CHI AVEVA RAGIONE ?
«Tradidi et quod accepi» vi ho trasmesso soltanto ciò che avevo ricevuto. Sono le parole che si possono leggere incise su una tomba presso il seminario di Ecône in Svizzera ed è quella dell’arcivescovo cattolico Marcel Lefebvre
di Francesco Lamendola
Tradidi et quod accepi: Vi ho trasmesso soltanto ciò che avevo ricevuto. Sono le parole che si possono leggere, incise su una tomba presso il seminario di Ecône, nella Svizzera francese: il seminario appartiene alla Fraternità sacerdotale san Pio X, fondato nel 1971; la tomba è quella dell’arcivescovo cattolico Marcel Lefebvre, il più risoluto oppositore delle innovazioni dottrinali e liturgiche introdotte dal Concilio Vaticano II, opposizione che gli valse, nel 1988, la scomunica da parte del pontefice Giovanni Paolo II.
Figura scomoda, quella di monsignor Lefebvre, e quanto mai politicamente scorretta; figura controversa, quasi un segno di contraddizione, da pochi ammirata e perfino venerata, da molti criticata e condannata, dalla maggioranza, semplicemente, poco conosciuta e, pertanto, giudicata in fretta, superficialmente, per sentito dire. Monsignor Lefebvre?, si chiedeva qualcuno, ogni tanto, imbattendosi nel suo nome sulla stampa o nel corso dei telegiornali. Ah, sì, quel vecchio vescovo testardo, che rifiuta le novità del Concilio e vuol andare avanti per la sua strada, anche se è solo contro tutti. E si liquidava il discorso con un’alzata di spalle. Il Concilio Vaticano II – il Concilio per antonomasia -, così ci è sempre stato detto e ripetuto, è stato un momento glorioso e luminoso nella storia della Chiesa cattolica; il Concilio ha portato il progresso, la vita, l’aria fresca nelle stanze chiuse, che sapevano di muffa, della tradizione tridentina. Ha rinnovato il culto, ha rinnovato la Messa, ha rinnovato i rapporti con le altre confessioni e con le altre fedi… Insomma, ha messo la Chiesa, per la prima volta, in sintonia con le “conquiste” del mondo moderno: quelle stesse che un secolo prima, nel Sillabo, il papa Pio IX aveva elencate puntigliosamente, ma solo per condannarle tutte, una dopo l’altra. E allora, come si faceva a non esser favorevoli al Concilio? Come si poteva immaginare che monsignor Lefebvre avesse anche solo un pochino di ragione? Nessuno ha ragione contro il progresso, contro la modernità; anzi, chiunque pretenda di opporsi al progresso, fa inevitabilmente la figura di don Chisciotte che parte, a briglia sciolta e lancia in resta, per la sua memorabile battaglia… contro i mulini a vento.
Monsignor Lefebvre, pietra d’inciampo sulle magnifiche sorti e progressive della cattolicesimo finalmente modernizzato. Una figura addirittura incomprensibile per i tanti, troppi cattolici progressisti, per i teologi neomodernisti, per i cardiali, gli arcivescovi e i vescovi propugnatori delle ultime novità in fatto di “misericordia” del Signore: possibilisti sulla Eucarestia ai divorziati risposati, sul matrimonio omosessuale, sul perdono relativamente facile dell’aborto volontario; e, naturalmente, tutti infiammati di sacro zelo sociale e politico, tutti infervorati dalla teologia della liberazione, tutti protesi nell’opera di persuasione, per non dire di costrizione, relativamente all’accoglienza dei cosiddetti migranti, in realtà invasori islamici che si apprestano a colonizzare l’Europa e a fare quel che non seppero fare, con le armi in pugno, Arabi e Turchi nei secoli