CRISTIANESIMO E' UN UMANESIMO?
Si osserva sempre più spesso, nella teologia contemporanea, la tendenza a relativizzare i contenuti specifici della religione cristiana, a tratteggiare come semplici ipotesi quelle che sono sempre state le verità della fede
di Francesco Lamendola
Il cristianesimo è forse un umanesimo? Si osserva sempre più spesso, nella teologia contemporanea, la tendenza a relativizzare i contenuti specifici della religione cristiana, a tratteggiare come semplici ipotesi quelle che sono sempre state le verità della fede, e a ridimensionare progressivamente gli spazi del soprannaturale, del divino, per calare il Vangelo in uno spazio immanente, anzi, immanentistico, nel quale, alla fine, ciò che rimane non è la Rivelazione di Dio all’uomo, ma ciò che l’uomo pensa debba essere Dio; e, alla fine, un Uomo che vuol mettersi al posto di dio.
In fondo, si tratta di una evoluzione coerente con la cosiddetta “svolta antropologica” della quale vanno tanto fieri il fior fiore di teologi cattolici, a partire dagli anni del Concilio Vaticano II. Prima, non si era mai sentita dire una cosa del genere: che la religione cristiana debba imperniarsi sull’uomo, e non su Dio. Ma tant’è: così come, a partire da Kant, la filosofia ha messo in naftalina la metafisica, e ha deciso che tutto quel si può fare è studiare il reale quale l’uomo lo concepisce e lo può percepire, così anche la teologia, e sia pure con un certo ritardo, si è allineata sulle posizioni soggettivistiche e immanentistiche implicite in questa cosiddetta “rivoluzione copernicana”, e, invece di pensare l’Essere, si è concentrata su ciò che, dell’Essere, pensa l’uomo ed esperimenta l’uomo. Via, pertanto, ogni timore e tremore; via la soggezione filiale e il senso di piccolezza dell’uomo davanti a Dio; via, da ultimo, o quasi, anche il senso del peccato, della morte, del giudizio, dell’inferno e del paradiso: tanto è vero che, di queste cose, i teologi odierni parlano sempre di meno, e sempre meno volentieri, come se ne avessero fastidio, o come se provassero imbarazzo. Peccato, giudizio, infermo e paradiso? Eh, via, queste cose andavano bene per i teologi della vecchia scuola; ma ora non più, giammai: i nuovi teologi, i Bianchi, i Mancuso, hanno ben altre cose delle quali occuparsi: volano molto più in alto, loro, di simili piccolezze, di simili quisquilie. E poi, non è forse vero che, se pur l’uomo è peccatore (ma che non lo si dica troppo in giro, potrebbe deprimersi e smarrire la legittima fiducia in se stesso), non c’è forse l’infinita misericordia di Dio, pronta a venirgli incontro per rimediare a qualsiasi errore, a mettere una pezza su ogni sbaglio, magari anche senza bisogno di pentimento, perché Dio non bada a simili cosucce formali, va dritto all’anima delle persone e intuisce il loro desiderio d’esser perdonate, ancor prima che provino l’ormai obsoleto repertorio di rimorso, pentimento, desiderio d’espiazione? E se non giudica Lui, chi siamo noi per giudicare?
Comunque, tornando alla domanda iniziale, è interessante vedere di quali contorsioni è capace la teologia contemporanea, pur di trovare la quadratura del cerchio: il magico punto d’incontro fra cristianesimo e umanesimo, cioè tra cristianesimo e modernità. È come se molti teologi cercassero di arrampicarsi sugli specchi per trovare la maniera di farsi perdonare il loro cattolicesimo, peraltro tutto da verificare, e assumere qualche funzione utile nell’ambito della nuova cultura, laicista, materialista e post-cristiana, magari utilizzando parte della loro tradizione per rivendicare ad essa una qualche benemerenza sociale. Va notato che non vogliono più neanche definirsi “cattolici”, perché sembrerebbe loro di scendere un gradino, o parecchi gradini, giù per la scala di quella rispettabilità moderna e “scientifica”, da essi risalita con tanta fatica e con tanto impegno, dalla cui sommità si guarda al cattolicesimo come ad una realtà irrimediabilmente obsoleta e tramontata, e ai teologi cattolici come a dei residuati del passato, patetiche figure appartenenti a un provincialismo culturale destinato a una rapida estinzione, se non addirittura già estinto del tutto.
