienziosamente negli stessi errori (non vogliono chiamarli “peccati”, perché non riconoscono la relazione filiale con il loro Creatore), e poi si lamentano che troppe cose, nella loro vita, non vanno bene, protestando contro il destino, accusando il prossimo, incolpando i figli, i mariti, le moglie, i vicini, i colleghi, e naturalmente i dottori, se niente va per il verso giusto, se la loro salute non è come dovrebbe, se i loro meriti non vengono riconosciuti come meriterebbero, e se la loro quotidiana esistenza è costellata di fastidi, di contrarietà, di pene. E, per completare questo capolavoro di saggezza, si arrabbiano terribilmente con chi fa notar loro la contraddizione.
Non solo si arrabbiano: si sdegnano, si stracciano le vesti, come Caifa nel Sinedrio di Gerusalemme, allorché interrogava Gesù Cristo. Molti ricorderanno, senza dubbio, l’ondata di veemente, vibrata indignazione, che, all’epoca della grande diffusione dell’A.I.D.S., negli anni Ottanta del secolo scorso, accolse le parole di coloro – pochissimi, in verità – i quali osarono fare un accostamento fra il genere di vita disordinato e promiscuo di moltissime, anche se non di tutte, le vittime della malattia - in particolare la frequenza dei rapporti omosessuali fra sconosciuti e l’abitudine di drogarsi pesantemente, magari scambiandosi le siringhe -, e l’insorgere e il diffondersi pauroso della malattia stessa, specie in certi ambienti sociali particolarmente dediti a simili disordini. Apriti cielo: fu letteralmente un coro di esecrazione, tanto più scandalizzato e tanto più politically correct in quanto perfino le persone meno intelligenti sentivano, intuitivamente, che si trattava di un accostamento assolutamente legittimo, anzi, perfino ovvio, e che forse qualcosa rimordeva nella coscienza dei novelli sinedriti. Ma guai a dire certe cose, anche se tutti le pensano, e anche se tutti sanno che sono sostanzialmente vere! E perché? Perché ammettere la fondatezza e la perfetta liceità di quelle affermazioni equivarrebbe a riconoscere che qualcosa non va, nel proprio stile di vita o in quello stile di vita altrui, che, però, per ragioni ideologiche, non si vuole a nessun costo criticare o anche solo aver l’aria di giudicare, almeno se ci si tiene a essere considerati aperti, comprensivi, tolleranti, e, insomma, come diceva Rimbaud, “assolutamente moderni”. In effetti, il concetto che si esprime nella frase Chi sono io per giudicare? ha generato molti, troppi equivoci, e molti continua a suscitarne. La cosa peggiore è che esso venga considerato come la quintessenza del Vangelo, mentre non è affatto così. Chi lo sfodera ad ogni pie’ sospinto, chi lo brandisce come una clava per colpire quei cristiani i quali, a suo giudizio, non sono abbastanza compassionevoli, né abbastanza misericordiosi, non si rende conto di stare interpretando, alla perfezione, la parte del moderno sinedrita; e che Gesù Cristo, non che essere dalla loro parte, se tornasse sulla terra, li apostroferebbe con le parole “razza di vipere” e “sepolcri imbiancati”, perché essi stanno facendo, in perfetta mala fede, un uso del tutto improprio e strumentale del Vangelo, cioè stanno tentando di adulterare – il che, evidentemente, è sacrilego - la Parola di Dio.
Eppure, è evidente che esistono una via che conduce verso la morte e una via che conduce verso la vita: la prima è quella che consiste nell’indulgere nelle passioni e negli appetiti incontrollati, distruttivi, all’egoismo, alla malignità, e quindi anche ad una vita oggettivamente e materialmente disordinata; la seconda è quella della spiritualità, della ricerca del bene, ma del Bene vero, non dei beni effimeri e ingannevoli, la quale reca i frutti rasserenanti della pace e della speranza. La prima è la via del male, del peccato, del rifiuto di Dio e del Suo amore; la seconda è la via che conduce l’essere umano alla sua piena ed autentica realizzazione, dal momento che, se in lui vi è qualche cosa di più del semplice istinto animale, quel qualcosa non può essergli stato dato per ignorarlo e disprezzarlo, meno ancora per pervertirlo e capovolgerne le tendenze naturali, ma perché gli sia d’aiuto e di conforto nella realizzazione del suo Sé autentico. Sembrerebbe, questo, un concetto ovvio e perfino banale; pure, esso è di una evidenza che suona male ai raffinati orecchi degli uomini d’oggi, impregnati della falsa cultura moderna, la quale giudica ciò che è “buono” e “cattivo” non in base al fine trascendente della vita umana, ma unicamente in base al raggiungimento del piacere e della soddisfazione più immediati e materiali.
