ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 13 dicembre 2016

Rinunciabile o no?


Un processo a Francesco  
    
Un Papa che non capisce i princìpi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia. Il pamphlet di Valli con postilla sul relativismo all’ingrosso
                              
Papa Francesco (foto LaPresse)

Dall’interno della chiesa o se preferite del mondo cristiano-cattolico è nato e si consolida un “caso Bergoglio”.
Il Papa è messo in discussione apertamente. Cardinali dissenzienti, tra i quali l’ottimo Arcivescovo emerito di Bologna Carlo Caffarra, così simile a Pio IX nel volto ottocentesco, rispettosamente scrivono al Beatissimo Padre sul “divorzio cattolico” della Amoris laetitia, esortazione pontificia seguita ai famosi due sinodi sulla famiglia, e non ricevono altra risposta se non una sorta di censura morale, più qualche controverso sberleffo del selfie-gesuita confidente di Francesco, il Reverendo Padre Spadaro della Civiltà Cattolica, e di vari cortigiani anche laici. Apocalittici intelligenti e argomentati contestano tutto nel segno del rigetto (il Papa non è il Papa, ci sono due papi l’un contro l’altro armati, il problema è che ormai si tocca una dimensione eretica: letteratura Socci). I tradizionalisti come il professor Roberto de Mattei, in uno con una vasta rete di bloggers combattivi, insistono nella loro critica dottrinale spietata degli errori, cioè delle eresie moderniste, di cui il successore di Pietro si renderebbe colpevole protagonista. Ora arriva un pamphlet di Aldo Maria Valli per Liberilibri (titolo: “266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P.”).
Valli è il vaticanista principe del Tg1, un cattolico ardente dai toni moderati, familiari, devoti, uno che da decenni racconta le storie papali per il grande pubblico e commenta con lo speciale fervore che gli è proprio i fatti e i problemi della vita cristiana e cattolica. Ruolo e tono di Valli sono diversi dagli altri, cercano disperatamente la moderazione, però la diagnosi è molto severa. E impressionante la documentazione sul filo dei tre anni di pontificato. I turiferari, quelli che servono la corte papale spesso in modo impudente, dipingendo il beniamino delle folle laiche e cattoliche come un povero predicatore assediato dai lupi e dalle tenebre di un nuovo medioevo, hanno pane per i loro denti. Di Trump si è detto che i suoi avversari lo hanno preso alla lettera e non lo hanno preso sul serio, mentre i suoi elettori non lo hanno preso alla lettera ma lo hanno preso sul serio. Efficace descrizione di un fenomeno. Valli secondo me fa parte della prima categoria, non prende Francesco sul serio ma registra alla lettera quelle che giudica le sue bavures, gaffe, i suoi imbizzarrimenti pastorali e para teologici. L’elenco è sterminato. Sul piano anche solo documentario è un servizio alla comprensione del “caso” di rara utilità.
