ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 25 dicembre 2016

Offrire il collo al boia

La disfida profana sui presepi, tra molta ideologia e ben poca tradizione

Il simbolo natalizio è diventato il terreno di scontro tra i cultori del nichilismo e gli identitari opportunisti. Preti che litigano, vescovi rinunciatari, politici in cerca d'autore (e di voti)


L’ultimo è stato don Sante Braggiè, cappellano del cimitero di Cremona e responsabile di due parrocchie cittadine. Niente presepio, quest’anno. Un po’ perché mettere statue e muschio è impresa non facile, lì tra le lapidi consunte e la ghiaia a rendere affannoso il passo. Un po’ perché ci vuole rispetto anche per gli altri, e cioè per chi cristiano non è e in quella mangiatoia non ci vede nulla di divino. “Un piccolo angolo del camposanto è riservato alle tombe degli islamici. Sono molti quelli che vengono qui a ricordare i loro cari e un presepio collocato in bella vista com’era quello potrebbe essere una mancanza di rispetto per i fedeli delle altre religioni, urtare la sensibilità dei musulmani, ma anche degli indiani e pure degli atei. Insomma, sarebbe un pasticcio”, ha tagliato corto don Sante. Lì, nel camposanto, il presepio si era sempre fatto, almeno fin da quando il suo predecessore, don Oreste, aveva inaugurato la tradizione (parola, questa, da tenere ben presente).
Don Oreste che adesso sbotta indignato, in una guerra tra preti che ha tanto da commedia anni Cinquanta-Sessanta, se non fosse che il mondo è cambiato e ad altre latitudini c’è chi preferisce offrire il collo al boia piuttosto che rinunciare a ostentare la propria fede. “Non posso crederci!”, ha urlato il don: “Non voglio sentire cose del genere. Il presepio piaceva ai cremonesi, cattolici e non cattolici vi si erano affezionati. Non possiamo rinunciare alle nostre tradizioni, sarebbe una debolezza imperdonabile. Siamo, almeno per ora, in Italia e non in Arabia Saudita”. Don Sante, un po’ sorpreso per le polemiche (ma i precedenti avrebbero dovuto suggerirgli forse maggiore prudenza), dà la colpa alla carenza di personale addetto al cimitero, “ci sono troppe cremazioni” e tutti sono impegnati in quella pia opera e indisponibili ad allestire il presepio. E comunque, visto il vespaio di polemiche che prevedibilmente s’è levato, qualcosa si farà, assicurava. Meno vistoso, più politicamente corretto, messo lì dove solo i cristiani possono vederlo, e cioè nella cappella del camposanto.

Naturalmente, subito la battaglia s’è spostata sul piano politico, tra i leghisti identitari (e per questo, tradotto in breve, supposti difensori del presepio) e i cultori di una maldestra idea di laicità a dire che bisogna evitare l’esibizione di vistosi simboli religiosi (e tra il vistoso, evidentemente, rientra anche un presepio). Se poi si cerca l’aiuto di chi ne sa di più, tipo qualche vescovo, è meglio lasciar perdere. L’anno scorso il vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, fresco di nomina, attirò su di sé perfino l’ira delle beghine locali per aver detto a favore di telecamere che “io farei tanti passi indietro pur di mantenerci nella pace, nell’amicizia e nella fraternità. Non dobbiamo presentarci pretendendo qualsiasi cosa che magari anche la nostra tradizione e la nostra cultura vedrebbero come ovvio”. La domanda era sul presepio da allestire in pubblico, e Sua Eccellenza aggiunse che “se fosse necessario per mantenere la tranquillità e le relazioni fraterne tra di noi, io non avrei paura a fare marcia indietro su tante nostre tradizioni”. Il Consiglio comunale e regionale s’indignarono, la curia fu presa metaforicamente d’assalto e il povero Cipolla dovette fare a mezza marcia indietro dicendo che il presepio va bene, “ma né le religioni né le tradizioni religiose possono essere strumenti di separazioni, conflittualità, divisioni”.


Natale a Padova, mons. Claudio Cipolla: “Passi indietro sulle tradizioni pur di stare in pace”
  
E’ una discussione che si trascina ormai da qualche anno, in Italia. Fa parte di quei tristi refrain che a ogni Natale tornano a riempire le cronache: prima c’erano le scuole materne ed elementari che espungevano ogni riferimento a Gesù Bambino-bue-asinello dalle recite natalizie, con presidi a giustificare l’impresa spiegando che ci sono anche bimbi musulmani (i cui genitori, però, non ci vedevano niente di male in quella tradizione). Togliendo così ogni senso alla suddetta recita che, in fin dei conti, era “natalizia”. Poi addirittura solerti segreterie didattiche hanno iniziato a non parlare più di “vacanze di Natale”, perché “Natale” sa tanto di religioso, e quindi di ostativo alla presunta laicità delle istituzioni. Meglio “vacanze d’inverno”, così da sciacquarsi la coscienza e convincersi che questo sia il modello migliore per favorire una convivenza sana e feconda. Poi lo stop con i canti natalizi, tipo “Tu scendi dalle stelle”, perché a scendere dalle stelle è il “bambino divino”, e siccome di divinità a scuola non si deve parlare, quel testo è troppo osé per i nuovi parametri della società del Duemila. Tralasciamo pure il discorso sul crocifisso rimosso, magari facendo votare per alzata di mano bambini di undici-dodici anni, che fino a quel momento erano stati abituati da nonni, madri e padri a vedere in quel simbolo qualcosa di altro e di più profondo che uno stemma identitario richiamante una banale affiliazione religiosa.

