VESCOVO CIPOLLA SI DIMETTA !
Ma che aspetta a dimettersi il vescovo Cipolla? Nascosto dietro la sottana di Sua Santità ha sbagliato mestiere dimostrando di non avere intelligenza e stoffa per dirigere una grossa diocesi con un milione d’abitanti
di Francesco Lamendola
Sì, è vero: l’argomento è talmente squallido e deprimente, che si preferirebbe sorvolare, parlare d’altro, fare finta di nulla. Disgraziatamente, la politica dello struzzo non è mai servita a migliorare le cose, e dunque tanto vale affrontare i problemi, senza rimandare, senza dare loro il tempo d’incancrenire: perché, quando la cancrena si è diffusa, non resta altro da fare che l’amputazione chirurgica, ossia il rimedio estremo. Prima di arrivare a tanto, vediamo se non sia possibile limitare i danni, mettendo bene a fuoco la natura del problema.
La natura del problema creato a Padova dal comportamento del parroco della chiesa di San Lazzaro, don Andrea Contin, si può riassumere in una formula semplicissima: le dimissioni del vescovo, monsignor Claudio Cipolla, fedelissimo di papa Francesco, dal quale aveva ricevuto la nomina, evidentemente per le sue benemerenze di ex prete di strada, nonché di entusiastico sostenitore del “nuovo corso” modernista e progressista. Il problema non è più don Contin, tardivamente e un po’ ipocritamente sospeso a divinis, quando ormai i buoi erano scappati dalla stalla e lo scandalo, enorme, correva sulle bocche di tutta Italia, e forse anche all’estero.
Preti e religiosi (o religiose) indegni, purtroppo, ce ne sono sempre stati, e, data la debolezza della natura umana, sempre ce ne saranno. Ma è indispensabile chiedersi se era proprio necessario lasciare che le cose andassero avanti fino alle loro estreme conseguenze; se il vescovo non avesse l’obbligo di tenersi informato su quel che facevano, sotto il suo naso, dei pastori degeneri (purtroppo don Contin non era solo nelle sue squallide orge pornografiche a sfondo sadomasochista; in esse erano implicati, stando alle indiscrezioni della stampa, sinora confermate, almeno altri tre sacerdoti, uno dei quali ha un volto, un nome e un cognome: don Roberto Cavazzana, parroco di un paesino dei Colli Euganei, Carbonara di Rovolon); e, soprattutto, se, una volta informato di quel che stava accadendo – perché ora vi è la certezza che era stato informati per filo e per segno – non avesse il preciso dovere di fare qualche cosa, sia per arginare le malefatte del prete fedifrago, sia per impedire che lo scandalo arrivasse alla magistratura e ne derivasse un immenso danno morale per la Chiesa.
Che cos’è stata, quella del vescovo, glasnost, trasparenza? Non ci sembra; ci pare piuttosto che si debba chiamare debolezza, ignavia, mancanza di carattere e di senso di responsabilità. Ora il vescovo si dice addolorato, chiede perdono ai fedeli: spettacolo penoso e inutile. Se davvero avesse voluto fare qualcosa, aveva avuto dei mesi per farlo; ma, visto che non ha fatto un bel nulla, e lasciato che le cose arrivassero a questo punto, ossia alla conclusione peggiore possibile, invece di chiedere scusa, cosa perfettamente inutile, dovrebbe dignitosamente rassegnare le dimissioni, invece di farsi schermo della solidarietà del papa. Monsignor Cipolla dovrebbe vergognarsi, perché ha dimostrato di non avere né la sensibilità, né l’intelligenza, né la stoffa per dirigere una grossa diocesi con un milione d’abitanti; uno come lui potrebbe fare, al massimo, il cappellano in qualche parrocchia di provincia, possibilmente di quelle molto tranquille; ma sotto l’attenta sorveglianza di un buon parroco, uno della vecchia scuola, con le idee chiare e la schiena dritta; uno di quelli che, quando le cose vanno male, non si nascondono dietro un dito, o, peggio, dietro le sottana di Sua Santità, ma traggono le doverose conseguenze del loro fallimento, nell’unica maniera possibile,
Questo, di non dimettersi, neanche davanti alla prova lampante della propria incapacità, della propria inadeguatezza, è un pessimo e antico vizio della politica italiana, nonché della pubblica amministrazione. Quando mai si vede un dirigente di un’azienda statale, di una banca finanziata dallo stato, o il prefetto o il sindaco di una grande città, rassegnare le dimissioni in presenza di un fallimento evidente e clamoroso, di uno di quei fallimenti che non lasciano adito a scuse o giustificazioni di sorta, perché, anche se l’interessato non si dimettesse, la sua funzione e il suo prestigio rimarrebbero, in ogni caso, permanentemente e irrimediabilmente mutilati, sfigurati, distrutti? Come si può continuare a svolgere una funzione pubblica, quando si è stati moralmente sfiduciati dalle circostanze stesse, dall’evidenza dei fatti? Quando non c’è bisogno che un’accusa venga formalizzata, o che un querelante intraprenda una precisa azione legale, perché ciò di cui si tratta non è un reato specifico, ma, puramente e semplicemente, un fatto di evidente inettitudine, di evidente irresponsabilità, insomma di patente e conclamata incapacità di svolgere la funzione alla quale si è preposti?