I lettori del Foglio ne conoscono in anticipo il contenuto, Matteo Matzuzzi è sempre equilibrato ma non perdona quando deve raccontare con libertà Francesco, e un nostro vecchio libriccino, “Questo Papa piace troppo”, fu loquace se non eloquente in merito già un anno dopo l’elezione al soglio del Papa venuto dalla fine del mondo (un capitolo del libro di Valli si intitola a un Papa che “piace troppo”). La dottrina cattolica è messa da parte come un ingombro, per quanto formalmente ribadita qui e là, in favore della pastorale, cioè della prassi cattolica in un tempo determinato, sapendo che per questo Papa “il tempo è superiore allo spazio”: così Valli. Ora i dogmi e la dottrina hanno in qualche modo una storia, ce lo ha spiegato il cardinale John Henry Newman, ma nonostante quel che dice Francesco a Scalfari (“Dio non è cattolico”) l’impressione è che Dio sia cattolico in quanto universale, universale ed eterno come i dogmi che lo riguardano e ci riguardano, mentre la pastorale, quella sì, può non essere cattolica, perché è il regno delle opinioni, sebbene autorevoli, conciliari, consacrate dalla vita della chiesa che governa, per dir così, il soffio vago e multidirezionale dello spirito nel tempo. Poi c’è il giudizio, che a nessuno è dato pronunciare secondo il famoso motto catechistico “chi sono io per giudicare?”.
Una derivazione dal vangelo molto più problematica di quanto non si pensi. Come dice Valli, basta pensare al credo cattolico con quel Dio incarnato, e risorto, che tornerà sulla terra a giudicare i vivi e i morti. Poi c’è tutto il resto: le cortesie per ospiti graditi verso l’islam, e le scortesie verso i parenti di Asia Bibi, condannata a morte per apostasia e imprigionata in attesa di una misericordia che non arriva. E una gran confusione nei pronunciamenti più vari, politici (ultimo il caso Trump con la consegna degli Stati Uniti d’America a un “non cristiano”, secondo la definizione improvvisata e polemica del Papa in aereo, che non è poco) e geopolitici, etici, intraecclesiali, curiali, episcopali (la curia come “lebbra” della chiesa, “non ho mai capito cosa siano i princìpi non negoziabili”). Francesco è buono, dice Valli, e ha fini di riconciliazione in ogni campo con il mondo com’è, che infatti lo applaude come una star del permissivismo universale anche se diserta ancora la sua chiesa, il risultato è cattivo, confuso, pasticciato nelle parole e nei gesti di questi tre anni di papato. I fedeli sono confusi, non sanno più se a far figli nel matrimonio cristiano non si finisca per essere “come i conigli”, animali e bigotti non illuminati dallo spirito, anche quello strano Paracleto della contraccezione o dell’aborto.
Non sanno più come giudicare la violenza jihadista contro i vignettisti libertini che esercitano a loro modo la libertà di espressione, anche blasfema, perché il Papa dice che “se uno ti parla male di tua madre, la religione, sei autorizzato a dargli un pugno”, dizione popolaresca e ambigua, tecnicamente collaterale al 7 gennaio 2015 di Parigi, Charlie Hebdo. Non capiscono perché il martirio dei cristiani debba essere nascosto e, preghiere a parte, trattato con una certa riluttante indifferenza. Interviste, sopra tutto interviste, ma anche viaggi, pronunciamenti vari nelle udienze e nella catechesi, tutto è all’insegna di un perdono che, preso alla lettera, consacra in nome della misericordia più o meno qualsiasi cosa o comportamento si affacci nella storia umana della modernità e postmodernità, eh già, il tempo è superiore allo spazio e anche alla penitenza e all’espiazione. Il denaro è astrattamente condannato, quello sì, in nome di una dottrina sociale intinta nel peronismo, nella teologia del popolo sudamericana, e l’ecologia è onusiana, non creaturale. Si potrebbe continuare all’infinito, ma il libro di Valli è lì per essere letto, compulsato, esaminato come un documento che molti lettori considereranno testimonianza ambigua di un papato ambiguo e tutt’altro che innocente e remissivo e tenero come si autocomprende. Perché dico che Valli non prende il Papa abbastanza sul serio, pur descrivendolo perfettamente preso alla lettera?
