L'apostasia e l'ottenebramento delle coscienze è certamente un male, ed un male di gravità inaudita quando chi se ne fa promotore siede sul più alto Soglio. Lo ammette candidamente anche don Elia, nell'incipit del suo articolo La terza via, pubblicato sul suo blog alcuni giorni or sono.
Ma il riconoscere la crisi non deve autorizzare a volger immediatamente lo sguardo altrove, andando - per usare le parole del confratello - a far le pulci agli ambienti tradizionalisti. Poiché così facendo si rischia quasi inevitabilmente di assumere il comportamento di chi, volendo criticare qualcuno, inizia con la premessa opposta:
Non voglio mica dire nulla, per carità! Tu lo sai meglio di me che io e Tizio siamo amici, che lo stimo molto, che mi è caro. Però - e non mi fraintendere - se vogliamo dirla tutta...
Così la crisi della compagine ecclesiale - le cui basi filosofiche e teologiche dovrebbero essere oggetto della più aspra critica - finisce per costituire una breve petizione di principio, peraltro scarsamente indagata, da cui distogliersi in fretta per dedicarsi al ben più comodo - e meno impegnativo - ruolo di censori equanimi ed imparziali delle magagne del tradizionalismo.
La crisi nella Chiesa è talmente grave che i sani dovrebbero far quadrato. È vero, senza ombra di dubbio. Tuttavia, se mi soffermo a osservare i difetti di certi ambienti tradizionalisti, non è per il gusto di “fare le pulci” agli altri, ma...
Non ho il piacere di conoscere personalmente don Elia, che ha scelto - come ho fatto anch'io - di mantenere il proprio anonimato per potersi sentire libero di dire quel che crede senza temere le ritorsioni dei Superiori. Sono peraltro certo ch'egli sappia dar testimonianza sacerdotale anche nella vita di tutti i giorni, coerentemente con quanto egli dimostra di credere. Ma proprio perché come lui ho la ventura di vivere in un organismo dal quale sono dipeso e dipendo a tutt'oggi, mi sento di raccomandargli - non fosse che in virtù della mia età e dell'esperienza maturata - quella prudenza che i nostri vecchi sintetizzavano nell'aurea massima Un bel tacer non fu mai scritto.
Lo dico con l'affetto e la stima per un sacerdote che a più riprese ha mostrato di aver compreso gran parte dei problemi del tempo presente, sapendo probabilmente anche individuarne le cause prime nell'infausta assise che i novatori si ostinano a chiamare col sacro nome di Concilio, ma che la storia inesorabilmente ridimensionerà al livello dell'analogo di Pistoia.
Leggo con sconcerto:
L’adesione alla verità oggettiva non può prescindere completamente dalle condizioni del soggetto che deve conoscerla e praticarla. Una tendenza eccessivamente spiccata all’astrazione finisce col perdere di vista la realtà concreta delle persone, che è evidente al semplice buon senso. Un sistema di pensiero apparentemente perfetto (perché ogni cosa è incasellata in un posto preciso e ogni problema ha una soluzione prestabilita) rischia di passar sopra le situazioni effettive degli individui e della loro epoca storica, inquadrandole in una bella cornice ma lasciandole sostanzialmente come sono.
Se non fosse che queste parole sono espresse in una prosa fluente, esse potrebbero esser parto dell'inquilino di Santa Marta, e le potremmo trovar pubblicate sulla quotidiana rassegna di Radio Vaticana o citate dall'Osservatore Romano.
E sia chiaro: sono il primo a riconoscere che la verità viene recepita in base alla capacità di assimilazione del singolo, esattamente come avviene per la visione beatifica. Chiunque si rende conto che la beatitudine di cui gode San Tommaso è superiore a quella di cui gode il semplice, pur essendo entrambe complete. Quand'ero piccolo, mia madre mi spiegava che il ditale e la botte sono entrambi pieni, pur essendo quello capace di contenere poco e questa di contenere molto.