Riportiamo, a titolo di esempio, alcune riflessioni svolte dal teologo Carmelo Dotolo nel suo saggio L’alterità del Vangelo, profezia di senso in un mondo che cambia (in: Annunciare il Vangelo oggi: è possibile?, a cura di Ugo Sartorio, Padova, Edizioni del Messaggero, 2004, pp. 64-68):
Sottesa alla neutralizzazione della tradizione c’è l’ipotesi che la modernità (e per certi versi la postmodernità) abbia in qualche modo svuotato lo specifico del cristianesimo della sua pertinenza e forza d’attrazione. La contemporaneità, allora, non è anti-cristiana, perché non si accanisce nella demolizione dell’architettura del progetto cristiano, come probabilmente accadeva nel dibattito acceso con i teoremi dell’ateismo. È, piuttosto, post-cristiana, nel senso che si è appropriata di ideali e valori evangelici, distaccando il messaggio dalla sua ispirazione di fondo, quella cristologica. Sembrerebbe questo l’esito più morbido e imprevisto del processo di de-secolarizzazione, non distante dalla tesi avanzata dal filosofo H. Blumenberg (“La legittimità dell’età moderna”, Marietti, Genova, 1892) che, nel delineare i tratti della emancipazione dell’uomo dal cristianesimo, riconosceva a questa l’abilità nell’aver occupato, più che trasformato, i contenuti teologici trasfigurandoli in lineamenti culturali. Non una appropriazione in continuità con i criteri valutativi della tradizione cristiana, ma una ricollocazione dei presupposti che, per quanto prossimi alla novità della rivelazione cristiana, si erano impaludati nelle aree di un teismo sterile. […]
Insomma, il cristianesimo avrebbe già assolto al suo compito, anche se ha lasciato alcune tracce che urtano la convinzione neopagana di un mondo e una vita che non abbisognano di progetti d salvezza o di utopie messianiche, per il fatto che l‘uomo nella sua finitudine può trovare energie spirituali sufficienti per far fronte ai disagi della civiltà. Ma potrebbe anche continuare a rendere il suo servizio all’uomo consegnato alla propria libertà se svestisse i panni di un malcelato dogmatismo che si riduce a spiegazione del mondo e a contratto utilitaristico col divino, attenuando in questo modo la sua scandalosità e la critica escatologica. Anzi, al cristianesimo spetterebbe giocarsi le carte della sua utilità sociale, a motivo dei suoi contenuti etici relativi a modelli comportamentali attenti ai problemi della vita e contro qualsiasi forma di implosione spiritualistica della fede.
Paradossalmente, un cristianesimo così disponibile non rischierebbe un tramonto ineluttabile, perché darebbe voce e forma all’esigenza dell’umanità di una trascendenza dentro il bisogno della storia, di un sacro che è nell’uomo, così come attesterebbe la parabola storica del cristianesimo dell’umanizzazione del divino. Il “paradosso supremo dell’umanesimo dell’uomo-Dio” (L. Ferry, “Al posto di Dio”, Frassinelli, Piacenza, 1987, p. 187), non ha nulla di sacrilego né di idolatrico; esplicita solo l’identificazione tra cristianesimo e umanesimo, nella cui convergenza abita la questione del senso. Declinato così, il cristianesimo potrebbe anche stemperare la responsabilità attribuitagli relativamente alla incrinatura nichilistica del mondo e della storia. La questione è senza dubbio complessa, così come mostrano le letture che collegano il processo di secolarizzazione a quello del nichilismo, la dinamica della desacralizzazione con lo svuotamento dei valori e degli ideali cristiani. Eppure, nell’oblio della significatività della rivelazione cristiana, pesa l’evento della morte di Cristo, del suo abbandono da parte di Dio che sigla definitivamente la prospettiva dell’assenza di Dio. “Dio che lascia essere il mondo fino a morirvi” (S. Givone, “Storia del nulla”, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 236) è il motivo dello sgomento dell’uomo; di più, è alla base del nulla come apertura, spazio nel quale si è ritirato, assenza che non può essere riempita se non al passare del divino e dai cenni che invia. Il cristianesimo, dunque, sembra assistere inerme e, forse, inconsapevole al suo svuotamento di senso, perché incapace di proporre un’alternativa seria alla radice secolarizzante del nichilismo; né un tentativo di risacralizzazione gioverebbe alla sua causa, perché l’annuncio cristiano è per la realizzazione dell’uomo e non per una sua destinazione a una realtà che lo separa dalla vocazione alla quale è chiamato. In tal senso, è difficile non rinvenire nel nichilismo contemporaneo un’interpretazione estrema della secolarizzazione, il cui approdo sta nella chiusura ad ogni assoluto e in un finitismo che si accontenta di prendere atto della finitezza inoltrepassabile dell’esistenza. “Se è vero, infatti, che il nulla come principio del mondo o la morte di Dio nel mondo sono principi che hanno radici cristiane, un’interpretazione del cristianesimo che assuma in modo esclusivo questo principio è una negazione del cristianesimo stesso, e allora i tentativi di conciliazione possono avere soltanto una giustificazione biografica o estetica” (C. Cianco, “Cristianesimo e nichilismo”, in “Filosofia e Teologia” 17, 2003, p. 442). Di conseguenza, altro è vivere l’evento della morte di Dio come appello a una ricerca ulteriore, altro è confinarsi nella logica di una impossibilità che nega qualsiasi trascendenza come contrappunto dell’umanità-troppo umana dell’uomo.
