Alcune cose sul Natale – di Luciano Pranzetti
13/12/2016
Nell’imminenza del divino Natale di Gesù, si moltiplicano, da parte del laicismo e dell’agnosticismo giornalistico, televisivo, salottiero e stradaiolo, le discussioni imperniate sulla rappresentazione di questo misterioso evento come di un pasticcio mitico, creato ad arte dalla Chiesa e sostitutivo di altri precedenti miti. Con questo intervento redatto nel 2013, ma tuttora attualissimo, l’amico Luciano Pranzetti già confutava, con argomentazioni chiare e precise, queste falsità.
PD
.
Parlammo, lo scorso anno, in occasione di un incontro parrocchiale, dei Magi e della loro “stella guida”, proponendoci di affermare, con logica metodologia – il rationabile obsequium paolino – la soprannaturalità dell’evento astrale adducendo, a sostegno della nostra convinzione, le argomentazioni e le verità della Tradizione e del sacro Magistero e concludendo che la ragione può e deve, senz’altro, ammettere essersi trattato di un prodigio, operato dalla potenza di Dio, quale annuncio per la nascita del Figlio, ma di non poterne indicare o chiarire la dinamica. Evitammo perciò di soffermarci sul Natale, inteso come evento storico e teologico, poiché avremmo diluito assai il nostro intervento di cui sopra. Provvediamo oggi, anche perché l’argomento va preso singolarmente in quanto gli interrogativi e le interpretazioni che esso suscita esigono che se ne parli e se ne scriva quasi per monografia; ciò che faremo, seppur concisamente. Lo spunto da cui partiamo è una conferenza che un docente di antropologia – di palese tessera catto/gnostica – della Pontificia Università Gregoriana (!) ha tenuto, nello scorso 19 novembre, presso la sala parrocchiale di San Giuseppe, in Santa Marinella (Roma), sul tema: “ Natale indoeuropeo”organizzato da un’Associazione culturale di marca guénoniana.
Che tale convegno fosse stato locato in una Parrocchia è piuttosto grave, ma a parziale discolpa del titolare, va detto che probabilmente egli ignorava il dna del gruppo ma che avrebbe dovuto chiedere, almeno a noi suoi collaboratori, qualche notizia in merito. Ma così vanno gli uomini di Chiesa nel sec. XXI.
Durante lo svolgimento, il docente “gregoriano” ha tracciato una sequenza di conglomerati elementi semantici e simbolici della mitologia classica, egizia, nordica, indoeuropea, nonché delle confessioni islamica, buddista ed induista, trattando in modo particolare il culto di Mithra e collegandone le figure, i tipi e le supposte analogie al Natale cristiano. Un’operazione, è evidente, di forte connotazione erudita, sapienziale e sincretistica, cioè neognostica, condotta con virtuosismo dialettico, affabulatorio e magistrale dominio delle connessioni con cui l’autore ha disegnato una scena culturale in cui il Natale di Gesù, al pari di altri grandi iniziati – quelli descritti dal pasticcione Eduard Schuré – appare come fatto straordinario ma non unico, al massimo una summa di tutti gli altri. Mito o realtà? – si domandò. Tanto l’uno che l’altro – si rispose – nulla pregiudicando qualsiasi ipotesi all’importanza e alla pregnanza innovativa del messaggio di Cristo. Professata, in premessa, la nostra ferma posizione di cattolico profondamente credente nell’unicità del prodigio del Natale di Cristo per niente affatto assimilabile a pagani teoremi e mitologemi, chiedemmo al camuffato docente “pontificio-gregoriano” se considerasse apprezzato e probante il nuovo, ma trascurato indirizzo ermeneutico che fonda l’indagine di studio sulla accertata storicità del Natale e, soprattutto, sull’autenticità del 25 dicembre indicato quale giorno esatto della nascita di Cristo. Ci aspettavamo una maggiore pertinenza nella risposta che, in sintesi, s’è coagulata nella considerazione che un giorno o l’altro, un mese o l’altro, un anno o l’altro non siano così cogenti ai fini dell’accettazione del mistero dell’Incarnazione di Cristo.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e asseverativo certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo. Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si abbia contezza di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico, così come paradossalmente appare anche nel libro dell’emerito Benedetto XVI – L’INFANZIA DI GESU’ – Ed. Rizzoli 2012. Vogliamo, però, preliminarmente attestare, per onestà intellettuale, che la più parte di questo nostro percorso è tratto da un pregevole lavoro del Prof. Michele Loconsole –“Quando è nato Gesù?” – ed. San Paolo 2011 . A lui vada il nostro sentimento di stima e di gratitudine per l’opera apologetica con cui, da anni, egli “bonum certamen certat” (II Tim 4,7), combatte la buona battaglia a gloria del Signore, della Verità, per il bene della sua Santa Eterna Chiesa.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masḥafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C. In essa – come attesta I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi: 24/30 marzo e 24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni piuttosto autorevoli e di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei. Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattatoMAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò, sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus” nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù – come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.