Ed è proprio su questo che mi trovo in disaccordo con don Elia: la verità oggettiva cui aderisce il cristiano è sempre completa, nonostante il grado soggettivo di comprensione. Così la vecchina che ignora il latino ed il teologo che specula sull'unione ipostatica sono entrambi completamente realizzati, nell'atto di fede, dal momento che l'una e l'altro ripongono la propria fiducia nel Dio rivelante, in ragione della Sua autorità, e sottomettono a Lui il proprio intelletto senza alcuna riserva, mantenendo tuttavia le proprie doti naturali. Il Signore non chiede alla vecchina di spiegare la consustanzialità del Figlio con il Padre, e non pretende che il teologo si accontenti della Filotea del Canonico Riva.
Don Elia precisa:
Tali considerazioni non sono un cedimento allo storicismo, al relativismo o al soggettivismo, ma una semplice professione di sano realismo.
Ma qui mi pare che si confonda l'adesione incondizionata alla verità rivelata - propria dell'atto di fede - con la conoscenza di questa verità: solo con questa distinzione si evita di cadere nel relativismo o nel soggettivismo.
L'autore dell'articolo prosegue:
[...] la dottrina cristiana rischia di trasformarsi in un’arida costruzione intellettuale che può compiacere l’intelligenza, ma non è realmente accolta nel cuore così da poter plasmare la coscienza; il culto e la preghiera possono ridursi a mera esecuzione di riti e di formule che, per la freddezza e il distacco di chi la compie, si risolve facilmente in una disastrosa controevangelizzazione, specialmente dei più giovani; la vita morale può assumere i contorni di un’indifferente ottemperanza a una disciplina esteriore, che scade rapidamente nell’ipocrisia e nel cinismo. Per crescere in una vita genuinamente cristiana non basta conoscere a memoria gli asserti del catechismo o applicare un metodo di valutazione morale come si trattasse di un’equazione matematica. Sono forse vaghi rischi o questioni marginali, queste?
E qui - mi perdoni il reverendo confratello - appare in tutta la sua desolante evidenza la carenza di una solida formazione tomistica, proscritta dai Seminari del postconcilio con esiti nefasti. Non gliene faccio una colpa, ed anzi provo una certa qual comprensione, che mi porta ad esser indulgente proprio perché don Elia è figlio di questi tempi.
Mi permetto quindi di formulare una correzione fraterna, facendo alcuni distinguo.
In primo luogo, si dovrebbe dire che la speculazione della verità non è necessariamente un atto di fede. Non lo è, se è mossa da curiosità, da orgoglio, da vanagloria: guardate quante cose so io, che certi Vescovi ignorano. Fare sfoggio di cultura - in qualsiasi ambito, ma in particolare nelle questioni dottrinali e morali - costituisce appunto un motivo di compiacimento che ripugna alla verità ed ancor prima all'umiltà che si chiede a chi pone l'atto di fede. Poiché nessuno di noi - miserabili esseri umani corrotti dal peccato originale - è in grado di comprendere le perfezioni di Dio; al massimo potremo intuirle vagamente. Viceversa, la speculazione della verità inerisce alla fede quando, con umiltà e timor di Dio, ci si accosta alla dottrina chiedendo al Rivelatore di quella verità - che è Verità Egli stesso - di illuminarci.
In secondo luogo, la conoscenza della verità, ancorché mossa dalla virtù teologale della Fede, deve tradursi in pratica, affinché l'intelletto illuminato sappia infiammare la volontà. Poiché la fede senza le opere è morta (Gc 2, 26). Ma la Fede, come ho detto poc'anzi, abbraccia tutta la verità rivelata incondizionatamente, non perché la conosce, ma perché in essa l'intelletto si piega davanti a Dio, il Quale è sì Verità, ma anche Carità.
Fatte queste premesse, mi pare che questo far le pulci ai tradizionalisti, accusandoli in definitiva di formalismo farisaico, riecheggi gli strali di Bergoglio, e solo per questo debba suscitare un qualche allarme in chi, all'inizio dell'articolo, si è speso in una captatio benevolentiae verso quella parte del mondo cattolico che poche righe dopo non ha esitato a denigrare genericamente, quasi il formalismo fosse prerogativa dei cosiddetti tradizionalisti.