Le riflessioni svolte da questo teologo sembrano assumere come punto di partenza l’assunto che il cristianesimo, piuttosto che rassegnarsi a scomparire in quanto visone del mondo specificamente legata al Vangelo di Gesù Cristo, deve trovare qualche maniera per sopravvivere, riciclandosi in maniera tale da ottenere, in un modo o nell’altro, una sorta di benestare, sia pure obliquo e indiretto, da parte della cultura moderna. In pratica, pare che debba farsi perdonare il peccatum originale di essere l’annuncio del regno di Dio, fatto da Gesù Cristo, e sforzarsi di rendersi utile nella temperie del mondo moderno, ove il suo messaggio, che, di per sé, risulta completamente inattuale, è tuttavia suscettibile, forse, di venire riattualizzato, in chiave antropologica, o sociologica, o morale. A queste condizioni, in questa prospettiva ed entro questi limiti, gli verrà forse concesso di sopravvivere, sia pure sotto spoglie rifatte e in incognito, come il lievito da cui si impasterà il pane della futura Weltanschauung post-moderna.
Per prima cosa, si afferma che la contemporaneità non è (più) anticristiana, perché, bontà sua, ha smesso di accanirsi contro il cristianesimo: ma questo per la buona ragione che lo ritiene morto e defunto. In compenso, si è appropriata di temi e valori cristiani, distaccandoli, però, dalla loro ispirazione originaria, e incorporandoli nei propri valori e contenuti: vale a dire, “occupando” la teologia cristiana e trasformandola in cultura laicista e irreligiosa. E ciò, dice Hans Blumenberg, filosofo che propugna una sorta di storicismo fenomenologico, è una operazione non solo legittima, ma nobile, perché salva il cristianesimo stesso, o ciò che della sua esperienza sopravvive, dal pericolo di impaludarsi in un teismo sterile! Eh, come sono buoni questi teologi post-cristiani, questi Blumenberg; e come sono generosi, nel concedere all’eredità cristiana di sopravvivere, divenendo funzionale alla cultura contemporanea, ateista e immanentista. Vien quasi da commuoversi davanti a tanta delicatezza e magnanimità.
Del resto, delle due, l’una: o il cristianesimo si rassegna a scomparire senza lasciar traccia, perché il tempo di Dio è finito da un pezzo, oppure accetta di sopravvivere, ma nelle forme che la cultura post-moderna stabilisce per esso: e cioè se accetta di continuare a rendere il suo servizio all’uomo, svestendo i panni di un malcelato dogmatismo che si riduce a spiegazione del mondo e a contratto utilitaristico col divino;e così attenua la sua carica di “scandalo” per la cultura contemporanea. Anzi, potrebbe perfino giocarsi le carte della sua utilità sociale, a motivo dei suoi contenuti etici relativi a modelli comportamentali attenti ai problemi della vita e contro qualsiasi forma di implosione spiritualistica della fede. In altre parole: se accetta di non essere più un pensiero religioso; se accetta di abiurare da se stesso, di rinnegare la sua pretesa di trascendenza, per non parlare dei suoi contenuti teologici specifici: la Trinità, l’Incarnazione, la divina missione di Gesù, la resurrezione dai morti – ebbene, a tali condizioni potrebbe svolgere ancora una funzione utile, dato che la sua morale è attenta ai problemi della vita…
Un cristianesimo cosiffatto potrebbe quindi sopravvivere, diventando, beninteso, una divinizzazione dell’uomo, una esaltazione del sacro che è in lui, e una espressione della “esigenza” di trascendenza immanente alla storia, con buona pace dell’ossimoro e della contraddittorietà logica di un simile concetto (chissà perché, quando si sente parlare di esigenze scatta un campanello d’allarme: l’esigenza è solo un bisogno artificiale spacciato per autentico). Insomma, il cristianesimo avrebbe l’onore di sopravvivere se, da religione del Dio che si fa uomo, per amore degli uomini, accettasse di buon grado di fornire una base etica al culto dell’Uomo che vuol farsi Dio per amore di se stesso. Ma perché dovrebbe accettare un simile destino, una simile forzatura, un smile capovolgimento? Semplice: per attenuare e, forse, farsi perdonarela responsabilità attribuitagli relativamente alla incrinatura nichilistica del mondo e della storia. E perché il nichilismo dovrebbe gravare sulla coscienza del cristianesimo? Non si sa; a meno che la ragione sia questa: perché il cristianesimo ha provocato, come reazione contro di sé, il nichilismo; e dunque, indirettamente, il nichilismo sarebbe una creazione del cristianesimo stesso, in quanto espressione di ciò che la cultura moderna ha rifiutato, senza però approdare ad alcuna verità alternativa, anzi, piombando nel relativismo radicale. Strano modo di ragionare: è come dire che la vittima di un assassino maniaco deve ritenersi responsabile del delitto del suo carnefice, perché, esistendo, lo ha indotto in tentazione. Non vediamo, però, in quale altra maniera si potrebbe addossare al cristianesimo la responsabilità della deriva nichilista del mondo moderno.
