Non passa giorno che Francesco non lanci una provocazione, e certo neanche lui sa il perché; sicuramente perché continua a confessare di essere ignorante, soprattutto delle cose di religione.
Certo che è il Papa, non ne abbiamo altri, tranne lo stanco emerito imboscato nell’albergo-monastero Mater Ecclesiae, in Vaticano. Ma nonostante sia il Papa, che riceve ad ogni pie’ sospinto ogni sorta di convenuti offrendo loro la sua superficiale sapienza, ad ogni domanda anche comune confessa di non aver risposta.
Una sorta di affettata umiltà che subito compensa con qualche battuta da taverna da cui spesso traspare la sua sostanziale miscredenza.
L’ultima l’ha fatta il 15 dicembre scorso. In una super affollata aula Paolo VI ha ricevuto “circa 20mila persone della comunità dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù” – riferisceAvvenire – “con alcuni bambini… provenienti oltre che dall’Italia dai Paesi dei cinque continenti”.
Rispondendo alla domanda di Valentina, infermiera al Bambin Gesù, che gli ha chiesto “perché i bambini muoiono”, Francesco ha risposto.
“Io non ho una risposta, credo sia bene che questa domanda rimanga aperta” (sic!) “Nemmeno Gesù ha dato una risposta a parole”… “Di fronte ad alcuni casi, capitati allora, di innocenti che avevano sofferto in circostanze tragiche, Gesù non fece una predica, un discorso teorico. Si può certamente fare, ma Lui non lo ha fatto. Vivendo in mezzo a noi, non ci ha spiegato perché si soffre. Gesù, invece, ci ha mostrato la via per dare senso anche a questa esperienza umana: non ha spiegato perché si soffre, ma sopportando con amore la sofferenza ci ha mostrato per chi si offre. Non perché, ma per chi”.
“Perché i bambini soffrono? Non c’è risposta a questo” … “Soltanto guardare il Crocifisso, lasciare che sia lui a dare la risposta. ‘Ma padre, Lei non ha studiato teologia, non ha letto libri?’ Sì, ma guarda il Crocifisso: soffre, piange, questa è la nostra vita. Non voglio vendere ricette che non servono, questa è la realtà”.
La risposta del Papa ad “una delle domande aperte della nostra esistenza”.
“Dio è ingiusto? Sì, è stato ingiusto con suo figlio, l’ha mandato in croce. Ma è la nostra esistenza umana, la nostra carne che soffre in quel bambino, e quando si soffre non si parla: si piange e si prega in silenzio”.
Si comprende facilmente che Francesco è in difficoltà, ad una domanda elementare non riesce a dare una risposta, e non è la prima volta che capita così, già altre volte ha confessato a dei bambini che lui non ha risposte per la sofferenza dei bambini.
Ci si incomincia a chiedere se non lo faccia apposta, se per davvero un prete diventato papa non sappia quale sia il senso della sofferenza umana, dei bambini e degli adulti; non sappia dare una risposta pertinente a questo interrogativo che i fedeli gli avranno sottoposto migliaia di volte. Ma lui continua a nicchiare: è il caso di dirlo “fa lo gnorri”, con un atteggiamento di falsa ed ostentata umiltà che, secondo lui, dovrebbe rivelare la nobiltà dell’animo dietro l’ignoranza religiosa.
Neanche a citare il Crocifisso gli viene in mente che il soffrire in questo mondo è la condizione ordinaria dell’uomo decaduto per il peccato originale, in attesa che, riconciliato con Dio, goda la beatitudine e la felicità della vita eterna.
Ma Francesco non sa del peccato originale, non sa della beatitudine celeste, non sa della “valle di lacrime” che viviamo in terra in attesa che la Vergine Immacolata rivolga a noi i suoi “occhi misericordiosi” e ci mostri “dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto” del suo seno. Non lo sa; e se mai ne ha sentito parlare è segno che non l’ha capito.
Ma una cosa la sa: “Dio è ingiusto? Sì, è stato ingiusto con suo figlio, l’ha mandato in croce”.