passati: non solo sottomettere il nostro continente e convertirlo alla bandiera verde del Profeta, ma, addirittura, sostituirne la popolazione, facilitando l’eutanasia dei popoli cristiani (o post-cristiani), sempre più vecchi, e rimpiazzandoli con i giovani figli dell’Africa e del Medio Oriente, estremamente prolifici. E anche su questo terreno, cioè sul giudizio relativo alle possibilità di “coesistenza pacifica” con l’Islam, bisogna ammettere che monsignor Lefebvre (che era stato, per molti anni, missionario in Africa e poi arcivescovo di Dakar, nel Senegal, e aveva riportato successi straordinari nel convertire al cattolicesimo quelle popolazioni) aveva lanciato l’allarme assai per tempo, e, a quanto pare, aveva avuto la vista migliore di tanti inguaribili ottimisti odierni per partito preso…
Ma che cosa gli si rimproverava, alla fine? Di aver sgarrato in fatto di dottrina? Assolutamente no; al contrario… Di essersi ribellato all’autorità del papa? Sì, ma fino a un certo punto. Monsignor Lefebvre riconosceva pienamente l’autorità del Pontefice; sosteneva, però, che, al di sopra di tutto, viene l’autorità di Colui del quale il Papa è il semplice vicario sulla terra: Gesù Cristo. E sosteneva che, avendo il Concilio Vaticano II deliberato alcuni atti ufficiali, come la dichiarazione Dignitatis Humanae del 7 dicembre 1965, sulla libertà religiosa, che sono in contrasto – a suo dire – con la lettera e con lo spirito del Vangelo, non gli era possibile obbedire agli uomini piuttosto che a Dio. Ma è vero che alcune deliberazioni e alcune riforme del Concilio “tradiscono” il sacro Magistero e la Tradizione della Chiesa cattolica? Questo è il punto; questo è il nodo.
Se questo è vero, o se è vero anche solo in parte, allora monsignor Lefebvre aveva ragione, per l’appunto, almeno in parte; se non lo è, aveva torto. Non è una questione accademica, e il fatto che monsignor Lefebvre sia morto da un quarto di secolo (nel 1991) non la rende meno urgente, né meno spinosa. A parte il fatto che la Fraternità sacerdotale san Pio X esiste tuttora, e, anzi, gode di buona salute, perfino migliore – quanto a vocazioni – di quanta non ne goda, mediamente, il resto della Chiesa cattolica, resta una questione di principio di enorme rilevanza, anche per i possibili sviluppi futuri: la via intrapresa dal Concilio – riforma liturgica; nuova Messa; ecumenismo; liberà religiosa e dialogo inter-religioso, collegialità episcopale – era quella giusta? E come mai, se lo era, lo stesso Paolo VI ebbe ad osservare, soltanto poco tempo dopo, che col Concilio Vaticano II ci aspettavamo una primavera, invece è venuto l’inverno?
E se non era quella giusta, o se, almeno in parte, si è rivelata sbagliata, non significa questo che monsignor Lefebvre aveva visto giusto? Ripetiamo: questa non è una questione accademica: è in ballo la dottrina, non solo la teologia; è in ballo il destino della Chiesa; è in ballo, soprattutto, la fedeltà della Chiesa al Vangelo di Cristo e, di conseguenza, è in gioco la salute delle anime. Un Magistero fedele alla parola di Dio assicura loro la salvezza; ma un Magistero sviato nell’errore – somma sciagura, finora addirittura impensabile nei duemila anni di storia della Chiesa -, lascerebbe le anime abbandonate a se stesse, o, peggio, le trascinerebbe con sé lungo delle strade che non portano a Dio.
Questioni enormi, come si vede; questioni di vita o di morte.