A parte ciò, nel ragionamento di Sergio Givone c’è tutto il corto circuito di una filosofia moderna presuntuosa e autoreferenziale, che pretende di giudicare tutto e tutti, guardandoli dall’alto in basso, ma senza accettare di farsi giudicare da alcuno; perfetta espressione, a sua volta, di quella cultura progressista, così forte in certe aree italiane, come la Toscana (Givone, piemontese, nel 2012 è stato assessore alla cultura nel comune “rosso” di Firenze), e attorno a un giornale come La Repubblica (del quale è collaboratore), ma così povera di sostanza speculativa, anche perché totalmente refrattaria a misurarsi con i fatti e con le cose e così assuefatta, invece, a muoversi quasi in regime protezionistico (in senso, appunto, intellettuale), con tutte le garanzie e le protezioni del caso, al punto da non dover mai fare i conti con i propri fallimenti, e da avere abbastanza faccia tosta da puntare sempre il dito contro qualcun altro, anche se ha gli armadi pieni degli scheletri delle ideologie fallite, nelle quali ha strenuamente creduto e rispetto alle quali non ha mai saputo fare uno straccio di autocritica. Che cosa significa, per esempio, che Dio lascia essere il mondo fino a morirvi, per poi trarne la “dimostrazione” che Dio è assente, avendo lasciato Gesù morire sulla croce? Chi dice cose del genere, non vuol accettare il cristianesimo per quello che è, ma pretende che esso sia quel che non è: non accetta che Gesù Cristo si sia offerto volontariamente alla morte di croce, né che quel sacrificio sia necessario per la redenzione dell’umanità, e, pertanto, che in esso sia racchiuso tutto il significato della vita di Gesù, nonché della sua Incarnazione. Certo, ciascuno è libero d’interpretare il Vangelo come gli pare: non dovrebbe però dare per scontato che l’interpretazione cristiana, ossia quella dei diretti interessati, conti meno di zero a paragone della sua, che ne è il totale ribaltamento. E poi, che diavolo significa affermare che la morte di Cristo sulla croce è alla base del nulla come apertura, spazio nel quale si è ritirato, assenza che non può essere riempita se non al passare del divino e dai cenni che invia? Belle frasi, suggestive, altisonanti: ma che significano? Più che filosofia, sembra letteratura – e di quella dannunziana, per giunta; che certo piacerà a molti, ma non a tutti. E ancora: chi lo dice che il cristianesimo non ha più nulla da proporre agli uomini e che, forse, non possiede neppure la consapevolezza della propria crisi e della propria impotenza, perché incapace di proporre un’alternativa seria alla radice secolarizzante del nichilismo? L’alternativa ce l’ha, eccome; che poi possa non convincere o non essere condivisa da tutti, questo è un altro discorso. Infine: che vuol dire chel’annuncio cristiano è per la realizzazione dell’uomo e non per una sua destinazione a una realtà che lo separa dalla vocazione alla quale è chiamato? Qui si dà per scontato che la realizzazione dell’uomo sia nel mondo, e che la sua vocazione sia mondana; ma questo non è cristianesimo: questa è un’altra cosa; è ideologia progressista, appunto. Come sono noiosi, questi filosofi progressisti che non si stancano mai, dopo duemila anni, di voler arruolare Gesù Cristo nelle gloriose brigate della rivoluzione, e non si fanno una ragione che il regno di Cristo non appartenga a questo mondo! Qui siamo in difetto di onestà intellettuale, puramente e semplicemente.