Caspita, questo sì che l’ha capito, anche se a modo suo: ha capito che Dio non ha compassione e misericordia, che è talmente cinico da mandare il Suo Figlio “in croce” senza il minimo segno di giustizia. Ha capito che Dio è cinico e ingiusto: come si fa a mandare il proprio figlio in croce?
Neanche al livello di semplice battuta può perdonarsi una così feroce bestemmia.
E’ proprio per la sua propensione a bestemmiare Dio che i cardinali lo hanno scelto come papa, perché venisse a noi l’illuminazione di questo falso profeta che ad ogni fiato che emana dalla sua bocca ci suggerisce che di Dio, del Dio vivo e vero, si deve dire che è cinico e ingiusto.
Dopo la feroce battuta che “Dio non è cattolico”, ecco che Francesco ci appioppa la bestemmia che “Dio è ingiusto”. E noi dovremmo essere grati a questo bestemmiatore che impazza incontrollato in quel Vaticano ormai in mano a dei miscredenti.
Non servono commenti ulteriori, se non la necessaria riflessione sul perché il Signore ci abbia inflitto costui come papa.
A parte l’imperscrutabilità del disegno divino, non è difficile intendere che il Signore vuole metterci alla prova, vuole mettere alla prova la nostra fede in Lui, la nostra capacità di resistere e di respingere le lusinghe del demonio, anche quando ci vengono offerte per bocca di colui che per malasorte siede oggi, indegnamente, sul Soglio di Pietro.
San Pietro esortava, ed esorta, i veri credenti a rimanere saldi nella fede, perché il Signore, quando arriverà, non ci sorprenda distratti o addormentati, né tampoco proni di fronte alle bestemmie degli uomini, fossero pure chierici.
Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede… (I Pietro, 5, 8-9)
di Belvecchio
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV1772_Belvecchio_Francesco_senza_risposte.html
Il dolore, la sofferenze, la morte. Non è facile, credetemi, parlare di argomenti tanto alti senza esser percorsi da un timore reverenziale. E compulsare la Sacra Scrittura, gli scritti dei Santi Padri, i documenti del Magistero, le fonti liturgiche dimostra che è proprio nel mistero della sofferenza umana che la nostra Religione si mostra in tutta la sua ineffabile perfezione, e si pone come unica risposta credibile alle nostre domande. Poiché Cristo ha compiuto l'opera della Redenzione proprio attraverso la Passione e la Morte, rendendo il dolore strumento di salvezza e di riscatto, ma anche motivo di speranza.
Il senso della sofferenza umana è compendio del nostro Credo, perché nella sofferenza si è compiuta la nascita, la vita e la morte di Colui che, incarnandosi nel seno della Vergine Maria, ha sconfitto la morte del corpo, ma ancor più la morte dell'anima.
Ma proprio perché la sofferenza è legata intimamente ai Misteri della nostra Fede - la Ss.ma Trinità, l'Incarnazione, la Passione, la Resurrezione - non è possibile dare una risposta alla spontanea domanda dell'uomo senza coinvolgere tutte le Verità della Fede, sì che ogni dogma - anche quello che può sembrare più marginale - manifesta la propria ragione e necessità. Negare uno solo dei dogmi della nostra Fede, significa scardinare l'intero edificio cattolico, ma ancor prima significa profanare quel corpus organico perfettissimo che la Sapienza infinita di Dio ha posto come unico strumento di salvezza eterna per l'uomo corrotto dal peccato. Significa, in ultima analisi, negare quanto Nostro Signore ci ha insegnato non per istruirci intellettualmente, ma per consentirci - ancorché immeritevoli - di restaurare l'ordine mirabile che per nostra colpa abbiamo infranto in Adamo. Significa attentare a Cristo medesimo, che è Verità Egli stesso, Verbo eterno del Padre.