Ebbene, il vizio delle non dimissioni pare si sia esteso anche alla Chiesa cattolica, proprio quella rigorosa e moralista di papa Francesco; vizio che, fino a tempi recenti, non la vedeva appiattita sulle (triste) posizioni della società civile, ma esibire un contegno diverso, più fiero, più leale, più responsabile. Ma nella neochiesa modernista e relativista di questi ultimi anni, a quanto pare, tutto è possibile: che ogni catechista si faccia la sua catechesi; che ogni teologo si faccia la sua teologia; che ogni parroco si faccia la “sua” messa; che ogni vescovo si faccia la sua pastorale; e che ogni cardinale coltivi in tutta pace e serenità i suoi obiettivi gnostico-massonici, secondo le istruzioni ricevute nelle rispettive logge di appartenenza. Evidentemente, anche per la morale pratica vige un atteggiamento analogo: ogni prete si sente autorizzato a fare quel che gli pare; tanto, nessuno controlla niente, proprio come nella scuola nessun preside controlla l’operato dei professori, e come nessun direttore sanitario controlla l’operato dei medici di un ospedale pubblico, a meno che scoppi la grana e parta una denuncia. Per silurare il generale Cadorna non bastarono due anni e mezzo di attacchi fallimentari, di un inutile stillicidio di vite umane e di una strategia chiaramente inadeguata: ci volle la catastrofe di Caporetto, e, per soprammercato, la somma viltà, da parte sua, di riversare ogni addebito sui suoi soldati. Per dimettere don Contin, o almeno per trasferirlo, che cosa ci voleva, oltre a tutto quello che stava combinando nella sua parrocchia, trasformata in un nauseabondo puttanaio, e di cui monsignor Cipolla era perfettamente a giorno? Un sacerdote, invitato a una trasmissione televisiva per commentare i fatti della parrocchia di San Lazzaro, ha fatto una osservazione molto sensata; ha detto: Ci vuole amicizia da parte del vescovo per i suoi sacerdoti Se ci fosse stata amicizia, un fatto come quello accaduto a Padova sarebbe stato impossibile; perché sarebbe stato impossibile che il vescovo non fosse informato di quel che stava accadendo. Evidentemente, però, l’ex prete di strada divenuto vescovo era in altre faccende affaccendato; in faccende ben più importanti di simili quisquilie.
Giovedì 2 febbraio 2017, giorno della Madonna Candelora, monsignor Cipolla ha tenuto una conferenza stampa (visionabile in rete) per fare il punto della situazione e spiegare i provvedimenti presi. Il vescovo è rientrato in fretta dall’America Latina, dove si era recato per visitare i missionari diocesani, e ha spiegato di aver avviato le pratiche per la sospensione a divnis di don Contin; mentre nei confronti dell’altro prete indegno, don Roberto Cavazzana, che, per sua stessa ammissione, partecipava le orge di don Contin e, con lui, a turno, si faceva filmare nelle sue prestazioni sessuali, non è stato preso alcun provvedimento. E questa è la prima stranezza, di cui egli non rende conto. Sarà perché i suoi parrocchiani, intervistati dalle televisioni locali, si sono detti entusiasti di don Roberto, che hanno definito un ottimo parroco, e per riavere il quale stanno raccogliendo firme e petizioni? In tal caso, bisogna proprio dire che i calcoli di bottega accomunano ormai la Chiesa a un qualsiasi partito politico, che non perde mai d’occhio il voto degli elettori, e, per strappare consensi, è più che disposto a chiudere tutt’e due gli occhi sulle banali questioni di onestà e correttezza. Poi dichiara che don Contin si è comportato in maniera inaccettabile, sia come prete, sia come cristiano, sia, infine, come uomo. Ha anche riferito di aver ricevuto una telefonata di solidarietà da papa Francesco, che lo ha esortato ad andare avanti, e questo gli ha infuso serenità e coraggio (buon per lui). La parte più interessante della conferenza stampa è stata quella in cui monsignor Cipolla ha ammesso di aver ricevuto, in Curia, segnalazioni anonime già da molto tempo, e segnalazioni firmate sin dalla metà di maggio. Da maggio a dicembre i mesi sono sette: sette mesi abbondanti per agire, durante i quali, però, egli non ha fatto assolutamente nulla. A quanto pare, la segnalazione veniva da una delle donne che sono state coinvolte nelle tresche