Perché penso che alla radice di quanto accade nella chiesa cattolica c’è qualcosa di profondo e inquietante che a Valli sfugge. A me non interessano i dogmi o la dottrina o la dottrina morale in quanto uomo di fede che non sono, ma in quanto il magistero cattolico è stato fino a Francesco una testimonianza contro la riduzione di tutto a storia, un elemento di contraddizione rispetto a quel mondo “liquido” che sulla scorta di Bauman Valli cita spesso nel suo pamphlet. Liquido vuol dire storicistico, cioè relativistico, all’ingrosso. Un Papa che non capisce i princìpi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia, che ha in uggia le permanenze classiche della filosofia e della nobile arte della filosofia politica, prima tra tutte la differenza razionale di bene e di male, alla quale prepone in modo intransigente il fideismo, il misticismo dell’abbandono interiore alla misericordia e al perdono di Dio.
La chiesa non può interferire nella vita personale degli uomini,dice Francesco beatificando il precetto del permissivismo romantico in nome dell’amore. Il suo punto di partenza è che l’interferenza è diretta, riguarda la fede e non la ragione, e il rapporto tra un’anima e Dio senza la mediazione efficace della chiesa e della cultura e dell’etica cristianizzate o di derivazione cristiana. Per questo il Papa regnante è quanto di più dissimile esista al mondo da un cattolico liberale, per questo segno radicale e ben interrato nella storia del gesuitismo cinque e seicentesco il Papa che abbraccia il mondo è un casuista, uno che giudica caso per caso e si affida alle intenzioni, alla coscienza personale, alla fede. E punto. E basta.
Francesco non è banalmente un progressista, anzi, coltiva un oscurantismo segreto, quello dell’anima e dell’amore, quello delle buone intenzioni, al posto del libero pensiero cristiano di tipo illuminista, che aveva trovato una sua espressione modernissima e contraddittoria con il mondo com’è nei papati di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che furono invece dannati dal giro laicista e soi disant illuminista perché toglievano ai chierici della ragione esclusiva e incapace di mistero il loro monopolio sulla cultura e sulla società, sui costumi. Francesco vuole rievangelizzare il mondo (fine santo) partendo dalla liquidazione di un grande patrimonio filosofico e culturale europeo di cui il polacco e il tedesco furono gli ultimi grandi testimoni (mezzo diabolicamente inadatto). E questo non prendere sul serio il papato francescano, sebbene il lavoro di scavo documentale tenda a spiegarlo, e bene, è chiarito da una dimenticanza fatale. Valli cita spesso Ratzinger e Giovanni Paolo come predecessori che dicevano cose diverse da Francesco, e le dicevano divinamente bene. Ma dimentica di farsi la benché minima domanda sul fatto che Francesco segue un’abdicazione dall’esercizio del munus petrino da parte del suo predecessore, il tedesco che fu braccio destro del polacco, non proprio un evento minore nella storia della chiesa e del mondo.
Giuliano Ferrara