Le false religioni - e con esse le sette eretiche - sono intrinsecamente malvagie e odiose agli occhi di Dio proprio perché corrompono e rendono strumento di dannazione eterna anche ciò che in esse vi può essere di vero, come un veleno rende avvelenata anche l'acqua in cui è diluito. Così il concetto di Dio unico, quando legittima l'idolatria islamica o la perfidia giudaica negando la Ss.ma Trinità; così l'unicità del Divino Mediatore, quando è presa dai Luterani a pretesto per negare la Mediazione della Chiesa o della Vergine Ss.ma; così la venerazione per le antiche comunità apostoliche presso gli Eterodossi d'Oriente, quando è usata per negare il Primato del Principe degli Apostoli e della Chiesa di Roma, o l'Infallibilità del Vicario di Cristo. Ecco perché il vero zelo cristiano nei confronti degli adepti delle superstizioni e delle idolatrie, o verso i seguaci dell'eresia e dello scisma, non può cercare ciò che accomuna il Santo all'errante, ma viceversa ciò che separa quest'ultimo dalla Verità, ch'è unica e non parcellizzata. Che non ammette gerarchie tra quanto è più vero di un'altra verità. La Verità è tale nella sua interezza: scalfirne anche una parte infinitesimale è impossibile, poiché la Verità è divina, poiché essa è Dio stesso, e in Dio tutto è divino, e parimenti adorabile.
Parlare del dolore e della morte implica anzitutto parlare del peccato originale. Significa spiegare che la colpa commessa da Adamo si è trasmessa all'umanità intera, e che questa colpa fu infinita perché infinito è Dio, offeso dal peccato del Protoparente. Parlare del dolore e della morte implica accettare che vi è una Giustizia divina che chiede riparazione, e che all'infinità Maestà di Dio offesa da Adamo doveva corrispondere un'infinita riparazione, possibile solo da parte di Colui che, essendo vero Dio e vero uomo, poteva compiere un sacrificio infinitamente riparatore a nome di ogni uomo. Parlare del dolore e della morte implica accogliere l'Incarnazione della Seconda Persona della Ss.ma Trinità, che Lucifero non volle comprendere perché accecato dalla superbia. Significa accettare che la morte, la malattia, la sofferenza, l'ignoranza sono giusta punizione per una colpa che in Adamo abbiamo compiuto tutti. Significa credere che Gesù Cristo diede prova, con i suoi miracoli, di esser veramente Figlio di Dio, il Messia che i Profeti avevano annunciato. Significa comprendere il sacrificio di Cristo sulla Croce, che ha non solo riscattato la colpa di Adamo, ma anche ogni peccato, di ogni uomo, da Adamo alla fine del mondo. Parlare del dolore e della morte implica accogliere il Battesimo non come l'ammissione ad una comunità, ma come il lavacro che nel Sangue dell'Agnello ci purifica dal peccato originale e ci rende degni d'esser figli di Dio; accogliere la Confessione come Sacramento che per i meriti infiniti di Cristo ci rende nuovamente degni di meritare il cielo e, su questa terra, di ricevere il Corpo del Signore; accogliere il Mistero ineffabile della Ss.ma Eucaristia, che rende il Re dei Re presente sui nostri altari, a rinnovare in modo incruento il Suo sacrificio, per il ministero dei Sacerdoti, rendendo in modo perfetto un atto di adorazione, ringraziamento, propiziazione ed impetrazione alla Divina Maestà per mezzo del Sommo ed Eterno Sacerdote Gesù Cristo; accogliere tutti i Sacramenti come veicoli della Grazia divina. Parlare del dolore e della morte richiede di riconoscersi parte della Comunione dei Santi; ci impone di credere nella necessità dei Suffragi, nel tesoro delle Sante Indulgenze, nell'intercessione della Vergine e di tutti i Santi, e quindi nel dovere di rendere loro culto di venerazione. Significa prestar fede ed ossequio alla parola della Chiesa, che nei Successori di Pietro è chiamata a custodire infallibilmente e indefettibilmente l'insegnamento di Cristo, lasciato nella Sacra Scrittura e nella Santa Tradizione. Parlare del dolore e della morte significa anche credere nel Giudizio particolare e in quello universale, nella pena eterna dell'Inferno, nell'eterna beatitudine del Paradiso, nella purificazione transitoria del Purgatorio, nella condizione delle anime incapaci di vita soprannaturale confinate nel Limbo, e quindi nella necessità del Battesimo come mezzo di salvezza eterna, onde la Chiesa è chiamata a predicare a tutte le genti e a battezzarle nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Parlare del dolore e della morte ci porta a comprendere la necessità di sottomettere l'intelletto al Dio rivelatore, nell'atto di Fede; di confidare che il Signore ci concede i mezzi per mantenerci nella Sua Grazia, nell'atto di Speranza; di amare Dio e il prossimo per amor di Dio, nell'atto di Carità. Nel praticare la virtù, nel rifuggire il vizio, nel tendere alla perfezione. Nell'unirci, miserabili come siamo, alla Croce di Cristo, dando un senso appunto al dolore e alla morte, accettando quello e questa in isconto dei nostri peccati, e per i nostri cari, e per i peccatori, e per i defunti.