amorose e pornografiche di don Contin. La sua risposta alla malcapitata? Rivolgersi alla magistratura. Tutto qui. Non dice di aver fatto altro; solo di aver consigliato alla donna di andare dal magistrato. Ma di fare quattro chiacchiere con quel prete assatanato, non gli è venuta l’idea? Di mandare almeno qualcuno sul posto, a verificare, magari con la dovuta discrezione, nemmeno? E non ha pensato che, scaricando la patata bollente sul magistrato, non solo lasciava abbandonata a se stessa la donna in questione, ma esponeva la sua diocesi e la Chiesa tutta a subire uno scandalo enorme, a divenire oggetto di chiacchiere e critiche dall’universo mondo? Non si è reso conto che quell’invito ad andare dal magistrato equivaleva a innescare una bomba a orologeria contro la sua stessa diocesi? Il frate Cipolla della novella di Boccaccio, al confronto, era un’aquila di astuzia e di prontezza: ma questo qui, che atteggiamento pilatesco! Quale biasimevole mancanza di coraggio, di spirito d’iniziativa, di sollecitudine e di carità pastorale! Don Abbondio, al suo confronto, era un leone di ardimento, un fulmine di prontezza e di lungimiranza. Ma come: prima una parrocchiana, poi una seconda, vengono a dirle che nella tal parrocchia succedono cose inconcepibili, che si consumano orge sessuali da far impallidire un Petronio o un Marziale, e lei non sa far di meglio che declinare ogni responsabilità, lavarsene le mani e indirizzare quelle anime alla magistratura? Ma lei ha sbagliato mestiere, monsignore: lei non era nato per fare il vescovo, ma per fare il vigile urbano o l’operatore del numero verde: quelli che passano all’utente la linea desiderata, e non s’interessano affatto al merito della chiamata. Anzi, troppa responsabilità: lei era nato per fare il passacarte, o, tutt’al più, l’usciere, per dire soltanto: vada al terzo piano; vada all’ultimo ufficio a sinistra; l’orario è dalle nove alle dodici e trenta; e così via.
La parte più patetica della conferenza stampa è stata l’ultima. Dopo aver annunciato l’attivazione di linee verdi e variamente colorate per segnalare altri abusi verificatisi in parrocchia e in diocesi, e dopo aver annunciato la prossima costituzione di una apposita commissione, per vigilare sulla trasparenza e sul corretto funzionamento di tutte le attività pastorali, quasi un incitamento a denunciare preti, religiosi, diaconi e operatori pastorali da parte di tutti quanti abbiano subito abusi o abbiano anche solo il sospetto che ve ne siano (ma non le sembra, caro lei, che tutto questo avrebbe avuto un senso cinque o sei mesi fa, mentre adesso, dopo che i buoi sono scappati e la stalla è rimasta vuota, è perfettamente inutile, oltre che tristemente, miseramente esagerato e un tantino ipocrita, come per rifarsi un’impossibile verginità?), ha spiegato in lungo e in largo, con pignoleria da professore di diritti canonico, quali saranno le prossime tappe per ridurre don Contin allo stato laicale. Soprattutto, colpisce l’assenza di quelle parole che, sole, avrebbero forse potuto smorzare un po’ la penosa impressione che monsignor Cipolla abbia voluto scaricare ogni responsabilità su qualcun altro; sul magistrato per la parte attinente agli abusi di don Contin, su papa Francesco per quella relativa alla definitiva cacciata del prete dal clero cattolico. È assai significativo che abbia detto come a lui non risultino esser coinvolti nello scandalo altri sacerdoti, quando tutta Italia sa che non è così, e di uno, almeno, si sa benissimo chi sia, tanto più che costui non ha negato le sue responsabilità: la stampa ha persino riferito che, dopo essere stato ascoltato dal giudice, don Roberto è scoppiato in lacrime. Ma, soprattutto, colpisce il silenzio assordante circa una propria assunzione di responsabilità, fosse anche solo di tipo morale: dov’era, cosa faceva il vescovo di Padova, mentre uno dei suoi sacerdoti, in città, sotto il suo naso, trascinava nel fango la dignità della Chiesa e si abbandonava ad eccessi quali nemmeno un regista o uno scrittore specializzati in porcherie pornografiche, sarebbero, forse, riusciti a immaginare? E mentre lettere e segnalazioni pervenivano ai suoi uffici, dapprima anonime, poi debitamente firmate?
