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domenica 8 gennaio 2017

La più grave delle moderne cinque piaghe della Chiesa

L’orfanezza della Chiesa in uscita

Nella festa della Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, fissata nella Domenica nell’Ottava dell’Epifania da papa Benedetto XV, pubblichiamo questo contributo di Franco Parresio.



Luigi Marai, Gesù nel Tempio tra i dottori, 1884, Verona


L’orfanezza della Chiesa in uscita

di Franco Parresio

Il titolo di quest’articolo si richiama a due eventi recentissimi, molto legati tra di loro: l’omelia tenuta dal vescovo di Roma, Francesco, nella Solennità – secondo il calendario montiniano – di Maria, Madre di Dio, avente come tema l’orfanezza spirituale degli odierni credenti (vqui), e la trasmissione televisiva “La Chiesa in uscita”, andata in onda su RAI3, in prima serata il 5 gennaio, all’interno del programma “La Grande Storia” curato da Paolo Mieli, volto ad esaltare l’attuale pontificato bergogliano (erede – a suo modo – di quello roncalliano) e, con esso, tutta la Chiesa uscita dal Vaticano II.
Senza rendersene conto, e papa Francesco e Paolo Mieli hanno mostrato, in tutta evidenza, quella che possiamo definire la più grave delle moderne cinque piaghe della Chiesa: quella del post-concilio, che, «occupandosi a pieno titolo del mondo, […] ha rinunciato alla gestione del sacro» (U. GalimbertiCristianesimo. La religione dal cielo vuoto, ed. Feltrinelli, Milano 2012, p. 29); che, «smarrite le ultime tracce del sacro, […] ha ridotto la dimensione religiosa a questione morale» (ivi, p. 30); che, avendo «dato avvio a quella progressiva desacralizzazione del sacro di cui il nostro tempo è tangibile testimonianza» (ivi, p. 25), ha sovvertito radicalmente il cristianesimo, il quale «si è ridotto ad agenzia etica […], s’è fatto evento diurno, lasciando la notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli, […] che oggi, senza la protezione religiosa, devono vedersela da soli con l’abisso della propria follia, che il sacro sapeva rappresentare e la ritualità religiosa placare» (ivi, p. 10).
Di qui quel senso di orfanezza spirituale, che non risparmia, come direbbe papa Montini, «i buoni cattolici, i bravi figli della Chiesa» (Udienza generale, 12.1.1966), dimentichi e dimenticati di esserne figli.
Dopo il celeberrimo “Discorso alla luna” (vqui), il concetto della fraternità papale ha inesorabilmente finito col soppiantare quello della paternità del Romano Pontefice. Gli ultimi papi (compreso l’attuale), contrariamente al loro nome (“papa” deriverebbe da pater patrum, e, comunque, vuol dire padre), hanno, nel linguaggio personale e istituzionale, rinunciato a chiamare i fedeli “figli/figlioli”, rivolgendosi a loro e a tutti con l’espressione “fratelli/sorelle” (papa Ratzinger, addirittura, ha usato l’espressione “amici”), nel tentativo di abbracciare anche persone di altre fedi, compresi gli agnostici, in nome di un dialogo, il quale, superesaltando la frase attribuita a Giovanni XXIII («È più forte quello che ci unisce di quello che ci divide»), trascura – soprattutto sotto questo vescovado romano – il fatto che, come ricorda sempre il Montini, «l’Ecumenismo non è semplicismo, non è irenismo superficiale e incurante delle intrinseche istanze della verità religiosa» (Udienza generale, 18.1.1967).
E un papa non può non farsi carico delle intrinseche istanze della verità religiosa! Non può esprimersi in modo semplicistico e irenico – come esattamente fa Bergoglio – con frasi evasive del tipo «Chi sono io per giudicare?», o alla domanda «“Mi dica, Padre: perché soffrono i bambini?”, davvero, io non so cosa rispondere» (Udienza generale, 4.1.2017). È un’omissione grave che, se da una parte conferma la “orfanezza autoreferenziale” di questo papa, dall’altra “sgretola il dogma dell’infallibilità pontificia”, come ha acutamente fatto osservare Galimberti a proposito della Chiesa sotto Francesco, la quale, più che essere una Chiesa in uscita, ha oramai tutti i requisiti per essere una Chiesa in liquidazione.

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