Ciò sia dato “pro veritate”
Prof. Luciano Pranzetti
Il prete di Cremona che non vuole il presepe studi almeno la retorica
13/12/2016
Nell’imminenza del divino Natale di Gesù, si moltiplicano, da parte del laicismo e dell’agnosticismo giornalistico, televisivo, salottiero e stradaiolo, le discussioni imperniate sulla rappresentazione di questo misterioso evento come di un pasticcio mitico, creato ad arte dalla Chiesa e sostitutivo di altri precedenti miti. Con questo intervento redatto nel 2013, ma tuttora attualissimo, l’amico Luciano Pranzetti già confutava, con argomentazioni chiare e precise, queste falsità.
PD
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Parlammo, lo scorso anno, in occasione di un incontro parrocchiale, dei Magi e della loro “stella guida”, proponendoci di affermare, con logica metodologia – il rationabile obsequium paolino – la soprannaturalità dell’evento astrale adducendo, a sostegno della nostra convinzione, le argomentazioni e le verità della Tradizione e del sacro Magistero e concludendo che la ragione può e deve, senz’altro, ammettere essersi trattato di un prodigio, operato dalla potenza di Dio, quale annuncio per la nascita del Figlio, ma di non poterne indicare o chiarire la dinamica. Evitammo perciò di soffermarci sul Natale, inteso come evento storico e teologico, poiché avremmo diluito assai il nostro intervento di cui sopra. Provvediamo oggi, anche perché l’argomento va preso singolarmente in quanto gli interrogativi e le interpretazioni che esso suscita esigono che se ne parli e se ne scriva quasi per monografia; ciò che faremo, seppur concisamente. Lo spunto da cui partiamo è una conferenza che un docente di antropologia – di palese tessera catto/gnostica – della Pontificia Università Gregoriana (!) ha tenuto, nello scorso 19 novembre, presso la sala parrocchiale di San Giuseppe, in Santa Marinella (Roma), sul tema: “ Natale indoeuropeo”organizzato da un’Associazione culturale di marca guénoniana.
Che tale convegno fosse stato locato in una Parrocchia è piuttosto grave, ma a parziale discolpa del titolare, va detto che probabilmente egli ignorava il dna del gruppo ma che avrebbe dovuto chiedere, almeno a noi suoi collaboratori, qualche notizia in merito. Ma così vanno gli uomini di Chiesa nel sec. XXI.
Durante lo svolgimento, il docente “gregoriano” ha tracciato una sequenza di conglomerati elementi semantici e simbolici della mitologia classica, egizia, nordica, indoeuropea, nonché delle confessioni islamica, buddista ed induista, trattando in modo particolare il culto di Mithra e collegandone le figure, i tipi e le supposte analogie al Natale cristiano. Un’operazione, è evidente, di forte connotazione erudita, sapienziale e sincretistica, cioè neognostica, condotta con virtuosismo dialettico, affabulatorio e magistrale dominio delle connessioni con cui l’autore ha disegnato una scena culturale in cui il Natale di Gesù, al pari di altri grandi iniziati – quelli descritti dal pasticcione Eduard Schuré – appare come fatto straordinario ma non unico, al massimo una summa di tutti gli altri. Mito o realtà? – si domandò. Tanto l’uno che l’altro – si rispose – nulla pregiudicando qualsiasi ipotesi all’importanza e alla pregnanza innovativa del messaggio di Cristo. Professata, in premessa, la nostra ferma posizione di cattolico profondamente credente nell’unicità del prodigio del Natale di Cristo per niente affatto assimilabile a pagani teoremi e mitologemi, chiedemmo al camuffato docente “pontificio-gregoriano” se considerasse apprezzato e probante il nuovo, ma trascurato indirizzo ermeneutico che fonda l’indagine di studio sulla accertata storicità del Natale e, soprattutto, sull’autenticità del 25 dicembre indicato quale giorno esatto della nascita di Cristo. Ci aspettavamo una maggiore pertinenza nella risposta che, in sintesi, s’è coagulata nella considerazione che un giorno o l’altro, un mese o l’altro, un anno o l’altro non siano così cogenti ai fini dell’accettazione del mistero dell’Incarnazione di Cristo.