Quando Erich Fromm ha parlato di “società biofile” e di “società necrofile”, e quel suo discorso è stato salutato con ammirazione in tutti gli ambienti politically correct, si è trattato veramente della scoperta dell’acqua calda. Le stesse cose, infatti - e dette in maniera assai più persuasiva, perché più fondata sul buon senso e sulla osservazione diretta, e meno su elucubrazioni intellettuali astratte – le aveva già dette, circa duemila anni fa, un aureo libretto nato dalla primitiva spiritualità cristiana: spiritualità fortemente intrecciata con la catechetica e la precettistica delle comunità dei fedeli del I secolo. La Didaché, o Didaché degli Apostoli, o, anche, Dottrina dei Dodici Apostoli, uno dei testi più antichi, più ispirati e autorevoli della Chiesa nascente, di autore anonimo e scritto, probabilmente, verso la fine del I secolo, o al massimo al principio del I, contiene una catechesi incentrata sulla distinzione fra la “via della morte” e la “via della vita”, insieme ad un elenco di vizi e virtù e ad alcuni testi sul Battesimo e l’Eucarestia, destinati all’uso liturgico.
Ma in che cosa consistono la “via della morte” e la “via della vita”? Con un linguaggio molto chiaro, semplice e piano, ecco come vengono rappresentate queste due maniere di vivere (1, 1-6; 2, 1-7; 3, 1-9; 4, 1-14; 5, 1-2; in: I Padri Apostolici. A Diogneto-La Didaché; Il Pastore d’Erma; Lettera ai Corinti, Roma, Città Nuova, 1976, e Milano, Edizioni San Paolo, 2005, traduzione di Antonio Quacquarelli, pp. 37-41):

I. Due sono le vie, una della vita, l’altra della morte; la differenza tra le due vie è molta. La via della vita è questa: I, amerai Dio che ti ha creato; II, ama il prossimo tuo come te stesso, non fare ad altri tutte le cose che non vuoi avvengano per te. L’insegnamento che deriva da tali parole è questo: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici, digiunate per i vostri persecutori. Quale il merito, se amate quelli che vi amano? Anche i pagani non fanno lo stesso?  Amate quelli che vi odiano e non avrete nemici. Allontana le passioni della carne e della materia. Se qualcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, offrigli anche l’altra e sarai perfetto. Se qualcuno ti costringe (a fare) un miglio, fanne con lui due; se uno ti toglie il mantello, dagli anche la tunica. Se qualcuno ti prende una cosa tua, non chiederla; non lo potrai. A chi chiede dai e non richiedere; a tutti il Padre vuole che siano dati i suoi beni. Beato chi dona secondo il comandamento; egli non è punibile. Guai a chi riceve; se riceve avendone necessità è senza colpa, se riceve non avendone necessità, renderà conto perché ha ricevuto e a farne che cosa. Posto in prigione, sarà interrogato su ciò che ha fatto e non sarà liberato sino a quando non avrà restituito l’ultimo quadrante. Altre cose a tal riguardo sono state dette: “Suda la tua elemosina nelle tue mani, in modo che tu non conosca a chi la dai”.
II. Secondo precetto della dottrina. Non uccidere, non commettere  adulterio, non corrompere i ragazzi, non fornicare, non rubare, non fare magie, non fare veneficii, non uccidere il bambino con l’aborto, non lo sopprimere appena nato, non desiderare i beni del tuo prossimo. Non essere spergiuro, non essere falso testimone, non essere maldicente, non essere vendicatore [sic]. Non essere doppio nel pensiero e nella parola; la doppiezza della parola è laccio di morte. Il tuo discorso non sarà menzognero né vuoto, ma memore dell’azione. Non sarai avaro, né rapinatore, né ipocrita,  né malizioso, né insolente. Non ordirai il male contro il tuo prossimo. Non odierai nessuno; ma correggerai gli uni e   pregherai per gli altri e li amerai più della tua anima.