IL BINOMIO FEDE E RAGIONE

    Fede e ragione binomio irrinunciabile. Chi si pone in una prospettiva puramente materialista non potrà mai capire la differenza: il problema non quantitativo ma riguarda il soprannaturale non contrario alla ragione bensì di superiore 
di F.Lamendola  



"La fede comincia là dove la ragione finisce"
Soren Kierkegaard


L’idea che la ragione umana sia irrimediabilmente contrapposta alla fede, e del tutto inconciliabile con essa, è un’idea moderna; e, come moltissime idee moderne, è una idea che nasce da un preconcetto, e che pretende di giustificarsi da se stessa, mentre invece la modernità è solita sottoporre a una critica spietata tutte le idee che non le appartengono, ma che derivano dalla tradizione. Due pesi e due misure, dunque: una bilancia leggera, leggerissima, per pesare e “promuovere” la propria ideologia; e un’altra pesante, pesantissima, per giudicare e condannare ciò che non fa parte del suo bagaglio, della sua prospettiva, dei suoi obiettivi.
La verità è che il pensiero cristiano non ha mai disprezzato la ragione, anche se è vero che esso, nato un ambito giudaico, si presentava come una dottrina di salvezza e non come una dottrina filosofica; l’elaborazione filosofica del cristianesimo avvenne in ambito greco e richiese alcuni secoli, per cui è giusto parlare delle radici greco-romane del cristianesimo (Roma vi aggiunse la concezione giuridica) quanto lo è parlare delle sue radici giudaiche. Però è altrettanto vero che fin dagli inizi, ad esempio nelle lettere di san Paolo, il cristianesimo ha conosciuto anche una elaborazione speculativa che ne ha delineato i tratti essenziali in quanto concezione filosofica, o meglio teologica, del mondo, oltre che come fede religiosa nell’avvento del regno di Dio; e, del resto, è noto che Tarso, la città natale dell’apostolo, era un importante crocevia commerciale, e anche culturale, fra il mondo giudaico e il mondo greco, e che la cultura giudaica di Paolo era arricchita da stimoli e modi di ragionare tipici della speculazione ellenistica.
Per tutti i secoli del Medioevo, fede e ragione sono rimaste in equilibrio dinamico, sempre sorrette dalla consapevolezza di essere necessarie l’una all’altra; e se, come in Tommaso d’Aquino, viene pienamente rivendicata l’autonomia della seconda rispetto alla prima, nondimeno vi è sempre la coscienza che, fra esse, è la ragione che deve inchinarsi alla fede, poiché la ragione prepara e illumina la fede, ma non la sorregge, non la sostituisce e tanto meno la annulla; e che, se la fede è sufficiente per giungere alla vita divina, la ragione è uno strumento che la rafforza, la rischiara e la conferma, ma nulla di più. La consapevolezza della sussidiarietà della ragione rispetto alla fede, peraltro, non ha creato occasioni di conflitto, almeno fino alle soglie del basso Medioevo e, nelle personalità più dotate e armoniose, anche assai dopo, praticamente fino ai nostri giorni; pur se è innegabile che, con l’avanzare della modernità, a partire dal Rinascimento, e sicuramente durante e dopo la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, una certa disarmonia ha cominciato ad insinuarsi fra esse, non solo a chi si pone dal punto di vista della cultura laica, ma anche all’interno della stessa cultura cattolica, o, almeno, in una parte di essa.
Questa disarmonia si è accentuata nel corso del XIX e XX secolo ed è letteralmente esplosa a partire dalla metà del ‘900; al punto che una parte non secondaria della cultura cattolica contemporanea ha preferito risolvere il problema, o meglio, ha creduto di risolverlo, adottando il punto di vista delle scienze positive per tutto ciò che riguarda la concezione del mondo terreno, dall’evoluzionismo darwiniano alla psicanalisi, e adottando atteggiamenti auto-accusatori nei confronti della ragione scientifica per le passate persecuzioni di cui si sarebbe macchiata la Chiesa, come nel caso del processo a Galilei, vicenda per la quale molti esponenti della cultura cattolica hanno sposato al cento per cento le posizioni dei liberi pensatori di un secolo fa, che di Galilei, appunto, avevano voluto fare la loro bandiera, anche se si trattava di una operazione impropria e decisamente strumentale. Così facendo, i cattolici progressisti hanno creduto di farsi perdonare i “peccati” d’intolleranza del passato ed i crimini contro la ragione, ottenendo, in cambio, o piuttosto nella speranza di ottenere, una specie di benevola neutralità, o una specie di salvacondotto, da parte della cultura dominante laicista e materialista, nei confronti della loro fede religiosa e della loro concezione religiosa del mondo.