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e asseverativo certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo. Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si abbia contezza di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico, così come paradossalmente appare anche nel libro dell’emerito Benedetto XVI – L’INFANZIA DI GESU’ – Ed. Rizzoli 2012. Vogliamo, però, preliminarmente attestare, per onestà intellettuale, che la più parte di questo nostro percorso è tratto da un pregevole lavoro del Prof. Michele Loconsole –“Quando è nato Gesù?” – ed. San Paolo 2011 . A lui vada il nostro sentimento di stima e di gratitudine per l’opera apologetica con cui, da anni, egli “bonum certamen certat” (II Tim 4,7), combatte la buona battaglia a gloria del Signore, della Verità, per il bene della sua Santa Eterna Chiesa.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masḥafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C. In essa – come attesta I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi: 24/30 marzo e 24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni piuttosto autorevoli e di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei. Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattatoMAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò, sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus” nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù – come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.
Ciò sia dato “pro veritate”
Prof. Luciano Pranzetti
PD
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Parlammo, lo scorso anno, in occasione di un incontro parrocchiale, dei Magi e della loro “stella guida”, proponendoci di affermare, con logica metodologia – il rationabile obsequium paolino – la soprannaturalità dell’evento astrale adducendo, a sostegno della nostra convinzione, le argomentazioni e le verità della Tradizione e del sacro Magistero e concludendo che la ragione può e deve, senz’altro, ammettere essersi trattato di un prodigio, operato dalla potenza di Dio, quale annuncio per la nascita del Figlio, ma di non poterne indicare o chiarire la dinamica. Evitammo perciò di soffermarci sul Natale, inteso come evento storico e teologico, poiché avremmo diluito assai il nostro intervento di cui sopra. Provvediamo oggi, anche perché l’argomento va preso singolarmente in quanto gli interrogativi e le interpretazioni che esso suscita esigono che se ne parli e se ne scriva quasi per monografia; ciò che faremo, seppur concisamente. Lo spunto da cui partiamo è una conferenza che un docente di antropologia – di palese tessera catto/gnostica – della Pontificia Università Gregoriana (!) ha tenuto, nello scorso 19 novembre, presso la sala parrocchiale di San Giuseppe, in Santa Marinella (Roma), sul tema: “ Natale indoeuropeo”organizzato da un’Associazione culturale di marca guénoniana.
Che tale convegno fosse stato locato in una Parrocchia è piuttosto grave, ma a parziale discolpa del titolare, va detto che probabilmente egli ignorava il dna del gruppo ma che avrebbe dovuto chiedere, almeno a noi suoi collaboratori, qualche notizia in merito. Ma così vanno gli uomini di Chiesa nel sec. XXI.
