CHIESA VERSUS MODERNITA' Come deve porsi la Chiesa rispetto alla modernità? L'essenza del mondo moderno per Papa Ratzinger. Una civiltà degna di tale nome affonda le radici
nel più remoto passato e ha l’ardire di protendere i suoi rami verso il futuro
nel più remoto passato e ha l’ardire di protendere i suoi rami verso il futuro
di Francesco Lamendola
Gira e rigira, il problema di fondo, per la Chiesa, è sempre lo stesso: come essa deve porsi nei confronti del mondo moderno.
Nella costituzione pastorale Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, pubblicata il 7 dicembre 1965, a conclusione dei lavori del Concilio Vaticano II, il Magistero si pone, per la prima volta, in un atteggiamento di apertura, di benevolenza, di collaborazione con le forze della società contemporanea, offrendo il suo contributo per la costruzione dell’uomo nuovo, secondo il modello di Cristo, e riconoscendo, a sua volta, di aver bisogno dell’apporto degli uomini che vivono nel mondo moderno, per sviluppare la sua missione universale. Curioso: era passato quasi esattamene un secolo dalla pubblicazione del Sillabo da parte di Pio X (8 dicembre 1864), e la prospettiva della Chiesa rispetto al mondo contemporaneo era stata letteralmente capovolta: dalla condanna e dal rifiuto di tutti gli aspetti caratterizzanti della società e della cultura moderne (liberalismo, socialismo, comunismo, ateismo, indifferentismo, libertà di coscienza, libertà di stampa, matrimonio civile) si era passati a una valutazione serena e ottimistica, piena di fiducia nella possibilità d’instaurare un rapporto aperto e collaborativo. Che cosa era successo, dunque? Chi aveva ragione e chi aveva torto: la Chiesa di Giovanni XXIIII o quella di Pio IX?
E non vale rispondere che avevano ragione entrambe, tenendo conto della diversità del momento storico e della rapida evoluzione sociale, culturale e politica verificatasi dall’epoca del Sillabo a quella del Concilio Vaticano II. Sarebbe una risposta pilatesca: infatti, la questione sul tappeto è di carattere molto più generale, e, anche se all’epoca di Pio IX non c’erano ancora stati i regimi comunisti e fascisti, né le due guerre mondiali e la bomba atomica, né il crollo degli imperi coloniali e la Guerra Fredda, l’interrogativo di fondo rimane intatto: è giusto che la Chiesa stabilisca con il mondo moderno un rapporto di apertura e di collaborazione, e che non si stanchi di dialogare con esso per il bene dell’umanità, oppure si tratta di un errore clamoroso, che potrebbe avere conseguenze irreparabili? È possibile che la Chiesa cattolica, prima del Concilio, si sia chiusa a riccio come in una cittadella assediata, per alcuni secoli – specialmente a partire dal Concilio di Trento -, rinunciando alla sua missione di andare nel mondo per convertirlo?
E non vale rispondere che avevano ragione entrambe, tenendo conto della diversità del momento storico e della rapida evoluzione sociale, culturale e politica verificatasi dall’epoca del Sillabo a quella del Concilio Vaticano II. Sarebbe una risposta pilatesca: infatti, la questione sul tappeto è di carattere molto più generale, e, anche se all’epoca di Pio IX non c’erano ancora stati i regimi comunisti e fascisti, né le due guerre mondiali e la bomba atomica, né il crollo degli imperi coloniali e la Guerra Fredda, l’interrogativo di fondo rimane intatto: è giusto che la Chiesa stabilisca con il mondo moderno un rapporto di apertura e di collaborazione, e che non si stanchi di dialogare con esso per il bene dell’umanità, oppure si tratta di un errore clamoroso, che potrebbe avere conseguenze irreparabili? È possibile che la Chiesa cattolica, prima del Concilio, si sia chiusa a riccio come in una cittadella assediata, per alcuni secoli – specialmente a partire dal Concilio di Trento -, rinunciando alla sua missione di andare nel mondo per convertirlo?