Altro che ex prete di strada; altro che “nuovo corso” progressista. Lei non sarebbe capace di fare il prete di strada per più di ventiquattr’ore, se il gioco si facesse duro: forse farebbe bene a imparare qualcosa dai nostri missionari diocesani in America Latina, e farsi raccontare da loro che cosa vuol dire essere preti di strada, da quelle parti. Se si è spaventato e non ha saputo muovere un dito davanti a una vicenda come quella di don Contin & soci, imbarazzante fin che si vuole, e anche turpe, ma, insomma, roba di tipo amatoriale, che cosa farebbe davanti alla mafia, agli spacciatori, agli sfruttatori delle prostitute: che cosa farebbe, se una vittima di quella criminalità si rivolgesse a lei, non per risolvere i problemi come potrebbe fare uno sceriffo, ma semplicemente nella sua veste e nella sua autorità di pastore d’anime? Se lei non ha saputo parlare né con don Contin, né con le donne che sono state le sue amanti, le sue vittime, poi le sue accusatrici, e se non ha saputo fare nulla per preservare dallo scandalo l’intera parrocchia, lei come se la caverebbe in simili frangenti?
Ma che aspetta a dimettersi il vescovo Cipolla?
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=11019:vescovo-cipolla-si-dimetta&catid=70:chiesa-cattolica&Itemid=96
CATTOLICI DALLA DOPPIA MORALE
La doppia morale dei cattolici progressisti: ma non era un vizietto tipicamente borghese? C’è una cosa che accomuna i cattolici progressisti specialmente se altolocati e gli anti-tradizionalisti: il vizietto della doppia morale
di Francesco Lamendola
C’è una cosa che accomuna i cattolici progressisti, specialmente se altolocati – professori universitari, teologi rampanti, cardinali, arcivescovi e vescovi politically correct, vale a dire doverosamente e devotamente bergogliani, immigrazionisti, pauperisti, ecologisti, terzomondisti, anti-populisti e anti-tradizionalisti: il vizietto della doppia morale. Non solo essi adoperano una doppia morale quando si tratta di giudicare i loro amici e i loro nemici; ma, anche nel caso dei loro amici, usano la doppia morale, ossia distinguono fra ciò che essi fanno nella loro vita privata, e ciò che fanno in veste pubblica. Anche se si tratta di sacerdoti, per i quali la vita privata e la vita pubblica non dovrebbero presentare evidenti discrepanze, o per dir meglio, dovrebbero essere egualmente limpide e trasparenti. Ed è un vizietto che, strano a dirsi, li accomuna con quelli che essi vedono come i loro capitali nemici a livello ideologico: i ricchi, i “borghesi”, i conservatori, i “benpensanti”, addirittura i non meglio precisati “clericali”, come li chiama, con infinito disprezzo, il misericordioso papa Francesco, supremo protettore di tutti i cattolici progressisti e modernisti.
Ma facciamo un passo alla volta. Ne avevamo già parlato in più occasioni, ma è necessario che vi torniamo sopra. Alcuni recenti fatti di cronaca segnalano l'esistenza di un grave problema all'interno della Chiesa cattolica: non il fatto che vi sono dei preti o dei religiosi indegni - questo, purtroppo, fa parte della natura umana; anche se una più attenta selezione dei futuri pastori d'anime non guasterebbe, data l'estrema delicatezza della loro funzione -, ma il fatto che per molti vescovi è più importante impegnarsi sul terreno delle attività sociali, assistenziali, umanitarie, magari con una spiccata preferenza per gli immigrati clandestini e con una minor sollecitudine verso i milioni di poveri italiani, che non accorgersi della miseria morale e spirituale che flagella, come una pestilenza, le loro diocesi e le loro parrocchie. Malati d'ideologia, e si sa di quale ideologia si tratta: una ideologia morta e sepolta ovunque, a causa dei suoi stessi fallimenti, oltre che dei crimini di cui si è macchiata, ma ancora viva nell'animo di molti, troppi vescovi e cardinali, e di moltissimi sacerdoti, tanto da fare velo ai loro occhi di fronte a una realtà evidente: la grande povertà di cui deve occuparsi il cristiano, oggi come ieri, o come domani, non è, o non è principalmente, o non è solo, quella economica, quanto piuttosto quella morale e spirituale. Un cristiano che non ha capito questo, ha capito poco del Vangelo: ha scambiato Gesù Cristo per un Che Guevara ante litteram, e la Bibbia per Il Capitale di Marx. Perciò può succedere che un vescovo dichiari di essere pronto a far sparire i simboli cristiani pur di stare in buone relazioni con gli islamici, e se ne vada a visitare i missionari dell'America Latina mentre la sua diocesi è sull'orlo di un vulcano per un gravissimo scandalo di tipo morale, del quale non si era accorto, o, peggio, del quale era informato, ma rispetto al quale aveva deciso di non fare assolutamente nulla. Ci riferiamo, ovviamente, alla vicenda, squallida