Durante lo svolgimento, il docente “gregoriano” ha tracciato una sequenza di conglomerati elementi semantici e simbolici della mitologia classica, egizia, nordica, indoeuropea, nonché delle confessioni islamica, buddista ed induista, trattando in modo particolare il culto di Mithra e collegandone le figure, i tipi e le supposte analogie al Natale cristiano. Un’operazione, è evidente, di forte connotazione erudita, sapienziale e sincretistica, cioè neognostica, condotta con virtuosismo dialettico, affabulatorio e magistrale dominio delle connessioni con cui l’autore ha disegnato una scena culturale in cui il Natale di Gesù, al pari di altri grandi iniziati – quelli descritti dal pasticcione Eduard Schuré – appare come fatto straordinario ma non unico, al massimo una summa di tutti gli altri. Mito o realtà? – si domandò. Tanto l’uno che l’altro – si rispose – nulla pregiudicando qualsiasi ipotesi all’importanza e alla pregnanza innovativa del messaggio di Cristo. Professata, in premessa, la nostra ferma posizione di cattolico profondamente credente nell’unicità del prodigio del Natale di Cristo per niente affatto assimilabile a pagani teoremi e mitologemi, chiedemmo al camuffato docente “pontificio-gregoriano” se considerasse apprezzato e probante il nuovo, ma trascurato indirizzo ermeneutico che fonda l’indagine di studio sulla accertata storicità del Natale e, soprattutto, sull’autenticità del 25 dicembre indicato quale giorno esatto della nascita di Cristo. Ci aspettavamo una maggiore pertinenza nella risposta che, in sintesi, s’è coagulata nella considerazione che un giorno o l’altro, un mese o l’altro, un anno o l’altro non siano così cogenti ai fini dell’accettazione del mistero dell’Incarnazione di Cristo.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e asseverativo certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo. Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si abbia contezza di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico, così come paradossalmente appare anche nel libro dell’emerito Benedetto XVI – L’INFANZIA DI GESU’ – Ed. Rizzoli 2012. Vogliamo, però, preliminarmente attestare, per onestà intellettuale, che la più parte di questo nostro percorso è tratto da un pregevole lavoro del Prof. Michele Loconsole –“Quando è nato Gesù?” – ed. San Paolo 2011 . A lui vada il nostro sentimento di stima e di gratitudine per l’opera apologetica con cui, da anni, egli “bonum certamen certat” (II Tim 4,7), combatte la buona battaglia a gloria del Signore, della Verità, per il bene della sua Santa Eterna Chiesa.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masḥafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C. In essa – come attesta I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi: 24/30 marzo e 24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni piuttosto autorevoli e di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei. Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattatoMAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò, sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus” nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù – come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.
Ciò sia dato “pro veritate”
Prof. Luciano Pranzetti
Più che la decisione presa per rispetto delle altre religioni, scandalizzano le argomentazioni addotte. Ma il cappellano la Bibbia l'ha mai letta?
Urge corso di retorica per preti. Tutti si sono
scandalizzati per la decisione del cappellano del cimitero di Cremona, che
quest'anno non ha voluto allestire il tradizionale presepio all'ingresso del
camposanto. Io mi sono scandalizzato piuttosto per le sue argomentazioni
virgolettate da agenzie nazionali e quotidiani locali: “Devo e voglio
rispettare la sensibilità di chi non la pensa come noi, ovviamente dal punto di
vista religioso. Non voglio entrare in dinamiche politiche”. Dinamiche
politiche? Punto di vista religioso? Sensibilità di chi non la pensa come noi?
Mi domando a cosa serva un prete che parla come la delegazione di un
microgruppo parlamentare alle consultazioni; mi domando chi si farà convertire
da un prete che parla come un dialogo riempitivo in una fiction su Rai1.
Questi virgolettati mi persuadono che al cappellano manchi
la conoscenza di interi brani del fondamentale testo di retorica per religiosi:
non vuole urtare la sensibilità di musulmani e atei perché non ha letto la
parte in cui è scritto “Noi predichiamo Cristo, scandalo per i giudei e
stoltezza per i pagani” (1 Corinzi 1, 23); vuole garantire concordia fra le
fedi perché non ha letto la parte in cui Gesù minaccia “Non crediate che io sia
venuto a portare pace sulla terra” (Matteo 10, 34). Se fossi vescovo di
Cremona, esorterei il cappellano a passare le feste a rileggere la Bibbia fino
al momento in cui trova un precedente per le sue parole: scoprirebbe che
“dinamiche” non appare mai, “punto di vista” nemmeno, e neanche “sensibilità”. di Antonio Gurrado
IN DIFESA DEL VESCOVO DI SULMONA. E DELLA LIBERTÀ DI PAROLA, OPINIONE ED ESPRESSIONE DI TUTTI.
Raccogliamo e rilanciamo la denuncia di Osservatorio Genderperché ancora una volta quella che è vissuta da alcuni, compresa la maggioranza dei mass media, coma una campagna per i diritti di alcuni, corre il rischio di trasformarsi in una reale limitazione del diritto primordiale di tutti, cioè quello di parola e di opinione.
E’ il caso del vescovo di Sulmona-Valva, mons. Angelo Spina, che ha concesso un’intervista a “La Fede Quotidiana”, in cui faceva sue con altre parole le opinioni espresse dal Pontefice sulla cultura gender.
Ecco le sue parole:
“Direi che i problemi sono due e interagiscono. Politica e clima culturale ostile remano contro la famiglia naturale fatta da uomo e donna. Partiamo dalla politica. Penso che non le attribuisca la cura che merita. In quanto al clima culturale è negativo e spesso addirittura ostile”.