Nemmeno la tesi del filosofo Claudio Ciancio ci sembra convincente. Egli parte da un assunto che non si prende la briga di dimostrare:che il nulla come principio del mondo o la morte di Dio nel mondo sono principi che hanno radici cristiane; accetta, cioè, il punto di vista di chi addossa al cristianesimo la responsabilità di aver generato il nichilismo. Poi contrattacca: non si può assumere questo principio come esclusivo, perché, così facendo, si nega il cristianesimo. Altra concessione indebita ai critici del cristianesimo: prende per buona la teologia della morte di Dio: teologia progressista e cattiva teologia, come abbiamo sostenuto in numerosi scritti. E nuovo contrattacco: però anche dalla morte di Dio può venire qualcosa di buono, come l’appello a una ricerca ulteriore. Ma l’evento della morte di Dio, come lui lo definisce, è davvero tale, o è l’opinione di certi filosofi?
In fondo, è passato più d’un secolo da quando Zarathustra gridava ai quattro venti la morte di Dio; e intanto la filosofia moderna, materialista e ateista, ha saputo elaborare qualcosa di meglio del nulla?
Il cristianesimo è un umanesimo?
diFrancesco Lamendola
MODERNISMO, SCIENZA E FEDE
Il nodo della questione modernista: quale rapporto fra scienza e fede? In cosa consiste lo spirito modernista, per poter essere in grado di riconoscerlo e distinguerlo da una legittima curiosità scientifica
di Francesco Lamendola
Il modernismo cattolico è stato un fenomeno complesso e molto articolato, sul quale è stato detto molto. Non intendiamo ripetere cose già note, né ribadire il nostro personale giudizio nettamene negativo, non solo quanto agli esiti sul piano teologico, disastrosi per la dottrina e per la fede stessa, ma nelle stesse premesse filologiche, critiche e storiche dalle quali prese le mosse, in maniera ovattata e, apparentemente, quasi innocente. Quel che ci preme, in questa sede, è porre sul tappeto la perenne questione modernista, che non è legata ad un contesto storico ben preciso e circoscritto, e perciò superato, ossia alle vicende di oltre un secolo fa - che culminarono, come si sa, nella solenne condanna da parte di san Pio X, con l’enciclica Pascendi Dominici gregis, del 1907 - ma che tende continuamente a riaffacciarsi e che in questi ultimi anni, anzi, pare aver segnato una sorta di rivincita, se non del modernismo del primo ‘900, di gran parte delle novità e delle impostazioni che allora emersero e cercarono di affermarsi e di farsi accettare dalla cultura cattolica e dallo stesso Magistero ecclesiastico.
La questione di fondo era, ed è, sempre la stessa: il rapporto tra scienza e fede; intendendo per “scienza” non solo l’ambito delle scienze fisiche e naturali, come l’evoluzionismo biologico, o delle cosiddette scienze dello spirito, come la psicologia, la psichiatria, la sociologia, ma anche la storia, la filologia, l’esegesi biblica, con tutti i loro riflessi sulla religione cristiana, ad ogni livello: da quello della liturgia a quello della dogmatica e della morale. Si tratta, pertanto, di capire in che cosa consista lo spirito modernista, per essere in grado di riconoscerlo e distinguerlo da una legittima curiosità scientifica e da una naturale tendenza a cercare la chiarezza e la verità in ogni ambito del sapere, fin dove ciò sia umanamente possibile. Oggi, per esempio, l’ermeneutica biblica di un Hans Küng, influenzata da quella del protestante Rudolf Bultmann e dalla Formgeschichte, la critica delle forme, tende a ridurre le verità della fede cattolica a una serie di miti, tramandati da una comunità cristiana che viveva nella spasmodica attesa del ritorno di Cristo e dell’avvento del Regno di Dio: il che porta necessariamente alla dissoluzione del cristianesimo, se per cristianesimo si intende l’annuncio del Vangelo da parte del Verbo incarnato, Dio fattosi uomo. Se Cristo non era Dio e se Egli non è risorto, la speranza cristiana è vana, come dice san Paolo: e tali sono gli esiti di una critica biblica che pretende di spazzar via, in nome di una razionalità tutta e solo umana, quel che di non conforme a sé si incontra nelle Scritture e nella Tradizione. Come dire la pretesa di togliere il soprannaturale dal messaggio cristiano.