oltre ogni limite di ciò che umanamente è sopportabile, di don Andrea Contin, parroco di San Lazzaro a Padova, e degli altri sacerdoti che, per ammissione di questi, sono coinvolti nel suo giro di orge a base di sesso estremo. Ma ci riferiamo anche a quell'altro scandalo, del quale si parla meno, del figlio del pluriomicida mafioso, condannato a diversi ergastoli, Totò Riina, anche lui condannato per reati di mafia e obbligato a risiedere lontano da Corleone, che ha scelto di stabilirsi a Padova e che se n'è andato tranquillamente a far da padrino di Battesimo a sua nipote. Per fare il padrino di Battesimo, bisogna essere cresimati e, inoltre, bisogna possedere dei requisiti morali minimi. Ora quel certo vescovo fa l'indignato, dice che è scandaloso che il giovanotto - il quale ha da poco pubblicato un libro per esaltare la propria famiglia - abbia potuto recarsi in Sicilia per fare da padrino alla nipotina. Ma chi gli ha rilasciato l'attestato di idoneità, oltre alla diocesi siciliana, è stata proprio quella di Padova. Di che cosa si indigna, dunque, monsignor Cipolla? È stato un prete della sua diocesi a farlo: dicendo che il giovane Riina ha seguito un percorso di preparazione alla Cresima. Tutto a posto, dunque? No di certo: ma quel prete che ha rilasciato l'attestato non ha agito molto diversamente dal suo vescovo, quando, davanti alle accuse che due parrocchiane di don Contin erano venute a fargli, ha risposto loro di andare dal magistrato. Entrambi si son lavate le mani, il prete e il suo vescovo; entrambi hanno scaricato ad altri la patata bollente, fuggendo dalle proprie responsabilità.
La miseria morale non è meno grave di quella materiale, anche se è diversa, ed è tipica delle società consumiste, dominate dall'edonismo, dalla solitudine, dall'indifferenza verso la persona. È già abbastanza grave che un lupo travestito da pastore, come don Contin, sia diventato parroco e lo sia stato per anni, senza che nessuno di coloro che lo hanno formato come sacerdote, e che poi lo hanno consacrato, si fosse accorto del suo lato oscuro; ma è anche più grave che egli abbia potuto sedurre e spingere all'estrema degradazione non poche delle sue parrocchiane - si parla di molte donne, forse quindici, forse di più ancora -, spacciandosi per loro consolatore e direttore spirituale, e soggiogandole psicologicamente fino al punto di distruggere in loro ogni senso di dignità, da spingerle a concedersi ad altri uomini, che, guarda caso, erano dei preti. Vedove o donne dai matrimoni infelici, che cercavano una parola di conforto e hanno trovato sulla loro strada un libertino assatanato, che ha profittato della loro confusione per farne delle schiave sessuali o qualcosa del genere: non è autentica e desolante povertà, questa, sul piano umano Ed è una povertà, secondo noi, perfino più drammatica di quella fisica: perché qui non si tratta di dare un piatto di minestra o di trovare un posto di lavoro a qualcuno che l'ha perso; qui si tratta di rifare una coscienza distrutta, di ricostruire una dignità scomparsa, di rifondare dei valori morali che sono andati completamente smarriti. Ed è difficile dire se lo smarrimento più grave sia stato quello del prete dissoluto, o dei suoi amici, o delle sue amanti/vittime, le quali subivano ogni sorta di umiliazioni e persino di violenze fisiche, cercando così, disperatamente, di esorcizzare o di annegare la loro frustrazione e la loro angoscia esistenziale. Di questa frustrazione e di questa angoscia, nei suoi aspetti patologici e specifici, dovrebbe occuparsi, forse, lo psichiatra; ma, nei suoi aspetti generali e morali, è dovere del pastore d'anime: cioè del sacerdote e di chi assiste, dirige e consiglia il sacerdote, cioè il vescovo. Un vescovo che parla con i suoi sacerdoti, che dimostra amicizia verso di loro, che si mostra disponibile ad ascoltarli e consigliarli (con chi può parlare, oggi, un prete, nella sua grande solitudine, se non col proprio vescovo?), è un pastore che ha compreso quale sia la sua vera missione: salvare le anime, indirizzare le anime, aiutare spiritualmente le anime. Ma se tutto quel che sa fare il vescovo è dire a quelle donne di andare dal magistrato; se non parla col prete traviato, né prima, né dopo che lo scandalo sia scoppiato; se lascia che le cose vadano avanti sino alla catastrofe, e intanto fa i suoi viaggi pastorali fra gli "ultimi" che vivono dall'altra parte del mondo, vuol dire che non ha capito dove stanno di casa gli "ultimi", né quale sia la sua autentica missione. E questo perché la sua mente è ingombra di ideologia: una ideologia laica, secolarizzata, immanentista, che non dovrebbe essere quella, non diciamo di un vescovo, ma neanche del più umile sacerdote, diacono o collaboratore pastorale.