E questa Fede è capace d'esser sondata tanto dall'intelligenza del sapiente quanto dal sensus fidei del semplice, poiché entrambi sanno che Dio non può ingannarci. Questa Fede è animata dal Santo Timor di Dio, affinché non presumiamo di salvarci senza merito, né che disperiamo dell'eterna salvezza.
Il sordo non ode, e non sa cosa siano i rumori, i suoni, la musica. Non lo può comprendere. Il cieco non vede, e non sa cosa siano i colori, non può immaginare la luce, né le sfumature di un tramonto. Similmente, nelle questioni spirituali, vi sono sordi e ciechi: non comprendono e non immaginano l'armonia della Verità, il suo intimo legame con la Carità - dacché entrambe sono divini attributi - e non possono cogliere le sfumature delicatissime della Grazia. A costoro, veri sventurati, la Redenzione operata da Cristo e perpetuata nei secoli dalla Sua Chiesa dischiude gli occhi, apre gli orecchi, e ripristina mirabilmente l'antica perfezione, aggiungendovi qualcosa che la Creazione non aveva loro dato: gli infiniti meriti del Salvatore Nostro, conquistati sul legno della Croce.
Ma vi sono anche sordi che non vogliono udire, e ciechi che non vogliono vedere, poiché è l'orgoglio luciferino che li rende tali, ed impedisce loro di inchinarsi, di piegare il ginocchio, di invocare: Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me! Costoro vanificano il Sacrificio di Cristo ed aggiungono alla colpa originale ed ai loro peccati anche il disprezzo del Dio che, sommamente Misericordioso, nel dolore e nella morte del Suo Figlio ha placato la propria ira.
Questi sordi e ciechi non vogliono accettare che il dolore e la morte, giusta punizione per il peccato, siano diventati in Cristo strumento di salvezza eterna. Non hanno risposte. Non vogliono averne, e non sanno darne a loro volta.
Ecco perché quanto abbiamo letto con orrore, e cioè che Dio è stato ingiusto, perché ha mandato a morte suo Figlio, è una bestemmia. Ed è ancor più grave perché, lungi dal dare un senso alla sofferenza, vieppiù degli innocenti - che unendosi spiritualmente a Cristo sofferente potrebbero penetrare il Cielo ed invocare grazie per la Chiesa - li scandalizza, rende sterile il loro dolore, vanifica il loro piccolo o grande sacrificio, ed oltraggia ancora una volta, nei piccoli, lo stesso Cristo. Osa accusare Dio Padre di essere ingiusto - c'è da tremare d'orrore! -, quando invece la Croce di Cristo è l'atto di suprema Giustizia, ed allo stesso tempo di infinita Misericordia, di cui solo Dio è capace.
Davanti a questo abisso di cecità e sordità spirituale, il nostro cuore non solo s'indigna, ma si spacca di dolore. Perché vediamo una distanza incolmabile, un baratro nero che si spalanca sull'inferno. Nessuna speranza, nessuna risposta. Un silenzio cupo e tetro. Una disperazione di fondo che cela dietro la presunzione di salvarsi senza merito un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, una colpa che nemmeno Dio può perdonare. Il peccato di Lucifero.
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