Sul presepio, povero san Francesco che l’aveva ideato, si gioca una battaglia ideologica, con la politica intervenuta a gamba tesa e spesso fuori luogo a farne un vessillo di propaganda, da brandire contro “l’altro”, l’estraneo, colui che viene a privarci delle nostre tradizioni. Quando, il più delle volte, altro non è che semplice cedevolezza allo spirito del tempo, a quel politicamente corretto che sta annichilendo l’occidente, sbiadendone l’identità e minando le basi valoriali che l’hanno reso quel che è. Ottenendo l’effetto opposto, e cioè attirando sull’occidente il disprezzo di chi, non cristiano, vede una civiltà mirare all’utopia posticcia della neutralità, ricacciando nella sfera del cosiddetto privato tradizioni, simboli, credo. Non si tratta di fare i soliti discorsi sulle radici, che chiare devono rimanere anche se oggi il cristianesimo si gioca sempre di più all’interno di una realtà interculturale e interreligiosa, piaccia o no.

Si tratta, semmai, di evitare di rivestire d’ideologia ciò che quella capanna e i suoi ospiti rappresentano, e cioè – per usare le parole di Benedetto XVI – “il Dio che viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno. Ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà”. Solo così si riuscirà a dare il giusto senso valoriale a ciò che il presepio rappresenta e ha sempre voluto rappresentare, rendendo sciocche e prive d’ogni significato le rivendicazioni neutraliste e identitarie fatte su quel simbolo. Come è avvenuto l’anno scorso a Rozzano, dove il preside di un istituto aveva deciso di spostare a gennaio il consueto concerto di Natale, ribattezzandolo “concerto di Inverno” e il giorno dopo si palesò dinanzi ai cancelli della scuola una schiera di politici con presepi in mano e speranze tutt’altro che flebili di raccattare qualche voto in nome della difesa dell’identità e della tradizione. Che però andrebbe bene intesa, visto che rappresenta l’opposto dell’ideologia, oggi assai presente sia tra chi vorrebbe purificare di anche vaghi richiami al religioso le nostre società, sia tra quanti riterrebbero appropriato segnare rabbiosamente il confine del proprio campo con tante croci e sante edicole.


Non toccatemi il presepio. Le comunità cattoliche di Francia si mobilitano. Un sondaggio dice che il settanta per cento dei francesi è per il presepe negli spazi pubblici. Tolosa e la croce occitana.

L’ideologia è infatti qualcosa di estemporaneo che impone sempre una negazione del passato, qualunque esso sia stato, e in qualunque modo si sia caratterizzato. La tradizione, invece, altro non è che un fondarsi su quel passato per trarre certezze sul presente e, ancor di più sul futuro. Come si trattasse di una bussola o di un’àncora di sostegno. Cancellare la tradizione – così intesa – porta alla negazione dei fondamenti del presente, e quindi, in ultima battuta, conduce al nichilismo. Che infatti prospera e si traduce in astrusi provvedimenti giudiziari che tentano, sempre in onore allo spirito del tempo, di coniugare il rispetto per la pia devozione personale con il principio ormai assurto a dogma secondo cui “laico” significa neutro. Lo spiega bene la recente sentenza del Consiglio di stato francese, secondo cui la laïcité proibisce “ogni messa in evidenza da parte delle autorità pubbliche di segni e simboli che mostrino un riconoscimento pubblico o una preferenza per una data religione”. E il presepio? Rappresenta anch’esso “una preferenza per una data religione”?

Mark Movsesian, del Center for Law and Religion, ha scritto sulla rivista conservatrice cattolica americana First Things che il presepio “è un caso difficile. Benché possa convogliare un messaggio religioso, ha anche un significato non religioso come decorazione famigliare stagionale”. Ergo, guardando la faccenda da un lato, l’allestimento andrebbe vietato. Dall’altro, andrebbe permesso. Il Consiglio di stato francese ha risolto la faccenda così: via libera al presepio “solo dove questo ha un intento culturale, artistico o festivo, ma non esprime una preferenza per una religione”.
  