L'errore dei cattolici progressisti, dei teologi della liberazione e dei preti e vescovi modernisti, è di credere che la vera fedeltà al Vangelo si concretizzi in qualcosa di molto simile alla lotta di classe; che il povero abbia sempre ragione, e che le sue ragioni vadano difese in linea di principio, anche se, a ben guardare, si scopre che ha torto marcio; e che la cosa più importante che debba fare chi annunzia il Vangelo sia quella di salire sulle barricate, fustigare l'egoismo dei ricchi, incitare gli oppressi alla riscossa, ignorando l'antica e sempiterna verità: che la vera battaglia non si combatte fra i "buoni" ( guarda caso, sempre e solo i poveri, ma in senso meramente economico) e i "cattivi" (cioè i ricchi), ma all'interno del cuore dell'uomo; perché il bene e il male, la generosità e l'egoismo, la giustizia e la malvagità, sono presenti in ciascuno di noi; e, forse, quelli che hanno più bisogno d'aiuto, oggi, non solo tanto i poveri in senso materiali, dei quali già si occupano svariate istituzioni, pubbliche e private, ma i poveri in senso morale e spirituale: persone alla sbando, senza più valori, senza più certezze, senza punti di riferimento, senza modelli autorevoli e credibili da seguire; persone che la civiltà moderna illude, inganna e poi abbandona, tradisce, delude, espone alla disperazione. È di questi nuovi poveri che devono occuparsi i sacerdoti, oggi, con il sostegno affettuoso e intelligente dei loro vescovi. Ora, per esempio, monsignor Cipolla, nella sua conferenza stampa, ha detto di esser pronto ad assistere don Contin per quanto possibile, perché, anche se sospeso a divinis, è pur sempre un sacerdote, un cristiano in difficoltà. Ma non crede che sia un po' tardi, caro monsignore? Non le sembra che avrebbe dovuto parlare prima, con quel sacerdote in difficoltà, che causava tanto male al gregge a lui affidato? Ma lei, quel male, non ha saputo vederlo nemmeno dopo; non lo vede nemmeno adesso. In quella stessa conferenza stampa, ha voluto ricordare e sottolineare che don Contin, come parroco, godeva della stima e dell'apprezzamento dei suoi parrocchiani. No, monsignore: davvero lei, parlando a quel modo, ha mostrato di non aver capito niente. Lei ha detto, testualmente, che don Contin “era stimato, in parrocchia, per le sue indicazioni pastorali e per le sue riflessioni spirituali”. Ma la gente della parrocchia, e lei stesso, non lo vedevate andarsene in giro con il macchinone, spendere e spandere nei migliori alberghi, sempre accompagnato da donne? Inoltre lei ha voluto fare una difesa d’ufficio preventiva di don Roberto Cavazzana, tirato in ballo dallo stesso Contin quale compagno di orge, con il miserabile argomento che non sono emerse (finora) responsabilità penali, e che il suo ruolo era subordinato, rispetto a quello del collega. Ma lei si sente quando parla, monsignore? Sta forse dicendo che farsi filmare, mentre ci si abbandona alle orge, è cosa meno grave che stare dietro la telecamera, a parità di tutto il resto? Ma si accorge fino a che punto lei sta offendendo il buon senso di chi l’ascolta e fino a che punto sta trascinando ancor più in basso, se possibile, con la sua goffa e meschina linea difensiva, la credibilità e la santità della diocesi che le era stata affidata? Uno come don don Contin non può essere, in alcun modo, un bravo parroco; perché, per un sacerdote, è impossibile separare la vita privata dalla vita pubblica, e contraddire nella vita privata i valori annunciati dal pulpito. Un sacerdote, per essere credibile, deve essere in grazia di Dio: ma questo, oggi, nei seminari, non lo insegnano più? Un impiegato comunale può anche essere un porcello nella sua vita privata, e tuttavia svolgere bene la sua professione: anche se perfino ai dipendenti pubblici, un tempo, lo Stato richiedeva un certo livello di moralità, perché, in qualche modo, essi rappresentano le istituzioni. Un ufficiale poteva essere obbligato a dare le dimissioni dall'esercito, se la sua vita privata diventava occasione di pubblico scandalo, o anche solo di pettegolezzi indiscreti. Ma un sacerdote, caro monsignore - dobbiamo spiegarglielo noi, che siamo laici – il perché non può passare per un buon parroco, se si comporta, nella sfera privata, come faceva don Contin? E poi, che