Innanzitutto, una precisazione filologica. Che cosa s’intende per “mondo moderno”, quando si parla del rapporto che la Chiesa deve, o dovrebbe avere, verso di esso? Esistono quantomeno due significati distinti, e non è lecito confonderli, a meno che lo si faccia apposta, per portare acqua al proprio mulino. Se con quella espressione si intende il fatto puramente oggettivo della società odierna, allora è un conto. Alla domanda: in che anno siamo?, la risposta deve essere, per forza, oggettiva: siamo nel 2017. Tuttavia, non pigliamoci in giro, l’espressione mondo moderno, o società moderna, o anche civiltà moderna (ammesso che di una ”civiltà” si possa parlare, o non si debba piuttosto parlare di una anti-civiltà, di una contro-civiltà, non hanno solamente un significato storico-cronologico: non servono solo a collocare la nostra realtà nel tempo; hanno anche, e soprattutto, un significato intrinseco, contenutistico. Sono l’equivalente del termine “modernità”, inteso nel suo senso più pregnante e “ideologico”. In questo significato (che è sempre presente, se non altro allo stato latente), la modernità è l’insieme di quei mezzi, di quegli stili, di quegli oggetti e di quelle aspettative che contraddistinguono la civiltà occidentale a partire dalla fine del medioevo, ma specialmente a partire dai secoli XVII- XVIII. Una civiltà, a differenza della semplice società, ha anche dei fini, particolarmente quello di indicare un orizzonte di vita, di lavoro e di speranza ai suoi figli, e, possibilmente, a tutti i suoi discendenti, anche a quelli che devono ancora nascere e che nasceranno fra parecchie generazioni, e perfino, in un certo senso, ai suoi morti: perché una civiltà degna di tale nome affonda le radici nel più remoto passato e ha l’ardire di protendere i suoi rami verso il futuro più lontano. Dunque, lì espressione “il mondo moderno” designa anche, e in primo luogo, l’insieme degli ideali, degli strumenti, degli orizzonti elaborati dalla ideologia della modernità. Perciò, per un cristiano, la sola domanda significativa è se la modernità, in questa accezione più “densa”, sia compatibile con il cristianesimo e con la Chiesa; se, nel suo DNA, vi sia un corredo cromosomico, per così dire, compatibile con essi. La risposta, però, non può essere umorale, soggettiva, sentimentale: la risposta deve essere ragionata, cioè scaturire da una precisa analisi storica, filosofica, etica della modernità. Eppure, quanta confusione perfino nell’uso del linguaggio! Non si capisce mai se chi parla del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno lo fa tenendo presente il primo o il secondo significato. Quanto ai Padri conciliari che compilarono la Gaudium et Spes, bisogna domandarsi su che cosa poggiasse il loro ottimismo, la loro fiducia di poter efficacemente interagire con la società moderna, ma anche di poter ricevere da essa un apporto prezioso. Evidentemente, il loro giudizio sulla modernità non era più così severo, come lo era stato quello di Pio IX, e, in una certa misura, anche dei pontefici susseguenti, fino a Pio XII compreso. Tuttavia, se la radice della civiltà moderna è stata la secolarizzazione, e, nello stesso tempo, la trasformazione dell’Europa in senso capitalista, massonico, industriale e finanziario, ossia nella prospettiva di una “civiltà del denaro e del profitto” tesa a sostituire completamente la civiltà del lavoro e dello spirito, allora è illusorio, o peggio, pensare che la Chiesa possa trovare un proficuo terreno comune per collaborare con essa. Qui, evidentemente, vi fu anche un grave errore di ordine non solo logico, ma altresì morale: gli uomini “moderni” non sono, soltanto, gli abitanti del mondo moderno, che hanno avuto in sorte di nascere in questa particolare epoca; sono anche delle anime esposte al pericolo gravissimo di subire gli effetti di un radicale allontanamento da Dio, e gettate nella bolgia infernale di una lotta feroce di tutti contro tutti – perché, se Dio non c’è, allora tutto è permesso all’uomo contro i suoi simili -, al solo fine di alimentare la ricchezza di pochi e di cooperare alla distruzione dei valori autenticamente umani. Se non è la Chiesa cattolica a sapere, e a tenere per centro, che una società che si allontana da Dio, si avvicina, per ciò stesso, e finisce per cadere sotto l’influenza del diavolo, chi mai dovrebbe saperlo e ricordarsene? E se non è la Chiesa cattolica a farsi carico della minaccia incombente che venga strappata l’anima del mondo e che il principe delle tenebre divenga il signore dell’umanità intera, votandola alla distruzione totale, chi saprà o vorrà farlo, al suo posto?