Per mettere a fuoco la sostanza del problema posto dallo “scisma” di monsignor Lefebvre (scriviamo scisma fra virgolette, perché qui non si è trattato di creare una nuova chiesa, in antagonismo con quella cattolica, ma, al contrario, di rivendicare la piena fedeltà ad essa, nel suo spirito autentico e cioè nella sua Tradizione), non solo e non tanto sul piano liturgico e pastorale, ma proprio sul terreno teologico e dogmatico, ci è sembrato utile citare alcuni passaggi dal libro Un vescovo cattolico, a cura della Fraternità San Pio X in Italia, beninteso tenendo conto del fatto che vi è espresso il punto di vista di monsignor Lefebvre e dei suoi seguaci (Torino, Edizioni San Francesco di Sales, 1990, pp. 146-148):
Nella Chiesa cattolica lo scisma o scissione nei confronti della legittima autorità non si realizza che per una rivolta contro l’autorità o la funzione del papa. Il Cardinal Journet nel suo trattato “L’Eglise du Verbe Incarné” (T. II) si esprime in questi termini: “La disobbedienza per quanto sia ostinata non costituisce uno scisma fino a quando non comporta una rivolta contro la funzione del papa o della Chiesa. Se, continuando a riconoscere il Sommo Pontefice come mio superiore, gli disobbedisco per interesse o passione, può esservi peccato molto grave di disobbedienza ma non è ancora lo scisma: e SE RIFIUTO UNA DELLE SUE DECISIONI PERCHÉ È EVIDENTEMENTE ERRONEA, essendo pronto ad obbedirgli per quel che riguarda le altre cose, CIÒ PUÒ AVVENIRE SENZA CHE VI SIA ALCUNA COLPA”.
Da quando il modernismo è penetrato nella Chiesa l’attitudine di Mons. Lefebvre, e di molti cattolici che volevano conservare la loro fede, è stata quella della resistenza. Neppure il papa o un Concilio può cambiare l’insegnamento di Nostro Signore. “Se anche noi stessi o un Angelo dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che riceveste, sia anatema”, diceva S. Paolo.
Qualcuno potrebbe obiettare che la resistenza ai principi modernisti della Chiesa conciliare era del tutto lecita a Mons. Lefebvre, ma l’atto scismatico è stato proprio la consacrazione episcopale di quattro vescovi senza il permesso del papa [Fellay, Tissier de Mallerais, Williamson e de Galarreta, che fu “illecita”, ma “valida”, secondo il Codice di Diritto Canonico].
Si risponde facilmente dimostrando che la consacrazione di vescovi senza il permesso del papa non è di per sé un atto scismatico se non c’è l’intenzione di fondare una nuova chiesa parallela con una nuova gerarchia.
Il Codice di Diritto Canonico del 1917, in effetti, prevedeva per quest’atto, come pena, la semplice sospensione “a divinis” mentre il reato di scisma era punito con la scomunica. Pio XII, nel 1951 e 1958 aggravò la pena con la scomunica, ma questo fu in occasione delle consacrazioni realizzate per costituire delle chiese separate da Roma e sottomesse, come fu il caso in Cina, a degli stati comunisti.
Lo stesso CARDINALE CASTILLO LARA, presidente della pontificia commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico, in un’intervista apparsa su “Repubblica” il 10 luglio 1988 dichiarava che “IL SOLO FATO DI CONSACRARE UN VESCOVO NON È UN ATTO DI PER SÉ SCISMATICO”, specificando che si tratta di un delitto contro l’esercizio del proprio ministero e non contro la religione e l’unità della Chiesa.
D’altra parte, Mons. Lefebvre ha dichiarato espressamente di compiere quest’atto unicamente per garantire ai fedeli la predicazione della buona dottrina e l’amministrazione dei Sacramenti con la continuità del Sacerdozio Cattolico. Mai gli è balenata l’idea di costituire una nuova chiesa.
Nella lettera che aveva indir irizzato ai futuri vescovi diceva loro: “Vi scongiuro di rimanere attaccati alla cattedra di Pietro, alla Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte le Chiese, nella Fede Cattolica integrale, espressa nei Simboli della Fede, nel Catechismo del Concilio di Trento, conformemente con quello che vi è stato insegnato nel vostro seminario. Rimanete fedeli nella trasmissione di questa Fede in modo che giunga il regno di Nostro Signore”.