Che cosa distingue, dunque, il modernismo - “sintesi di tutte le eresie”, come lo definì san Pio X, perché finisce per eliminare la divinità di Cristo, la vita eterna e tutti i sacramenti, cioè la vita della Grazia - dalla sana ricerca storica, biblica, teologica? Essenzialmente, l’atteggiamento di fondo e la prospettiva, l’orizzonte spirituale – per così dire – in cui ci si colloca. Si è sulla strada giusta se ci si pone in un atteggiamento di fede, di umiltà, e si cerca l’illuminazione in quella sapienza che non è cosa umana, ma che viene da Dio, come dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (2, 14, 15): Ma l’uomo che non ha ricevuto lo Spirito di Dio non è in grado di accogliere le verità che lo Spirito di Dio fa conoscere. Gli sembrano assurdità e non le può comprendere perché devono essere capite in modo spirituale. Chi invece ha ricevuto lo Spirito è capace di giudicare ogni cosa, ma nessuno è in grado di giudicarlo. Chi non possiede l’umiltà, non riceve lo Spirito; e allora, per lui, la sapienza umana gli diventa motivo di scandalo e pietra d’inciampo.
Alla luce di questa intuizione, proviamo a riandare agli esordi del movimento modernista, allorché, tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo, alcuni biblisti cattolici, alcuni laici, altri religiosi, vollero cimentarsi con le Scritture secondo il metodo critico delle scienze positive, ben decisi a restaurare i testi nella loro forma originale, togliendovi, cioè, le sovrastrutture che secoli di vicende storiche, di copiature, di smarrimenti e ricomposizione degli antichi manoscritti, di confusione tra parola orale e parola scritta, avevano, secondo loro, provocato. Evidentemente, o non si rendevano ben conto, o sottovalutavano la portata dirompente di ciò che si accingevano a fare: correggere la Bibbia, tale e quale come se fosse un libro qualsiasi, un libro scritto da uomini per altri uomini. È ben vero che alcuni di essi, e specialmente i sacerdoti, non intendevano giungere fino alla negazione della divina ispirazione delle Scritture; però è evidente, dal modo in cui si mossero, che non fecero la doverosa riflessione sulle due “sapienze” di cui pala san Paolo (e di cui parla, soprattutto, il Vangelo, e proprio per bocca di Gesù), quella puramente umana e quella divina, ma partirono all’assalto del testo biblico con lo stesso atteggiamento mentale di un filologo classico che vada a caccia degli errori che si annidano in un manoscritto del De Bello Gallico di Cesare o delle Filippiche di Cicerone.
Soprattutto, erano dominati da una sorta d’impazienza, da una fretta a stento trattenuta, perché incalzati dall’idea che la Chiesa, e la cultura cattolica con essa, fossero ormai “in ritardo”, naturalmente rispetto ai tempi rapidi del Progresso: non per nulla si era in piena età positivista e gran parte della cultura profana era dominata dal miraggio delle magnifiche sorti e progressive che le macchine, frutto della scienza e della tecnica, avrebbero apportato al genere umano. Questo era già, da parte di quegli studiosi, un atteggiamento di per sé sbagliato: senza rendersene conto, avevano introiettato il punto di vista della modernità e non sentivano, né pensavano più da cattolici; di conseguenza, era pressoché inevitabile che giungessero a delle conclusioni eccessive, deformanti e incompatibili con la fede, perché le premesse li portavano sulla strada di una demolizione progressiva di ciò che, nella Scrittura, deve essere letto anzitutto con fede, poi con scienza, e la scienza sempre sotto la guida della fede. Giocò anche il fatto, ovviamente in senso negativo, che molti di essi avevano una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti della critica biblica protestante e della stessa teologia protestante, molto più audaci e spregiudicate quanto all’esegesi biblica, dal momento che incominciavano ad avvertire il Magistero come un ostacolo, o, se non proprio come un ostacolo, come una sgradevole fonte di limitazioni alla loro libertà di ricerca. Insomma, ragionavano già da “specialisti”, da “tecnici”, per i quali la Bibbia non è, in primissimo luogo, la Parola che Dio rivolge agli uomini, ma un libro che deve essere studiato, corretto e interpretato secondo criteri scientifici, che sono, pur sempre - anzi, in maniera eminente – criteri esclusivamente umani.
Diamo la parola a Roger Aubert (1914-2009), uno storico e teologo belga di tendenza progressista, specialista della storia del cattolicesimo fra Otto e Novecento (da Il risveglio culturale dei cattolici, (in: Storia del cristianesimo, a cura di Elio Guerriero, vol. La Chiesae la modernità, Milano, Edizioni San Paolo, 2005, pp. 219-221):
Se la maggior parte dei teologi, a Roma e in Italia in particolare, colse soprattutto gli aspetti conservatori dell’enciclica [“Providentissimus” di Leone XIII, del 18 novembre 1893], un crescente numero di esegeti, una volta passata la prima emozione, insistette sul fatto che essa condannava solo gli eccessi dell’”ipercritica”, e spronava invece ad applicare allo studio delle Sacre Scritture i principi di una corretta critica. Si cessò di parlare di eventuali “errori” della Bibbia, cercando invece in altre direzioni la soluzione di difficoltà impossibili da negare.