Scriveva Joseph Ratzinger su questo argomento (in: Dogma e predicazione, 170 sgg.; cit. in Jospeh Ratzinger, Collaboratori della verità. Un pensiero al giorno, a cura di suor Irene Grassl, titolo originale: Mitarbeiter der Wahrheit: Gedanken für jeden Tag, Würzburg, Verlag Johan Wilhelm Naumann, 1990; traduzione dal tedesco di Annarita Torti, Libreria Editrice Vaticana, 205, e Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 2006, pp. 224-226):
Il compito del cristiano, oggi, non dovrebbe essere quello di stare accanto al mondo odierno, in atteggiamento di fondamentale disapprovazione, bensì quello di purificare, di esorcizzare, e così di liberare dal suo interno – nella “chiarita cristiana” – il mondo contemporaneo della scienza e del lavoro.
Vivendo il mondo a partire da questo asse di riferimento, e solo così, il cristiano può nello stesso tempo contribuire a eliminare criticamente, a “neutralizzare” ciò che di fatto, in ogni epoca, è opera in essa delle “potenze di questo mondo” (in senso negativo). Se, di fronte all’innegabile presenza anche di questo fattore il sì del cristiano al “mondo d’oggi” dev’essere un sì critico, questo non vuol certo dire però che egli possa impegnarsi solo a metà, perché non gli sarebbe possibile fare altrimenti. Ciò non può voler dire che egli se ne debba occupare solo perché trascinato, e non di sua spontanea iniziativa. La dedizione a metà non serve a niente. La risposta del cristiano ai problemi di oggi non può essere per metà un credere e per metà un lasciarsi trascinare da un mondo, dal quale non può tirarsi fuori. La sua risposta dev’essere piuttosto una fede piena, e un assenso al mondo odierno, nella sua interezza, sulla base della totalità della fede, cioè un agire sulla base della responsabilità dell’amore nel contesto di un universo di prestazioni, strutturato secondo le coordinate della scienza e della tecnica.
Un simile servizio, reso di tutto cuore, di fronte ai compiti posti dal mondo d’oggi, non significa affatto un’infedeltà nei confronti della stoltezza della croce, a favore invece di un’ingenua fede ottimistica nel progresso. Proprio l’oggettività di un servizio accolto con tale spirito richiede (se, diversamente dalla mentalità corrente, si vuol comprendere tutto a partire dall’intimo nucleo della “chiarita cristiana”) la disponibilità a perdersi, a donarsi ogni giorno, di nuovo; senza questo perdersi non si può mai dare autentico ritrovarsi.
L’ascesi cristiana non diventa superflua, anche se le sue forme cambiano. Ed è chiaro: anche il servizio dell’amore cristiano alla persona non diventerà mai qualcosa di superfluo, per quanto possa cambiare l’aspetto del mondo.