Nella predica, il giorno stesso delle consacrazioni [30 giugno 1988], Mons. Lefebvre ribadiva questa intenzione: “NOI NON SIAMO SCISMATICI. SE LA SCOMUNICA È STATA PRONUNCIATA CONTRO I VESCOVI DI CINA, CHE SI SONO SEPARATI DA ROMA E CHE SI SONO SOTTOMESSI AL GOVERNO CINESE, SI COMPRENDE ASSAI BENE PERCHÉ IL PAPA PIO XII LI HA SCOMUNICATI. NON SI TRATTA PER NOI DI SEPARARCI DA ROMA E DI SOTTOMETTERCI AD UN QUALCHE POTERE ESTRANEO A ROMA, NÉ DI COSTITUIRE UNA SORTA DI CHIESA PARALLELA come hanno fatto per esempio i vescovi di Palmar de Troya, cin Spagna, che hanno nominato un papa, che hanno fatto un collegio di cardinali. Per noi non si tratta affatto di cose simili. Lungi da noi questo miserabile pensiero di allontanarci da Roma.
Al contrario, è per manifestare il nostro attaccamento alla Chiesa di sempre, al papa e a tutti coloro che hanno preceduto questi papi che disgraziatamente dal Concilio Vaticano II hanno creduto di dover aderire a gravi errori che stanno per demolire la Chiesa e per distruggere il sacerdozio cattolico”.
È necessario, perciò, ben capire in che cosa consista l’autorità e la funzione del papa poiché, come abbiamo visto, soltanto quando v’è rivolta contro di esse si può parlare di scisma.
Il papa è il Vicario di Cristo. Deve rappresentare Nostro Signore sulla terra e trasmettere integralmente il suo insegnamento. Deve inoltre vegliare alla trasmissione dei mezzi di santificazione che Gesù ci ha lasciato: i sacramenti, continuando il sacerdozio Cattolico.
VOLER CONSACRARE DEI VESCOVI, QUINDI, PER GARANTIRE AI FEDELI LA PREDICAZIONE DELLA BUONA DOTTRINA E L’AMMINISTRAZIONE DEI SACRAMENTI, È TOTALMENTE IN SINTONIA CON L’AUTORITÀ E LA FUNZIONE DEL PAPA.
Perché il permesso ci viene negato dal papa attuale [Giovanni Paolo II? A causa della crisi che imperversa nella Chiesa; perché “GLI ARTIGIANI DELL’ERRORE NON BUISOGNA CERCARLI OGGI FRA I NEMICI DICHIARATI. ESSI SI NASCONDONO… NEL SENO STESSO DELLA CHIESA” (San Pio X) perché“IL FUMO DI SATANA È PENETRATO NEL TEMPIO DI DIO” (Paolo VI). Si condanna Mons. Lefebvre perché si rifiuta di accettare gli errori liberali condannati dai Papi e penetrati nella Chiesa grazie all’ultimo Concilio. Questo fu il motivo per cui gli si intimò di chiudere il suo seminario nel 1976; questo è il motivo fondamentale per cui lo si condanna oggi.
Giovanni Paolo II stesso afferma in “Ecclesia Dei adflicta” che “La radice di quest’atto scismatico può riconoscersi in una certa nozione di Tradizione imperfetta e contraddittoria, poiché essa non considera sufficientemente il carattere vivente della Tradizione stessa…”.
Ecco cosa si rimprovera a Mons. Lefebvre:; ecco il vero punto di disaccordo: una nozione di Tradizione imperfetta e contraddittoria perché non è “viva” in quanto non accetta i cambiamento sopravvenuti dal Concilio in poi. (In particolare, la libertà religiosa, l’ecumenismo, la collegialità episcopale). Condannato perché rifiuta di cambiare la propria fede: ecco il vero motivo della scomunica. La verità non cambia col tempo. “Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno” ha detto Nostro Signore. Il carattere proprio del modernismo è quello di affermare che il dogma, essendo un frutto del sentimento religioso, cambia col tempo ed evolve. Contro di esso si sono scagliati tutti i pontefici da san Pio X a Pio XII. Se fossero vivi oggi rinnoverebbero certamente la condanna contro i modernisti penetrati all’interno della Chiesa, senza risparmiare gli errori conciliari, già denunciati nei loro scritti.