E poi ha parlato del clima culturale e di stampa odierno: “Oggi il mondo è impregnato da una ideologia che spaccia per diritti quelli che in realtà sono arbitrio. La stessa politica in Italia ne ha dato prova correndo per approvare la legge sulle unioni civili che certamente non erano la priorità, ma sono figlie di potenti e ricche lobby. Io non discuto i diritti individuali, ma non è possibile accostare come è stato fatto, la famiglia naturale composta da uomo e donna aperti alla vita con altri tipi di unione. Spiacevolmente anche la stampa e i media spesso danno una pessima informazione, orientata a far credere che tutto sia lecito e permesso nel nome di una falsa libertà”.
Per queste opinioni il vescovo è stato attaccato dalla parlamentare PD Monica Cirinnà che sulla sua pagina di FB ha commentato:“Giorni fa ho fatto due assemblee nella sua diocesi, sale gremite da chi vuole il rispetto dell’art. 3 Cost., è uguaglianza non libero arbitrio”.
Umilmente ci permettiamo di sottolineare che “arbitrio” ha una valenza ben diversa da “libero arbitrio”. Forse qualche monsignore dei piani alti della Cei potrebbe spiegarlo all’on. Cirinnà, visti i rapporti cordiali con essa intrattenuti.
Nota l’articolista di Osservatorio Gender, con una certa ironia:“L’onorevole Cirinnà, che si vanta di aver riempito due sale in Molise per fare propaganda riguardo la legge da lei voluta sulle “unioni civili”, farebbe bene a sapere e a raccontare anche che l’intera provincia di Campobasso detiene il primato nazionale di non aver chiesto nemmeno una unione da quando la legge è entrata in vigore”.
Mons. Spina è molto amato, in zona, e i fedeli della concattedrale di San Bartolomeo a Bojano hanno deciso di difenderlo sui social, lanciando questo messaggio: “Il Vescovo di Sulmona-Valva, mons. Angelo Spina sta subendo, in queste ore, un feroce attacco mediatico ad opera di UAAR, truppe cammellate LGBT e Cirinná solo per aver ribadito il valore della famiglia naturale e tradizionale! Sosteniamolo!”.
E, aggiungiamo noi, non perché è vescovo o simpatico, ma indipendentemente da quello che ha detto per difendere la libertà di parola e di opinione. Che la dittatura del pensiero unico sta pericolosamente restringendo nel mondo occidentale. E anche da noi.
Marco Tosatti
Alcune cose sul Natale – di Luciano Pranzetti
13/12/2016
Nell’imminenza del divino Natale di Gesù, si moltiplicano, da parte del laicismo e dell’agnosticismo giornalistico, televisivo, salottiero e stradaiolo, le discussioni imperniate sulla rappresentazione di questo misterioso evento come di un pasticcio mitico, creato ad arte dalla Chiesa e sostitutivo di altri precedenti miti. Con questo intervento redatto nel 2013, ma tuttora attualissimo, l’amico Luciano Pranzetti già confutava, con argomentazioni chiare e precise, queste falsità.
PD
.
Parlammo, lo scorso anno, in occasione di un incontro parrocchiale, dei Magi e della loro “stella guida”, proponendoci di affermare, con logica metodologia – il rationabile obsequium paolino – la soprannaturalità dell’evento astrale adducendo, a sostegno della nostra convinzione, le argomentazioni e le verità della Tradizione e del sacro Magistero e concludendo che la ragione può e deve, senz’altro, ammettere essersi trattato di un prodigio, operato dalla potenza di Dio, quale annuncio per la nascita del Figlio, ma di non poterne indicare o chiarire la dinamica. Evitammo perciò di soffermarci sul Natale, inteso come evento storico e teologico, poiché avremmo diluito assai il nostro intervento di cui sopra. Provvediamo oggi, anche perché l’argomento va preso singolarmente in quanto gli interrogativi e le interpretazioni che esso suscita esigono che se ne parli e se ne scriva quasi per monografia; ciò che faremo, seppur concisamente. Lo spunto da cui partiamo è una conferenza che un docente di antropologia – di palese tessera catto/gnostica – della Pontificia Università Gregoriana (!) ha tenuto, nello scorso 19 novembre, presso la sala parrocchiale di San Giuseppe, in Santa Marinella (Roma), sul tema: “ Natale indoeuropeo”organizzato da un’Associazione culturale di marca guénoniana.