Colpisce come, in questa pagina di prosa, Joseph Ratzinger sintetizzi l’essenza del mondo moderno nel fatto della scienza e della tecnica, e sostenga come, in tale ambito, la Chiesa può e deve imparare dalla cultura secolare: una interpretazione della modernità che è, a dir poco, riduttiva, senza contare che non evidenzia per nulla come l’uomo moderno, per affrontare e risolvere i problemi che lo attanagliano, ha bisogno di ben altro che macchine e tecniche. Colpisce anche, da un lato, il fatto che egli paragoni l’epoca attuale a qualsiasi altra epoca della storia, relativizzando la minaccia diabolica: le “potenze del mondo”, secondo lui, hanno sempre operato, e continuano ad operare, nella storia umana, contro i disegni della Provvidenza (il che è vero), per cui l’epoca moderna non presenta nulla di nuovo o di particolarmente anticristiano rispetto a tante altre (il che è falso); dall’altro, il dovere del cristiano di gettarsi, di donarsi, di “perdersi” nel servizio, con un impegno totale e mettendosi in gioco sino in fondo, senza però distinguere opportunamente fra impegno nel mondo e impegno per il mondo. Il cristiano ama il prossimo, dunque ama anche il mondo; ma se il mondo moderno è il mondo che rifiuta Dio, che promuove la logica di Caino, che vorrebbe deificare l’Uomo, allora, in questo mondo diabolico, il cristiano deve, sì, impegnarsi e donarsi, ma non per riconoscerlo come un valido interlocutore, bensì per convertirlo. Il cristiano deve distinguere fra coloro che vivono nel mondo e coloro che si identificano con questo mondo di tenebre (come lo chiama san Paolo), che si oppone al Vangelo. È una distinzione essenziale. Non si può servire sia Dio che Mammona: se si serve il mondo, non si serve Dio, lo si respinge; e viceversa. Gesù stesso ha mandato i suoi discepoli a predicare nel mondo la buona novella, ma ha raccomandato loro di non insistere di fronte a chi non la vuole accogliere, bensì di scuotere la polvere dai calzari e andare altrove. Sono parole chiare, concetti chiarissimi. Gesù si è perfino rifiutato di pregare per il “mondo”, durante la solenne preghiera al Padre al termine dell’Ultima Cena; e a Erode, l’assassino di Giovanni il Battista, che lo interrogava, non ha risposto nemmeno una parola (mentre con Pilato aveva dialogato e gli aveva perfino dichiarato lo scopo della sua missione: rendere testimonianza alla Verità). Questo significa che il cristiano deve rapportarsi al mondo che lo circonda con discernimento: sottovalutare il pericolo o ignorare l’ambiguità di certe relazioni non fa parte del suo bagaglio intellettuale e spirituale.
Oggi va molto di moda l’idea che il “vero” cristiano debba andare più che mai nel mondo, sporcarsi le mani, prendere l’odore di pecora e farsi, alla lettera, operaio fra gli operai della fabbrica; e che il prete ideale, di conseguenza, sia il prete “di strada”, abituato a frequentare gli ultimi, i rifiutati, i disprezzati. In tutto questo c’è un grosso malinteso: perché, quando essi dicono che anche Gesù faceva così, non hanno forse ben chiaro che Gesù lo faceva, entro certi limiti, ma per convertire e non per assecondare le anime nel disordine del peccato; e, inoltre, dimenticano il piccolo particolare che essi non sono Gesù. Gesù sapeva attraversare la palude senza inzaccherarsi, sapeva camminare nel fango senza che il fango gli restasse attaccato ai piedi; ma nessun uomo dovrebbe presumere di poter fare la stessa cosa: a sguazzare nel fango, ci si sporca, eccome. È significativo che proprio quei cattolici progressisti che tanto sbandierano il dovere di andare fra gli ultimi e di accogliere sempre e chiunque, non riconoscono, poi, il tratto essenziale della civiltà moderna: la pretesa di fare a meno di Dio. E mentre vedono e denunciano le “strutture di peccato” come le banche o le multinazionali, non vedono quella struttura di peccato globale che è la civiltà moderna, basata sull’avere e sull’apparire, e negatrice dell’essere. È una cosa piuttosto strana, vero?
Come deve porsi la Chiesa rispetto alla modernità?
di Francesco Lamendola
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