IL DISACCORDO QUINDI NON È CON LA CHIESA E LA CATTEDRA DI PIETRO, MA CON COLORO CHE, IMBEVUTI DI PRINCIPI LIBERALI, STANNO OCCUPANDO LA CHIESA INSEGNANDO DOTTRINE GIÀ CONDANNATE DALLA TRADIZIONE.
Dal punto di vista strettamente teologico, dunque – Messa in latino o no – la vera ragione del contendere è il concetto di Tradizione: dalla sua diversa interpretazione derivano le opposte conclusioni dei seguaci di monsignor Lefebvre e della Chiesa cattolica post-conciliare. Secondo il Magistero degli ultimi papi, e specialmente di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, la Tradizione va intesa come una realtà viva e, perciò, in una certa misura, anche mutevole, bisognosa di essere “aggiornata” con il trascorrere del tempo e il mutare delle situazioni: questa è la ragione per cui, nel 1962-65, venne deciso che la Tradizione cattolica, così come era stata fissata nel Concilio di Trento, e, in seguito, ulteriormente definita nel Concilio Vaticano I, non era più adeguata a reggere la sfida dei tempi moderni. Per la maggioranza dei padri conciliari (del Vaticano II), una Messa liturgicamente stabilita quattro secoli prima, quella di Pio V, e una serie di prese di posizione nei confronti della civiltà moderna, nonché le relative condanne - il Sillabo di Pio IX -, risalente a cento anni prima, non erano più corrispondenti alla situazione della seconda metà del XX secolo e andavano, perciò, riformulati. Per monsignor Lefebvre, invece, la Tradizione è, sì, una realtà viva, ma di una vita perenne: per cui, se sono ammissibili taluni aggiornamenti liturgici, non lo sono delle vere e proprie innovazioni di prospettiva teologica. E, del resto, per monsignor Lefebvre, la liturgia stessa non è semplicemente la parte “variabile” del Magistero; al contrario, la liturgia è simbolo dell’infinito mistero divino, e i simboli del mistero divino non si possono cambiare a piacere, come dei vestiti vecchi, quando la sensibilità dei tempi nuovi li trova “superati”. Anche in questo campo, perciò, sono necessarie la massima prudenza e la massima ponderazione prima di modificare qualcosa: il popolo cristiano è giustamente affezionato ai simboli del rito cattolico, perché vede in essi il riflesso di una verità eterna e immutabile.
Ecco perché Giovanni Paolo accusò monsignor Lefebvre di avere una concezione contraddittoria e imperfetta della Tradizione: furono queste le espressioni che adoperò al momento di ratificare la scomunica latae sententiae del 1988, allorché l’arcivescovo francese volle nominare i quattro nuovi vescovi, nonostante il preventivo ammonimento vaticano. È stato osservato che tale scomunica, benché tecnicamente ineccepibile, non era, tuttavia, inevitabile: consacrando i quattro nuovi vescovi, monsignor Lefebvre aveva compiuto un atto illegittimo, però canonicamente valido: il suo peccato era stato quello di procedere senza l’autorizzazione di Roma, e non, di per sé, quello di averli nominati. Pio XII aveva esteso la scomunica a simili atti di disobbedienza in ordine a un precedente ben preciso: quello di quei vescovi cinesi che si erano sottomessi al governo comunista in cambio di un “riconoscimento”, che, però, non si estendeva a tutti i cattolici cinesi, ma solo a quelli che sottoscrivevano tale sottomissione: atto che, perciò, era stato disapprovato dal Papa, appunto perché infeudava la Chiesa cinese (quella scismatica, a quel punto) al regime comunista, e lasciava del tutto “scoperti”, ed esposti a ogni persecuzione, gli altri cattolici. Il caso di monsignor Lefebvre era completamente diverso, per non dire opposto. La sua “colpa” era stata quella di voler restare fedele alla Tradizione; se aveva disobbedito al Papa, non era stato che per quel motivo, ma, in tutto il resto, riconosceva la sua autorità e si sottometteva a lui. E quanto al fatto di essersi ostinato in quelle nomine, vanificando la lunga e faticosa opera di mediazione svolta dal cardinale Ratzinger, la cosa venne presentata dalla stampa come un atto di sfida gratuita, ma la verità è ben diversa: senza procedere a nuove consacrazioni episcopali, il seminario di Ecône, e, più in generale, quella parte del clero che si riconosceva nelle posizioni di monsignor Lefebvre, non solo in Francia, ma in tutto il mondo (perché la Fraternità sacerdotale san Pio X abbraccia tutti i continenti) sarebbe rimasta senza nuovi sacerdoti e, quindi, si sarebbe spenta per mancanza di ossigeno. In pratica, rinunciare alla nomina dei vescovi (il papa gli aveva concesso, tutt’al più, di consacrarne uno solo, a una data stabilita: il 15 agosto 1988, festa dell’Assunzione di Maria) sarebbe equivalso, per monsignor Lefebvre e per tutto il “movimento” da lui creato, a una specie di eutanasia.