razza di distinzione gesuitica è mai questa? Don Contin sfruttava l'abito sacerdotale per adescare le sue prede, poi le teneva in pugno con delle strane teorie circa il peccato e la misericordia di Dio: perciò non solo è impossibile che si tengano separate, nel suo caso, le due cose, ma sarebbe sbagliato e immorale farlo, quand'anche lo si potesse. E poi, si è dimenticato che costui faceva le sue porcherie nei locali della parrocchia, che aveva trasformato in un bordello di tipo sadomasochista? Gli uomini elle forze dell’ordine, quando sono entrati a perquisirle, non riuscivano a credere ai loro occhi. Era proprio necessario che lei, preventivamente informato di quel che bolliva in pentola, lasciasse che le cose arrivassero a quel punto, e che il mondo venisse a sapere quanto vergognose fossero le cose che accadevano in quella parrocchia? E se la parrocchia viene degradata fino a questo punto, come si può dire che don Contin era, a suo modo, un buon parroco? Bisognava avere il coraggio, invece, di dire a quei parrocchiani che seguitano a difenderlo e a parlarne bene, che sono completamente fuori strada, che non hanno capito nulla del Vangelo, e che, se davvero piaceva loro quel parroco, allora sono davvero degni di non avere un pastore di un altro livello morale. Ma lei, un discorso così, non ha il fegato per farlo; perché lei, come tutti i vescovi progressisti della "scuderia" di Bergoglio, pensa che il suo mestiere consista nel dare ragione al “popolo”, sempre e comunque, perché il popolo, nella vostra ideologia distorta, è più o meno la stessa cosa dei "poveri", che amate tanto (specie se stranieri; meno se nostrani); e poco importa se i poveri di cui parlava Gesù non erano tanto i poveri in senso fisico, ma soprattutto in senso morale, cioè quanti sono lontani da Dio. E chi è più lontano da Dio di questi preti depravati, insieme ai loro parrocchiani dalla manica larga?
La doppia morale dei cattolici progressisti: ma non era un vizietto tipicamente borghese?
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=11025:cattolici-da-doppia-morale&catid=70:chiesa-cattolica&Itemid=96
Le nomine dei vescovi sono il principale strumento con cui papa Francesco rimodella la gerarchia della Chiesa. Alcune nomine gli stanno talmente a cuore che non esita a saltare tutti i passaggi procedurali e fare lui tutto da solo.
Per l'Argentina, ad esempio, avviene quasi sempre così. Da quando è papa, Jorge Mario Bergoglio ha deciso lui di persona praticamente tutte le nuove nomine vescovili in quella nazione.
Ma anche in Italia Francesco ama riservare a sé le scelte chiave. Non solo per grandi diocesi come Roma, Palermo, Bologna o Milano, ma anche per talune sedi di media grandezza.
Una di queste è la diocesi di Ferrara, dove la nomina del nuovo vescovo è data per vicina.
Il vescovo in carica, infatti, Luigi Negri, ha compiuto i 75 anni canonici lo scorso 26 novembre e, come di norma, ha rimesso il mandato nelle mani del papa. Il quale in tutti i casi del genere può prorogare la sua permanenza in sede, oppure procedere subito al ricambio.
A Ferrara la proroga non c'è stata. E lo si può capire. Negri, da una vita in Comunione e liberazione e vicinissimo al fondatore don Luigi Giussani, è uno dei vescovi meno assimilabili allo stile di papa Bergoglio.
Per la scelta del suo successore le procedure sono quasi ultimate. A fine gennaio il nunzio in Italia Adriano Bernardini ha concluso le consultazioni di rito, in particolare quelle di tutti gli altri vescovi, anche emeriti, dell'Emilia Romagna, la regione in cui ricade Ferrara, e ora si appresta a inoltrare una terna di candidati alla congregazione vaticana per i vescovi, che la vaglierà e darà infine la sua indicazione al papa.
Tra i vescovi consultati ve ne sono alcuni in sintonia con Negri, come quello di Reggio Emilia Massimo Camisasca, anche lui di Comunione e liberazione e pupillo di don Giussani, o come l'arcivescovo emerito di Bologna Carlo Caffarra, uno dei quattro cardinali che hanno sottoposto al papa i famosi "dubia" sull'interpretazione di "Amoris laetitia".
Ma ve ne sono anche altri allineati in pieno a Bergoglio, come l'arcivescovo di Bologna da lui stesso insediato, Matteo Zuppi, e i vescovi di Ravenna Lorenzo Ghizzoni e di Modena Erio Castellucci.