Che tale convegno fosse stato locato in una Parrocchia è piuttosto grave, ma a parziale discolpa del titolare, va detto che probabilmente egli ignorava il dna del gruppo ma che avrebbe dovuto chiedere, almeno a noi suoi collaboratori, qualche notizia in merito. Ma così vanno gli uomini di Chiesa nel sec. XXI.
Durante lo svolgimento, il docente “gregoriano” ha tracciato una sequenza di conglomerati elementi semantici e simbolici della mitologia classica, egizia, nordica, indoeuropea, nonché delle confessioni islamica, buddista ed induista, trattando in modo particolare il culto di Mithra e collegandone le figure, i tipi e le supposte analogie al Natale cristiano. Un’operazione, è evidente, di forte connotazione erudita, sapienziale e sincretistica, cioè neognostica, condotta con virtuosismo dialettico, affabulatorio e magistrale dominio delle connessioni con cui l’autore ha disegnato una scena culturale in cui il Natale di Gesù, al pari di altri grandi iniziati – quelli descritti dal pasticcione Eduard Schuré – appare come fatto straordinario ma non unico, al massimo una summa di tutti gli altri. Mito o realtà? – si domandò. Tanto l’uno che l’altro – si rispose – nulla pregiudicando qualsiasi ipotesi all’importanza e alla pregnanza innovativa del messaggio di Cristo. Professata, in premessa, la nostra ferma posizione di cattolico profondamente credente nell’unicità del prodigio del Natale di Cristo per niente affatto assimilabile a pagani teoremi e mitologemi, chiedemmo al camuffato docente “pontificio-gregoriano” se considerasse apprezzato e probante il nuovo, ma trascurato indirizzo ermeneutico che fonda l’indagine di studio sulla accertata storicità del Natale e, soprattutto, sull’autenticità del 25 dicembre indicato quale giorno esatto della nascita di Cristo. Ci aspettavamo una maggiore pertinenza nella risposta che, in sintesi, s’è coagulata nella considerazione che un giorno o l’altro, un mese o l’altro, un anno o l’altro non siano così cogenti ai fini dell’accettazione del mistero dell’Incarnazione di Cristo.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e asseverativo certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo. Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si abbia contezza di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico, così come paradossalmente appare anche nel libro dell’emerito Benedetto XVI – L’INFANZIA DI GESU’ – Ed. Rizzoli 2012. Vogliamo, però, preliminarmente attestare, per onestà intellettuale, che la più parte di questo nostro percorso è tratto da un pregevole lavoro del Prof. Michele Loconsole –“Quando è nato Gesù?” – ed. San Paolo 2011 . A lui vada il nostro sentimento di stima e di gratitudine per l’opera apologetica con cui, da anni, egli “bonum certamen certat” (II Tim 4,7), combatte la buona battaglia a gloria del Signore, della Verità, per il bene della sua Santa Eterna Chiesa.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masḥafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C. In essa – come attesta I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi: 24/30 marzo e 24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni piuttosto autorevoli e di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei. Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattatoMAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò, sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus” nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù – come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.
Ciò sia dato “pro veritate”
Prof. Luciano Pranzetti
PD
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Parlammo, lo scorso anno, in occasione di un incontro parrocchiale, dei Magi e della loro “stella guida”, proponendoci di affermare, con logica metodologia – il rationabile obsequium paolino – la soprannaturalità dell’evento astrale adducendo, a sostegno della nostra convinzione, le argomentazioni e le verità della Tradizione e del sacro Magistero e concludendo che la ragione può e deve, senz’altro, ammettere essersi trattato di un prodigio, operato dalla potenza di Dio, quale annuncio per la nascita del Figlio, ma di non poterne indicare o chiarire la dinamica. Evitammo perciò di soffermarci sul Natale, inteso come evento storico e teologico, poiché avremmo diluito assai il nostro intervento di cui sopra. Provvediamo oggi, anche perché l’argomento va preso singolarmente in quanto gli interrogativi e le interpretazioni che esso suscita esigono che se ne parli e se ne scriva quasi per monografia; ciò che faremo, seppur concisamente. Lo spunto da cui partiamo è una conferenza che un docente di antropologia – di palese tessera catto/gnostica – della Pontificia Università Gregoriana (!) ha tenuto, nello scorso 19 novembre, presso la sala parrocchiale di San Giuseppe, in Santa Marinella (Roma), sul tema: “ Natale indoeuropeo”organizzato da un’Associazione culturale di marca guénoniana.