III. Figlio mio, fuggi da ogni male e da ogni cosa simile ad esso. Non essere irascibile, perché l’ira porta all’uccisione, né geloso, né litigioso, né violento; da tutte queste cose nascono gli omicidi.   Figlio mio, non essere passionale, perché la passione porta alla fornicazione, né osceni nel parlare, né di sguardo procace; da tutte queste cose sorgono gli adulteri. Figlio mio, non essere augure, poiché (l’augure) porta all’idolatria, né incantatore, né astrologo, né superstizioso,  volere udire e vedere tali cose; da tutte queste scaturisce l’idolatria. Figlio mio, non essere bugiardo, poiché la bugia porta al furto, né avido di denaro, né vanaglorioso; da tutte queste cose  nascono le ladronerie. Figlio mio, non essere borbottatore, poiché [la mormorazione] conduce alla bestemmia, né arrogante, né malevolo; da tutte queste cose nascono le bestemmie. Sii mansueto, poiché i mansueti erediteranno la terra. Sii magnanimo, misericordioso, semplice, tranquillo,  buono, temendo  in tutto le parole [del Signore] che hai ascoltate. Non esaltarti e non essere baldanzoso nell’anima. Non sarà la tua anima legata ai superbi, ma ti rivolgerai ai giusti  e agli umili. Accetta come un bene le cose che ti accadono,  sapendo che nulla avviene senza Dio.
IV. Figlio mio, ricordati di giorno e di notte di chi predica la parola di Dio e onoralo come il Signore; dove, infatti, è annunziata la maestà ivi è il Signore. Ricercherai ogni giorno i volti dei fedeli per modellarti ai loro discorsi. Non operare la disunione, metti pace tra coloro che litigano. Giudica con giustizia e non guardare alla persona nel correggere le colpe. Non tentennare se sarà o non sarà. Non essere come chi allarga le mani nel prendere e le stringe nel dare. Se tu guadagni con le tue mani, [ne] darai in espiazione ai tuoi peccati. Non esitare nel dare e né dare mormorando;  conoscerai chi è il buon rimuneratore della tua ricompensa. Non allontanare chi ha bisogno, condividi ogni cosa con il tuo fratello e non dire che sono cose tue. Se siete comuni in ciò che non muore, quanto più nelle cose che finiscono. Non alzerai la mano su tuo figlio o su tua figlia, ma dalla fanciullezza li educherai nel timore di Dio. Non comandare con durezza al tuo servo o alla tua domestica, che sperano nello stesso Dio perché temano il Signore che è sugli uni e sugli altri. Egli non viene a chiamare secondo la persona, ma quelli che lo spirito ha preparato. Voi servi siate sottomessi ai vostri padroni, come all’immagine di Dio nel rispetto e nel timore. Odierai ogni ipocrisia e ogni cosa che non è gradita al Signore. Non trascurerai i comandamenti del Signore, ma osserverai quelli ricevuto senza nulla aggiungere o togliere. Nella Chiesa confesserai i tuoi peccati e non andare alla preghiera con cattiva disposizione. Questa è la via della vita.
V. La via della morte è questa. Anzitutto è cattiva e piena di maledizione: omicidi, adultèri, passioni, fornicazioni, latrocini, idolatria, magie, incantesimi, rapine, false testimonianze, ipocrisie, doppiezza di cuore, inganno, superbia, malizia, arroganza, avarizia, turpiloquio,  gelosia, insolenza, fasto, ostentazione, arditezza. Persecutori dei buoni, odiatori della verità, amanti del premio della giustizia, ignari   del premio della giustizia, non aderenti  al bene né al retto giudizio, non vigilanti del bene ma del male. Da loro è lontana la calma e la pazienza; sono amanti delle cose vane, avidi di ricompensa, spietati col povero, intolleranti con chi è oppresso, non riconoscenti verso chi li ha creati; uccisori dei figli, distruttori della creatura di Dio, incuranti del bisognoso, oppressori del tribolato, difensori dei ricchi, giudici ingiusti dei poveri, peccatori in tutto. Lontano, o figlio, da tutti questi.