Una simile varietà di orientamenti potrebbe quindi suggerire candidature d'equilibrio, non troppo sbilanciate in un senso o nell'altro.
Ma se papa Francesco volesse scegliere lui il nuovo vescovo di suo gradimento? O addirittura l'avesse già scelto?
L'ipotesi non è affatto da escludere.
Nella congregazione per i vescovi papa Francesco ha una squadra di suoi esecutori molto agguerrita, che mette facilmente fuori gioco – forte del mandato di Santa Marta – la congregazione e il suo cardinale prefetto, il canadese Marc Ouellet.
Compongono questa squadra il segretario del dicastero, il brasiliano Ilson de Jesus Montanari, fatto arcivescovo e chiamato a questo ruolo nevralgico dallo stesso Bergoglio, l'argentino Fabián Pedacchio Leaniz, poco visibile ma potente segretario personale del papa, e l'italiano Fabio Dal Cin, legatissimo soprattutto al secondo.
Non solo. Proprio monsignor Dal Cin, 52 anni, della diocesi di Vittorio Veneto, potrebbe essere il candidato che papa Francesco ha in mente per la successione nella diocesi di Ferrara. Forse più ancora di monsignor Giancarlo Perego, attuale direttore della pastorale per i migranti nella conferenza episcopale italiana, caldeggiato sia dal segretario generale e referente di Bergoglio per la CEI Nunzio Galantino, sia dall'ex direttore della Caritas di Bologna Giovanni Nicolini.
Nicolini è fondatore e superiore delle Famiglie della Visitazione, una comunità che si ispira a don Giuseppe Dossetti. Ed è legato a quell'influente think tank cattolico progressista, noto come "scuola di Bologna", che ha avuto nello stesso Dossetti il suo fondatore e ha nello storico della Chiesa Alberto Melloni e nel fondatore del monastero di Bose Enzo Bianchi i suoi attuali reggitori e guru, entrambi ultrabergogliani.
Corre appunto voce, tra costoro, che "l'Emilia Romagna è ormai nostra", proprio grazie alle nomine che papa Francesco si appresterebbe a fare non solo a Ferrara, ma anche nella vicina diocesi di Rimini, il cui attuale titolare, il vescovo Francesco Lambiasi, è alle prese con una esposizione debitoria talmente grave da esigere una sua sostituzione, non necessariamente punitiva visti i suoi appoggi romani e visto il precedente della diocesi di Terni, per il cui debito si svenò lo IOR e per il cui vescovo, Vincenzo Paglia, si dischiusero le praterie di alte cariche curiali.
Una postilla. Tra i cardinali e i vescovi membri della congregazione vaticana che vaglia le nomine, Bergoglio ha incluso – tra i primi atti del suo pontificato – proprio il predecessore di Negri a Ferrara, Paolo Rabitti.
Il quale aveva consegnato a Negri, al momento della successione, alla fine del 2012, una diocesi in stato disastroso, con i conti in disordine e – come non bastasse – con un nugolo di seminaristi inaffidabili, rastrellati qua e là da altre diocesi che li avevano respinti.
Forse avremmo bisogno di Vescovi santi, di vescovi con le ginocchia avezze all'inginocchiatoio,con la mente al Cielo e con il rosario tra le mani,con il cuore sanguinante d'amore per nostro Signore Gesù Cristo,con gli occhi pieni di lacrime per ogni anima che si perde,con la verità sulle labbra, con il profumo dell'Eucarestia,vescovi che spandessero il buon profumo di Cristo ad ogni parola.Avremmo bisogno di più sacerdoti di Dio e meno sacerdoti di strada, perchè a forza di stare in strada ,mi pare, finiscono come le donnine con le donnine.Povera la nostra amatissima chiesa sfigurata da individui di ogni specie.Traditori del bene più prezioso, sacro e immenso che il Signore potesse dare. Il dono del sacerdozio.Preghiamo per i nostri ministri che si convertano e credano alla potenza del Vangelo che è vivo perchè e Via Verità Vita.jane
RispondiEliminaQuesto è il risultato dell'aver seguito l'indicazione di Bergoglio:pastori che andassero e si sporcassero con il "profumo" delle pecore.... si sono incontrati nei vizi che in questo caso hanno condiviso e coltivato...infatti non si può dire che le "pie" donne nè siano vittime! Forse è il caso che i sacerdoti che vogliono dirsi tali si rivestano della grazia di Cristo e ci aditino le Virtù e lavorino per la vigna del Signore non per l'oricello di casa ,dicasi gruppi di preghiera che finiscno per divenire sterili a causa delle divisioni e invidie che vi si annidano!Sia Lodato Gesù Cristo!
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