Che tale convegno fosse stato locato in una Parrocchia è piuttosto grave, ma a parziale discolpa del titolare, va detto che probabilmente egli ignorava il dna del gruppo ma che avrebbe dovuto chiedere, almeno a noi suoi collaboratori, qualche notizia in merito. Ma così vanno gli uomini di Chiesa nel sec. XXI.
Durante lo svolgimento, il docente “gregoriano” ha tracciato una sequenza di conglomerati elementi semantici e simbolici della mitologia classica, egizia, nordica, indoeuropea, nonché delle confessioni islamica, buddista ed induista, trattando in modo particolare il culto di Mithra e collegandone le figure, i tipi e le supposte analogie al Natale cristiano. Un’operazione, è evidente, di forte connotazione erudita, sapienziale e sincretistica, cioè neognostica, condotta con virtuosismo dialettico, affabulatorio e magistrale dominio delle connessioni con cui l’autore ha disegnato una scena culturale in cui il Natale di Gesù, al pari di altri grandi iniziati – quelli descritti dal pasticcione Eduard Schuré – appare come fatto straordinario ma non unico, al massimo una summa di tutti gli altri. Mito o realtà? – si domandò. Tanto l’uno che l’altro – si rispose – nulla pregiudicando qualsiasi ipotesi all’importanza e alla pregnanza innovativa del messaggio di Cristo. Professata, in premessa, la nostra ferma posizione di cattolico profondamente credente nell’unicità del prodigio del Natale di Cristo per niente affatto assimilabile a pagani teoremi e mitologemi, chiedemmo al camuffato docente “pontificio-gregoriano” se considerasse apprezzato e probante il nuovo, ma trascurato indirizzo ermeneutico che fonda l’indagine di studio sulla accertata storicità del Natale e, soprattutto, sull’autenticità del 25 dicembre indicato quale giorno esatto della nascita di Cristo. Ci aspettavamo una maggiore pertinenza nella risposta che, in sintesi, s’è coagulata nella considerazione che un giorno o l’altro, un mese o l’altro, un anno o l’altro non siano così cogenti ai fini dell’accettazione del mistero dell’Incarnazione di Cristo.
Crediamo, però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa tradizione il sigillo probativo e asseverativo certificante un evento che viene, purtroppo anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo. Per questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si abbia contezza di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico /scientifico, così come paradossalmente appare anche nel libro dell’emerito Benedetto XVI – L’INFANZIA DI GESU’ – Ed. Rizzoli 2012. Vogliamo, però, preliminarmente attestare, per onestà intellettuale, che la più parte di questo nostro percorso è tratto da un pregevole lavoro del Prof. Michele Loconsole –“Quando è nato Gesù?” – ed. San Paolo 2011 . A lui vada il nostro sentimento di stima e di gratitudine per l’opera apologetica con cui, da anni, egli “bonum certamen certat” (II Tim 4,7), combatte la buona battaglia a gloria del Signore, della Verità, per il bene della sua Santa Eterna Chiesa.
I fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici appartenuti alla comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone i rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masḥafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C. In essa – come attesta I Cronache 24,10 – è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Questo rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi: 24/30 marzo e 24/30 settembre. I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre, e sono attestazioni piuttosto autorevoli e di accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Torniamo, però, al Libro dei Giubilei. Esso conferma la tradizione della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25) il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Ora tale elemento ci consente di avanzare altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente quelle riferite ai pastori e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che non possibile che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole. Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo rabbinico, nel trattatoMAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che, al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò, sostare all’esterno e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia delle greggi.
Ora, siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può essere stato espletato nel periodo fine marzo- primi di aprile, ma in fine settembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
Un’ultima considerazione che reputiamo importantissima poiché tende a rimettere i termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol invictus” nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto precedente.
Ma scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano (214 – 275) soltanto nel 274, il quale proprio il 25 dicembre dello stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus. La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa, nell’Urbe come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui, spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù – come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) – ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e la sua più importante manifestazione.
Ciò sia dato “pro veritate”
Prof. Luciano Pranzetti
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