Certo: alla mentalità moderna questo discorso non piace, non può piacere; non lo capisce neppure – o forse lo capisce fin troppo bene, ma non vuol saperne, per ragioni puramente ideologiche e di egoistica comodità. In pratica, si tratta di vivere secondo le leggi di Dio, che poi coincidono, sostanzialmente, con la stessa morale naturale, almeno per ciò che riguarda la base essenziale: non rubare, non mentire, non uccidere (aborto e infanticidio compresi). Il saper perdonare, vedere nel prossimo un fratello e avere timor di Dio, sono elementi specificamente cristiani, e spostano il livello spirituale incommensurabilmente più in alto, dando alla vita dell’anima la sua vera dimensione, cioè quella cui essa è destinata. Tuttavia, anche la morale naturale, basata sul senso della coscienza, è in armonia con questa prospettiva, dato che vi è inclusa, anche se essa, a sua volta, non include l’altra: perché l’inferiore è compreso nel superiore, ma non viceversa. Pertanto, una vita moralmente retta è già un buon punto di partenza per la via della vita.
Che cosa si oppone, allora, a che la grande maggioranza delle persone veda e riconosca che questa è la via che conduce alla vita, invece di seguire la via che conduce alla morte? Primo, il fatto che la cultura moderna rifiuta Dio e nega l’esistenza stessa dell’anima, per cui esclude un orizzonte soprannaturale, e, a maggior ragione, la prospettiva della vita eterna. Secondo -e, se possibile, ancor più esiziale -: il fatto che la società moderna è giunta ad un punto di così raffinata, diabolica perversione, da aver capovolto la stessa legge morale naturale e aver stabilito, addirittura per legge, almeno in quasi tutti i Paesi occidentali, retti formalmente dal sistema democratico, che il male (eutanasia, aborto, droga libera, cosiddetto matrimonio omosessuale, e adozione di bambini da parte di tali coppie) è bene, e che il bene è male (ad esempio, prospettando punizioni per chi sconsiglia il ricorso all’aborto o per chi si rifiuta, in coscienza, di prestarvisi). Ed è una cultura che sta prendendo sempre più piede, anche perché portata avanti da una campagna martellante, sistematica e capillare da parte degli organi di stampa e dalla televisione, oltre che dal cinema, dal teatro, dalla musica leggera, dalla letteratura, e sbandierata fieramente dalla grande maggioranza degli intellettuali o da coloro che passano e si fanno passare per tali.
Per ritornare alla via della vita, le singole persone, e la società nel suo insieme, dovrebbero ristabilire il loro naturale rapporto con la legge morale inscritta nella coscienza, e ritrovare il senso della domanda di Dio, che tutte le civiltà umane hanno sempre avuto e che tutti gli esseri umani, prima della modernità, hanno sempre avvertito spontaneamente in se stessi. Diversamente, il malessere e l’infelicità degli uomini e il costante peggioramento delle condizioni della vita sociale non avranno mai fine: continueremo a scendere un gradino dopo l’altro, sino al disastro finale, nel quale naufragheranno tanto le persone, quanto la società nel suo complesso. E poiché la natura non tollera il vuoto, il nostro posto, e il posto della nostra società, verranno presi da altri, che non hanno seguito la via della morte, come noi abbiamo fatto e seguitiamo a fare. Non crediamo sia necessario aggiungere altro. Basta dare uno sguardo, anche distratto, alle statistiche relative all’andamento demografico dell’Europa e del Nord America, e confrontarle con quelle dei Paesi di origine delle ondate migratorie che premono su di esse, nonché le proiezioni per i prossimi decenni, per capire tutto: che la nostra stessa civiltà, seguitando di questo passo, è condannata, perché non crede più in se stessa e insegue tutte le tendenze e tutti i comportamenti che vanno contro la vita; e che verrà rimpiazzata da gruppi provenienti da altre etnie e da altre civiltà, completamente diverse dalle nostre. E non stiamo parlando di possibilità o di ipotesi, più o meno vaghe e fantasiose, ma di assolute certezze, perché la matematica non è una opinione.
L’ultima parola, però, come sempre e come in tutto, spetta a Dio, e a Lui soltanto: Egli è il Creatore del mondo, e, quindi, anche il Signore della storia. Nulla può accadere che non sia permesso da Lui. Perciò, se vogliamo sottrarci alla via della morte, per noi stessi e per le generazioni prossime venture, una cosa dobbiamo fare innanzitutto: convertirci e pregare ardentemente e assiduamente, con tutta l’anima, chiedendo a Dio che ci illumini e che apra le nostre menti e i nostri cuori alla vera sapienza, alla Sapienza santa, che è un dono divino, mediante il quale soltanto si può trasformare la disperazione in speranza, la tristezza in gioia, la morte in vita. 

Didaché: la via della vita e la via della morte

di

Francesco Lamendola

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