Eppure don Elia dovrebbe sapere che da questa colpa non vanno esenti coloro che, brandendo l'Amoris laetitia o la Dignitatis humanae, credono di possedere la pienezza della rivelazione divina, e di poter per ciò stesso arrogarsi il diritto di contraddire due millenni di Tradizione ed il Magistero di duecentosessanta Papi. Anzi direi che proprio la presunzione di detenere la verità - comunque essi la chiamino - è rivelatrice di un formalismo ben peggiore di quello che il mio confratello ascrive ai tradizionalisti, poiché questi almeno acquisiscono nozioni su una dottrina certa e santa, mentre quelli affastellano confusamente i farneticamenti dei peggiori eretici, i deliri dei modernisti, gli equivoci deliberati dei fautori della crisi.
Ed anche nel culto, come si può condannare temerariamente come mera esecuzione di riti e di formule la compostezza di chi assiste alla Liturgia cattolica, quando ben di peggio si può vedere in tutte le chiese dell'orbe, dove alla presunzione di capire tutto - per il solo fatto di aver soppresso la lingua sacra - si unisce una madornale ignoranza dei rudimenti del catechismo? dove la setta conciliare ha saputo imporre una mera esecuzione di riti e di formule, fatta di segni di pace, di comunione sulla mano, di irriverenze, di canti melensi?
Per non parlare dell'ambito morale: quella indifferente ottemperanza a una disciplina esteriore, che scade rapidamente nell’ipocrisia e nel cinismo mi pare si trovi per lo più esemplificata tra i fedeli ed i preti progressisti, che si beano di predicare la tolleranza, l'accoglienza, la chiesa dei poveri, ma poi trattano come reietti quanti non apprezzano la Madonna con lo chador nel presepio, o prendono a male parole chi protesta perché la cappella del Santissimo è stata adibita a luogo di preghiera per i maomettani. Che spogliano le chiese, ne vendono gli arredi, ne abbattono gli altari, ma si guardano bene dal tener spento il riscaldamento in casa, e si lamentano col Vescovo se in canonica manca l'aria condizionata d'estate, ostentano auto di lusso, occhiali firmati, l'ultimo modello di cellulare, l'iPad su cui leggere l'omelia.
E la solidarietà decantata dal pulpito - pardon, dall'ambone - che ha preso il posto della Carità cristiana vale per tutti fuorché per il prossimo, per quel signore cattolico, licenziato a cinquant'anni, che si vergogna a mendicare e dorme in auto, o per l'imprenditore ridotto in miseria dalle banche, che quando bussa alla mensa dei poveri è mandato via perché non è un immigrato con le patenti ecumeniche. Lui non chiede di toglier crocifissi, non pretende di esser padrone in casa nostra, ha solo da pagare l'affitto o una rata del mutuo per non farsi pignorare la casa; ma si veste con decoro, si fa la barba, cerca di non aggiungere alla povertà anche l'umiliazione della perduta condizione sociale: che si arrangi.
Viceversa, non mi pare che in ambito tradizionalista si vedano incongruenze così macroscopiche, tanto più tra i sacerdoti della Fraternità San Pio X o tra quanti sono stati ostracizzati, e vivono della carità di qualche amico o a casa della madre anziana. Non vedo di sicuro più ipocrisia e cinismo di quanta non ve ne sia - eccome! - tra i sostenitori di Bergoglio. Il quale, se vogliamo dirla tutta, è colui che meglio incarna la contraddizione tra la tanto decantata misericordia a parole e la tirannide più odiosa nei fatti. Sicché appare evidente che dove maggiormente manca la Fede, manca necessariamente anche la Carità.
Don Elia afferma:
Se qualcosa di buono la modernità ha portato, è una maggiore consapevolezza dell’importanza del soggetto, anche nella vita di fede. Riconoscere questo è forse un’apertura al modernismo? Non mi sembra proprio. È piuttosto un’esigenza di fedeltà a quella verità rivelata che deve essere accolta in profondità da persone reali, non da puri spiriti o da astratte entità mentali.