Vana speranza: prima di tutto, perché la cultura laicista e secolarizzata non ha mostrato alcuna intenzione di ricambiare la cortesia e di smobilitare le proprie armate, tuttora impegnate ad assestare gli ultimi colpi a ciò che resta della presenza culturale cattolica nel mondo moderno; secondo, perché la rinuncia totale a una presenza attiva nell’ambito delle scienze positive, e la rigida auto-limitazione della sfera d’azione della cultura cattolica al solo terreno spirituale e religioso, in pratica si risolve in un operazione impossibile, che riproduce la supposta inconciliabilità tra fede e ragione sostenuta, specularmente, appunto dalla cultura laicista, neoilluminista e neopositivista. In altre parole: se si rinuncia alla ragione per salvare la fede, si finisce per cadere in un atteggiamento schizofrenico, perché la realtà è una, e la ragione e la fede, per il credente, sono due strumenti, necessari entrambi per decodificare la realtà stessa.
Fides et ratio - lo ripetiamo - formano un binomio irrinunciabile: questa è, da secoli e secoli, la posizione della cultura cattolica, che, troppo a lungo denigrata, o semplicemente ignorata, dai suoi avversari, e, a volte, dagli stessi fedeli, non ha mai visto contraddizione alcuna fra la ricerca intellettuale e la divina Rivelazione. Il problema, per la fede, non è, e mai potrà essere, la ragione in se stessa, la quale, in quanto dono di Dio, e dono speciale fatto all’uomo fra tute le creature, non può che essere buono e meritevole di essere sviluppato al massimo; bensì l’uso eventualmente sbagliato di essa. Il che accade quando la ragione non riconosce il suo carattere complementare alla fede e subordinato ad essa, né la priorità di questa in ordine alla Rivelazione e, quindi, alla partecipazione alla vita divina che all’uomo viene offerta. Questo è ciò che è puntualmente accaduto, nell’ambito della cultura profana, a partire dal Rinascimento, e soprattutto a partire dall’Illuminismo; e che si è ripetuto, nell’ambito della cultura cristiana, prima con la cosiddetta Riforma protestante (che è stata, in realtà, una devastante rivoluzione, basata sulla pretesa di una lettura esasperatamente individualistica della Bibbia), poi con una serie di tendenze evangeliche e razionaliste, alla maniera di Tommaso Campanella e Paolo Sarpi; e, da ultimo, con le correnti moderniste, con la critica delle forme e con l’introduzione del metodo storico-critico nello studio delle Scritture, sempre, si capisce, per “attualizzare” e rendere più “comprensibile” e più “pregnante” il Kerygma all’uomo moderno.
È sempre lo stesso ritornello: quasi per farsi perdonare lo scandalo della loro fede, i cattolici dell’età moderna hanno deciso di accettare in blocco e di far loro i metodi e le prospettive della cultura moderna - si pensi al gigantesco pasticcio di evoluzionismo cosmico e di spiritualismo escatologico nella concezione cristologica di Teilhard de Chardin; il che, nel caso della Rivelazione cristiana, equivale a sfrondare da essa tutto ciò che sa di “mito” e di “miracoloso”, tutto ciò che non va d‘accordo con la ragione strumentale e calcolante (non con la sana ragione naturale, la quale, nei grandi teologi del Medioevo, non ha mai litigato con la fede), con il bel risultato che, al posto di essa, non resta altro che un troncone mutilato e incomprensibile, un ibrido che non serve a nulla, perché non parla all’anima, più di quanto non dica qualcosa alla ragione.
Uno dei massimi esponenti della filosofia francese nella prima metà del XX secolo, il domenicano Antonin Dalmace Sertillanges (Clermont-Ferrand, 16 novembre 1863-Sallanches, Alta Savoia, 26 luglio 1948), da buon studioso di san Tommaso d’Aquino, aveva perfettamente presente il legame tra fede e ragione, allorché scriveva (da: A. D. Sertillanges, Il pensiero; titolo originale: Notre vie. La pensée, pubblicata nel 1926 dalla Revue des Jeunes; traduzione dal francese di Tarcisio Fornoni, Brescia, La Scuola Editrice, 1955, 1962, pp. 201-205):