Per determinare ciò, bisogna “considerare le particolari circostanze, inclusa l’esistenza o l’assenza di tradizioni locali e il luogo dell’allestimento”. Tutti vincoli puntigliosi che, se portati in Italia farebbero esplodere la guerra quasi santa tra i cappellani emeriti e regnanti del cimitero di Cremona. 

http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/12/24/news/la-disfida-profana-sui-presepi-tra-molta-ideologia-e-ben-poca-tradizione-111805/
Il Natale tra prediche sui valori e vaghe feste di solidarietà

Per fortuna c’è chi fa il presepe vivente, dove vi prendono parte anche bambini e famiglie di musulmani, induisti o assolutamente atei. Nessuno sente offeso il proprio credo o la propria storia
E’ come un colpo al cuore. Un sobbalzo durante la notte quando squilla il telefono. Accade così durante i collegi docenti, quelli dei primi giorni di settembre. Lunghissime riunioni con tutti i professori che si abbracciano confrontando l’abbronzatura, descrivendo località visitate e sfoggiando (le prof) mise ancora da spiaggia. Quelle riunioni più faconde che feconde dove, alcune volte, l’unica strategia è fingersi morti.
Sussulti dallo spavento perché ancora il tuo corpo è disteso su una spiaggia con il libro tra le mani. “La protezione zero spalmata sul cuore”, canta Jovanotti, e il suono del mare che ti coccola. I tuoi occhi sono ancora rapiti dalla vista del Monte Rosa e una parola ti ricorda bruscamente che, per il prof di Musica, è iniziata la scuola. “Professore, cosa facciamo per la festa della solidarietà?”. Rinvengo, sbando. Mugugno qualcosa. Parole scazonti, insignificanti. Mi domando: “E’ il primo settembre, cosa mai sarà la solidarietà? Se non quella che dovrebbero provare per un povero docente che dal trenta giugno è in ferie”. Viene in soccorso la vicepreside, quella che chiarisce i contenuti della Preside (per i puristi Dirigente). “Professore, prima delle vacanze di Natale facciamo una festa. Un momento associativo. La chiamiamo festa della solidarietà. Così… eh! Sa?”. L’ammiccare della collega non disperde le nubi della confusione nella mia mente ma fingo di essere sul pezzo e mi sforzo sinceramente di capire. Il maestro di Musica alle elementari o il professore alle medie è tipo un giullare. Deve organizzare spettacoli, animare situazioni, far fare ai ragazzi salti mortali per commuovere genitori, nonni e parenti tutti.
Natale è una di quelle. Lo spettacolo natalizio è diverso a seconda della scuola per cui lavori. In alcune non puoi nominare la parola Natale e quindi festeggi la solidarietà o la pace. In un primo momento pensavo dovessimo organizzare qualcosa tipo Telethon o raccolta fondi per i terremotati. Giuste cause, attenzione, ma poco a che fare con il Natale. Allora vai con spettacoli dal repertorio molto pop. Non manca mai “Jingle Bells” o, negli ambienti più swing, “Jingle Bells Rock”, “War is over” e ovviamente il gran finale con quell’inno al nulla che è “Imagine”. Il non plus ultra? “We are the world”, mano nella mano, ancheggiando fuori tempo e sullo sfondo un power point con le immagini di bambini poveri dell’Africa. Qualche massima di Paulo Coelho e poi la morale: che sia una festività (no Natale) di pace e la sua magia ci renda migliori. In altri istituti quasi non avverti la distinzione tra la messa e lo spettacolo di Natale. Una continua predica sui valori. Meglio della festa della solidarietà comunque. Sono queste alcune scuole “di suore” (ma per fortuna non sono tutte così). Un proliferare di canti stonati da “Tu scendi dalle stelle” ad “Astro del ciel” con la brillante e incoerente sorpresa finale di due preti gggiovani che si vestono da Babbo Natale e distribuiscono caramelle in cambio della promessa di essere più buoni.


Magia del Natale, propositi di candida bontà e caciara pazzesca, sono gli elementi classici del Natale a scuola. Quando mancano magia, bontà e chiasso forse abbiamo il vero Natale. Come il presepe vivente che si organizza in alcune scuole o centri d’aiuto allo studio pomeridiano. Vi prendono parte anche bambini e famiglie di musulmani, induisti o assolutamente atei. Nessuno sente offeso il proprio credo o la propria storia. I bambini fanno le pecorelle, i mestieri dell’epoca o gli angioletti. C’è chi accompagna i Re Magi. Si coinvolgono con semplicità cantando e indossando abiti fatti su misura per ciascuno di loro. Non è una recita. E’ il rivivere un fatto che accade ora. Stupisce il silenzio. Di tutti, dei bambini in particolare. Un vero miracolo dove non servono salti mortali, buoni propositi, lunghi sermoni e buone azioni. Non servono caramelle, magia e pace, ma solo vedere persone per cui Gesù è veramente nato. Buon Natale. 

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