Ritorniamo perciò alla domanda cruciale: chi ha ragione, nella interpretazione del concetto di Tradizione: monsignor Lefebvre o la Chiesa post-conciliare? Non bisogna lasciarsi sviare da questioni secondarie, per quanto cariche di significati simbolici: la vera posta in gioco non era, e non è, la Messa tridentina o il Novus Ordo Missae. Il punto centrale è la Tradizione: è da quello che deriva tutto il resto. D’altra parte, vi è un autentico corto circuito nel quale finiscono per cadere quanti condannano senza appello, anche in senso teologico e pastorale, la figura e l’opera di monsignor Lefebvre. Infatti, il solo fatto che si parli di una Chiesa post-conciliare è, teologicamente parlando, illegittimo e intollerabile: non esistono, né possono esistere, “diverse” chiese cattoliche, a seconda dei tempi; la Chiesa è una, è sempre stata una e deve restare, necessariamente, una ed una sola. San Paolo ammoniva che, se qualcuno avesse insegnato ai cristiani delle prime comunità, in Asia Minore e in Grecia, un Vangelo diverso da quello insegnato da lui e dagli altri apostoli, quello sarebbe stato da considerarsi anatema, cioè maledetto. Non ci possono essere due Vangeli; e non ci possono essere due Chiese. Pertanto, se si ammette che la Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II era una Chiesa diversa da quella preesistente, si incorre in una affermazione eretica, e si dà ragione proprio a monsignor Lefebvre.
Per superare l’impasse, oggi molti autori, e soprattutto i papi che si sono succeduti dopo Giovanni XXIII, hanno sempre preferito parlare della “continuità” fra la Chiesa di prima e quella successiva al 1962-65: così, ad esempio, si esprimeva il cardinale Ratzinger, specialmente quando venne eletto pontefice con il nome di Benedetto XVI. Egli, da giovane, era stato piuttosto favorevole ai “novatori” durante il Concilio, ma poi aveva svolto una precisa critica, che era stata anche una autocritica, e aveva riconosciuto che, in taluni aspetti, lo spirito riformista del Concilio era andato troppo oltre. Altri, come lo storico Alberto Melloni e la cosiddetta “scuola di Bologna” (ne abbiamo già parlato), evidenziano invece l’ermeneutica della discontinuità; evidentemente, non si rendono conto che, in tal modo, fanno autogol, perché, ammettendo che il Concilio Vaticano II operò una rottura con il Magistero precedente, rendono legittime le perplessità e le critiche di quanti negano che un concilio, o un papa, abbiamo la potestà di disporre del Magistero come di una cosa “loro”, che si possa modificare a piacere, oppure, nel caso dei padri conciliari – e come di fatto avvenne – che si possa modificare a colpi di maggioranza.
A questo punto, crediamo di aver delineato i tratti essenziali del problema; e lasciamo che ciascuno, in coscienza, ne tragga le sue personali conclusioni.
«Tradidi et quod accepi»(M. Lefebvre)
di
Francesco Lamendola
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