L’armonia della libertà e della necessità, nella nostra vita spirituale, basta a tutto, e nella sua generalità, come in quella della nostra obbedienza alla voce interiore; comprende tutti i casi; ma, restando ancora nel campo del pensiero, un’armonia particolare chiede di esser precisata e studiata nelle sue difficoltà: quella della ragione e della fede.[…]
Se l’invisibile chiama e attira la creatura ragionevole, occorre che ciò avvenga sotto gli auspici del’ideale, perché è l’idea ciò che regge ogni  attività cosciente. Dio agirà su di noi per mezzo della fede, come gli assenti per mezzo del ricordo e della speranza, il passato per mezzo della tradizione e l’avvenire per mezzo dell’ideale.
In più, essendo l’avvenire sperato per l’al di là anzitutto ed essenzialmente conoscenza, essendo l’oggetto ne è l’intelligibile ed il soggetto intelligente, le verità di fede che si presentano alla volontà come regole, si presentano allo spirito come ELEMENTI della scienza eterna, della quale noi siamo i discepoli prima ancora di esserne i veggenti.
La fede è “l’argomento dell’invisibile” (Ebr., XI, 1); essa prova ciò che non si può provare, e ci mostra ciò che non si può vedere, essa è la oscura chiarezza d’un astro che si libra al fondo degli spazi; essa appartiene alla conoscenza lontana che aspira a divenire conoscenza vicina; è un pensiero relativo all’altro mondo, che vuol diventare un pensiero IN quest’altro mondo, un pensiero in Dio, ma che già, per anticipazione, si stabilisce nel suo oggetto e vi fa la sua dimora, ciò che faceva dire a san Paolo: “la nostraCONVERSAZIONE, la nostra cittadinanza è nei cieli” (Filipp., III, 20).
Per essere iniziati a un sapere sovrumano p richiesta una disciplina sovrumana, così come per raggiungere uno scopo sovrumano occorre una sovrumana condotta: nella sua parte teorica la fede è l’abbicì del divino sapere, è la guida nel cammino: essa prende l’uomo per mano onde condurlo fuori del tempo.
La natura mista della fede e il doppio carattere del suo contenuto debbono essere chiariti. Il fatto che noi veniamo trascinati in una avventura celeste suppone, oltre alla utilizzazione delle nostre forze, un apporto speciale di Colui che ci invita a vincerci. Noi non ci si supera – lo abbiam detto più volte – se non ci è dato un soccorso. Ci occorre un supplemento di attività spirituale  e, nello stesso tempo, corporale; dovendo poi questa attività scaturire dal di dentro, al posto di una perpetua spinta dall’esterno, ci occorre un supplemento di creazione. Dobbiamo venire ricreati in tutte le nostre attività, e questo è il compito della grazia; dobbiamo venire ricreati soprattutto dal punto di vista del pensiero, e questa è la VIRTÙ, o il DONO, della fede.
Si rimane estasiati davanti al mistero della creazione,  ma la ricreazione spirituale è un mistero ben maggiore, dato che essa viene da Dio considerato nelle sue intimità, mentre l’altra riguarda soltanto le relazioni che Dio ha fuori di sé. Il SOPRANNATURALE, in noi, ha questo significato e anch’esso sarà, dunque, necessariamente, un oggetto di fede, come il Dio intimo e tutto ciò che vi si riferisce.
Per esprimerci più semplicemente, si potrebbe dire: il motore divino, e il mobile umano, l’uno e l’altro misteriosi in se stessi, o nel loro punto dio contatto, devono divenire l’oggetto d’un insegnamento che ce ne informi. La fede è come il lampo che s’accende tra il cielo e la terra, in quanto appartiene a due universi e li rivela entrambi dal lato in cui sono in rapporto. Nella fede c’è l’uomo e c’è Dio, c’è questo mondo e c’è l’altro. Noi subiamo un contatto del cielo che ci rivela poteri che non conoscevamo. La fede risveglia uno sguardo assonnato; essa suscita, in un essere umano, quasi una creatura divina.
Eccoci ormai entrati in un’alleanza che corrisponde alla nuova natura così sbocciata. Uno spazio spirituale è creato: la fede lo percorre e ci pone in esso. Senza farci rinunciare a nulla, se non all’errore e al male, essa ci allontana dal visibile per meglio esaltarci toccando l’invisibile, al quale essa comunica una “sostanza” (Ebr., XI, 1). La fede è come una astrazione, una negligenza relativa, una parziale negazione di ciò che è vicino in favore di ciò che, considerato in se stesso, è più vicino ancora, ma che sembrava lontano. Essa crea in qualche modo per noi gli oggetti divini; poiché Dio esiste forse per me, prima che io ci creda? Se io infatti l’ignoro o lo misconosco, quell’unico Sole lascia la mia anima alla notte eterna.

La fede, dunque, è la scienza dell’invisibile, così come la ragione è la scienza del mondo visibile; ed è chiaro che la fede può includere la ragione, perché l’invisibile include il visibile, così come lo spirituale include il livello materiale dell’esistenza; ma non si dà il contrario: la ragione, di per sé, non potrà mai includere la fede, né il visibile potrà includere l’invisibile. Chi si pone in una prospettiva puramente materialista non potrà mai capirlo: egli riduce il discorso sull’invisibile a una questione di telescopi o microscopi elettronici. Il problema, invece, non è di tipo quantitativo, ma riguarda il soprannaturale. E non è qualcosa di contrario alla ragione, bensì di superiore ad essa…

 
Fede e ragione, binomio irrinunciabile

di

Francesco Lamendola

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