Alcuni parlarono di “verità relativa”, altri fecero ricorso alla teoria delle “citazioni implicite” (l’autore introdurrebbe tacitamente nel suo racconto documenti non ispirati senza garantirne la veridicità), altri ancora proposero di estendere a certi passaggi dei libri storici della Bibbia la teoria delle “apparenze”, proposta dall’enciclica per risolvere le difficoltà sollevate in nome delle scienze naturali: gli autori ispirati, cioè, avrebbero riportato certi avvenimenti dal punto di vista del loro ambiente. Il padre Lagrange in particolare si impegnò su questa via e sviluppò le sue idee in una serie di conferenze raccolte in seguito in un volume dal titolo “La Méthode historique surtout à propos de l’Ancien Testament” (1903), che in un primo momento incontrò favorevolissima accoglienza in molti ambienti cattolici.
A quell’epoca Lagrange stava preparando con la sua équipe di Gerusalemme un ampio commento alla Sacra Scrittura “con una particolare attenzione alla critica letteraria”, completato da studi di sintesi su diversi problemi scritturistici. Annunciata nel 1900, la raccolta degli “Etudes bibliques” cominciò a uscire nel 1902.
Ma progetti e pubblicazioni decisamente progressisti spuntavano un po’ dappertutto. In Germania se la collezione dei “Bibische Studien”, fondata nel 1895, si pone su un piano ancora piuttosto conservatore, la “Biblische Zeitschrift”, iniziata nel 1903 dai professori J. Gottsberger e J. Sickenberger, è invece concepita con lo stesso spirito della “Revue biblique”. A Lovanio il professore A. Van Hoonacker si afferma con crescente autorevolezza, e il suo giovane collega P. Ladeuze, incaricato nel 1900 del corso di esegesi del Nuovo Testamento, intraprende una via che anticipa perfino, su certi aspetti, la scuola della “Formgeschichte”. Il congresso degli studiosi cattolici di Friburgo del 1897, dove due relazioni in particolare attirarono l’attenzione, quella del padre Lagrange sull’autenticità mosaica del Pentateuco, e quella del barone von Hügel sulle fonti dell’Exateuco, poté essere considerato come “il momento felice di uno stato di grazia della critica biblica”. Nuove delusioni, tuttavia, non avrebbero tardato a venire. […]
La pubblicazione, avvenuta il 13 gennaio 1897, di un decreto del Sant’Ufficio che proibiva di porre in dubbio l’autenticità del “Comma Johanneum”, una interpolazione manifestamente tarda del resto della prima lettera di san Giovanni (5,7) è un tipico esempio della mentalità ancora dominante nel mondo dei teologi: si pretendeva di risolvere un problema di critica testuale in nome dell’autorità ecclesiastica, e, peggio ancora, in base a un ragionamento puramente teologico.