Mi pare che le astratte entità mentali abbiano scelto da che parte stare, teorizzando una chiesa senza Cristo, in cui la rigida osservanza dei riti riformati impone di adorare solo se stessi, e vieta di piegare il ginocchio dinanzi a Dio presente nel tabernacolo.
Fortunatamente don Elia finisce col darmi ragione, quando afferma:
Non si sono mai ottenuti buoni risultati asfaltando le menti di formule e precetti; sotto lo strato di bitume le male erbe continuano a svilupparsi indisturbate, fino a forarlo… e il giorno in cui questo accade, amare sono le sorprese, specie nella vita di un sacerdote o di un consacrato.
Ecco, mi pare che il tritasassi conciliare abbia schiacciato tutto: dottrina, morale, liturgia, spiritualità, disciplina. E sulle macerie di un passato glorioso abbia steso una spessa coltre di bitume ecumenico, pacifista, sociologico, psicanalitico. Le male erbe, in questo caso, sono state coltivate generosamente, il buon grano è stato estirpato per far posto alla zizzania. Voglia Iddio che sotto quello strato d'asfalto possa germogliare - ancorché disprezzata dai farisei del Sinedrio conciliare - la buona semente.
L'autore dell'articolo osserva:
È indubbio che la liturgia tradizionale trasmetta la fede integra, renda a Dio il culto che gli è gradito e sia più efficace per il bene spirituale dei fedeli; in una parola, è il baluardo della vera religione. Ma mezzo secolo di mistificazioni non si cancella in un attimo. [...] La Chiesa non è una piccola élite riservata a chi ha una buona dose di intellettualismo e di volontarismo. [...] Non credo che il Signore voglia soldatini impassibili e manovrabili a comando.
E chi ha mai affermato che la Chiesa sia una setta di iniziati? Questa è casomai la visione dei novatori, che si ritengono depositari di una gnosi ch'è stata negata per duemila anni ai cattolici della Chiesa preconciliare, salvo le eccezioni degli eretici di ieri, oggi assurti a modello.
E ancora:
Non si possono mettere i fedeli davanti all’alternativa: o la Messa tradizionale o niente, così come non si può accusare indistintamente tutta l’attuale gerarchia cattolica di essere modernista e di celebrare in modo da far perdere la fede alla gente. È vero che le omissioni presenti nel novus ordo, a lungo andare, possono intaccare la fede fino a dissolverla, specie a causa dello stile celebrativo più diffuso; ma a chi non è in grado di fare subito il salto non si può offrire altro che la nuova Messa celebrata con la mens e lo stile dell’antica (e già questo, per molti, è un trauma).
E perché non sarebbe possibile mettere i fedeli davanti all'alternativa? Non è quello che hanno fatto Paolo VI ed i suoi successori, dimostrando l'odio teologico verso la Chiesa cattolica, e la più vergognosa cortigianeria verso gli eretici? Se i fedeli hanno saputo farsene una ragione passando dalla Messa cattolica a quel rito artefatto, perché non dovrebbero accogliere con uguale se non maggiore obbedienza il ritorno di un rito che trasmetta la fede integra, renda a Dio il culto che gli è gradito e sia più efficace per il bene spirituale dei fedeli? perché non dovrebbe accogliere il baluardo della vera religione, dopo aver subito per quasi cinquant'anni l'autodemolizione della Chiesa imposta dalla gerarchia?
E concludo: se le omissioni presenti nel novus ordo, a lungo andare, possono intaccare la fede fino a dissolverla, per quale motivo travestire quel rito in qualcosa che non è dovrebbe salvare le anime dei fedeli? Non è questa, in fondo, un'implicita ammissione di formalismo, per il quale si guarda a ciò che appare, e non a ciò che è nella sostanza? Crede don Elia che una pianeta al posto della casula possa portare i fedeli a credere ciò che la liturgia riformata tace o addirittura nega?
C'è la via che porta alla dannazione, e quella che conduce al cielo. E questa Via di salvezza, ch'è anche Verità e Vita, è Cristo. Tertium non datur.
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