Nei mesi che seguirono, diversi episodi confermarono l’irrigidimento degli ambienti romani che avevano autorità in campo biblico, in particolare sotto l’influenza di alcuni Gesuiti. Il cardinal Parocchi si vide praticamente obbligato a porre fine alle attività della “Società per gli studi biblici” dopo una relazione del padre Genocchi del dicembre 1897 che avanzava dubbi sull’autenticità mosaica del Pentateuco. Al termine dell’anno accademico 1897-1898 a quest’ultimo fu tolto l’insegnamento di esegesi all’università pontificia dell’Apollinare, nonostante l’appoggio dei cardinali Parocchi e Satolli. Il 25 novembre 1898 Leone XIII indirizzava al generale dei Francescani una lettera per metterlo in guardia soprattutto da un modo “audax atque immodice liberum” di commentare le Sacre Scritture…
Evidente, in queste righe, la partigianeria di Aubert e la sua dichiarata simpatia verso i progressisti, e la sua critica nei confronti dei conservatori: il solo fatto che egli adoperi questi termini, presi dal linguaggio dell’ideologia politica, senza ombra di dubbio o d’imbarazzo, la dice lunga su come la pensi e su come valuti quella stagione della cultura cattolica. Per lui, “buona” era la critica biblica sviluppata in senso “scientifico”, cioè modernista, e non buona quella che pretendeva di porre la teologia prima della filologia. Rivelatrice, a proposito del Comma Johanneum, la sua osservazione: si pretendeva di risolvere un problema di critica testuale in nome dell’autorità ecclesiastica, e, peggio ancora, in base a un ragionamento puramente teologico. Incredibile a dirsi, sembra quasi d‘esser tornati ai tempi del processo a Galilei, stavolta, però, capovolgendo la prospettiva: se la scienza dice che le cose stanno così, largo alla scienza e taccia la religione. Era un po’ quel diceva Galilei, appunto, nella famosa lettera a don Benedetto Castelli, quando parlava delle due maniere in cui Dio parla agli uomini: una, la Scrittura, per tutti; l’altra, il gran libro della natura, per i matematici: inutile precisare che, poste così le cose, sono i primi che devono inchinarsi ai secondi, qualora vi sia un apparente contrasto fra la Bibbia e le leggi della natura…
Non vogliamo, però, dar l’impressione di sottrarci alle inevitabili conseguenze di quanto abbiamo detto. Se qualcuno ci chiedesse, pertanto: Ma allora, che cosa dovevano fare i biblisti? Dichiarare il falso, cioè che il Comma Johanneum (tanto per fare un esempio) è autentico, solo per non turbare le anime devote? Semplicemente, per prima cosa dovevano essere più prudenti (perfino ai nostri giorni, non tutti i biblisti son convinti che si tratti d’una aggiunta tardiva); secondo, non confondere il piano filologico con quello teologico. La Rivelazione cristiana si manifesta nelle due vie della Scrittura e della Tradizione. Se si perde di vista il fatto che entrambe sono divinamente ispirate; se ci si scorda, anche solo per un attimo, che la parola di Dio non vuole porsi sul piano della ragione scientifica, e che, pertanto, è sbagliato volerla comprendere all’interno di tale dimensione; se non ci si arma di umiltà e non si chiede alla Grazia divina di illuminare i dubbi, sia i dubbi di fede, sia i dubbi che ineriscono ai mezzi dei quali si è servita (e si serve tuttora) la divina Rivelazione, compresa la lettura e l’interpretazione della Bibbia, allora si è già fuori dalla retta comprensione della Parola di Dio. Pertanto, i filologi possono benissimo segnalare quanto vi è, nel testo biblico, di imperfetto, o anche d’inesatto, umanamente parlando: l’importante è che non finiscano, come è accaduto ai modernisti, per assolutizzare quelle loro “scoperte”, e per ricavarne l’arbitraria conclusione che, dopotutto, la Bibbia è un libro come un altro. Da lì si origina, infatti, tutta la catena degli errori che allontanano il credente da Dio: il dubbio sistematico sul testo porta al dubbio sulla sua divina ispirazione; questo, al dubbio sulla figura storica di Gesù Cristo e sulla sua reale natura; e quest’ultimo, all’Incarnazione e alla Trinità, i due dogmi centrali del cristianesimo, senza i quali non c’è più il cristianesimo, ma un sapere puramente umano, che, del cristianesimo, conserva ancora, tutt’al più, l’impalcatura esteriore, mentre, all’interno, non vi sono che rovine e sterpaglie. Non sarà certo un caso se i vari Loisy, Laberthonnière, Tyrrell, Buonaiuti, hanno finito per scivolare in una concezione del cristianesimo che era tutto, fuorché cattolica: una sorta di vago misticismo panteista, curiosamente impastato di pregiudizi scientisti e positivisti: amalgama impossibile fra le ragioni del “secolo” (la fede assoluta nella scienza positiva) e le ragioni del “cuore” (una religiosità confusa e sentimentale, lontanissima dalla virile, schietta concezione cristiana).
Citiamo ancora una volta san Paolo (1 Cor., 2, 5-9):
Così la vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Anche noi però, tra i cristiani spiritualmente adulti, parliamo di una sapienza. Ma non si tratta di una sapienza di questo mondo né di quella dei potenti che lo governano, e che presto saranno distrutti. Parliamo della misteriosa sapienza di Dio, del suo progetto di farci partecipare alla sua gloria. Dio lo aveva già stabilito prima della creazione del mondo, ma noi non lo avevamo conosciuto. Nessuna delle potenze che governano questo mondo ha conosciuto questa sapienza. Se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma come si legge nella Bibbia: quel che nessuno ha mai visto e udito, / quel che nessuno ha mai immaginato, / Dio lo ha preparato per quelli che lo amano”.
Il nodo della questione modernista: quale rapporto fra scienza e fede?
di
Francesco Lamendola
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.