QUELLE BRUTTE STORIE DEL VATICANO II CHE NESSUNO RACCONTA PER NON INTACCARE IL SUPERDOGMA …
Siamo alla “caduta dell’impero” e tra non molti anni la Chiesa Cattolica come sino ad oggi l’abbiamo conosciuta e intesa non esisterà più; esisterà “altro”. Il nostro sistema ecclesiale ed ecclesiastico si è già sfasciato dall’interno, ed attualmente è in corso una inquietante trasformazione. Purtroppo, sia nel Collegio Episcopale sia nel Collegio Sacerdotale non abbiamo un numero neppure minimo di elementi in grado di fronteggiare questo progressivo decadimento
«Se non vogliamo nasconderci nulla, siamo senz’altro tentati di dire che la Chiesa non è né santa, né cattolica: lo stesso concilio Vaticano II è arrivato a parlare non più soltanto della Chiesa santa, ma della Chiesa peccatrice; se a questo riguardo gli si è rimproverato qualcosa, è per lo più di essere rimasto ancora troppo timido, tanto profonda è nella coscienza di noi tutti la sensazione della peccaminosità della Chiesa».
Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, 1968
Ariel S. Levi di Gualdo
Ho dedicato anni della mia formazione al sacerdozio, appresso anni della mia felice esistenza sacerdotale allo studio dei concilî della Chiesa, in particolare dei grandi concilî dogmatici, perché senza un criterio di conoscenza perlomeno generale, non si può capire in che misura l’ultimo concilio celebrato dalla Chiesa rientri non solo in un processo di continuità, perché il Vaticano II è la sintesi teo-logica di tutti i precedenti concili della Chiesa.
Per fides e per ratio, credo che il Vaticano II sia stato un’opera di grazia dello Spirito Santo nella Chiesa di Cristo. Non possiamo però eludere che alcuni cosiddetti iper–conciliaristi hanno mutato questo concilio in una sorta di super-dogma, come a suo tempo lamentò il Cardinale Joseph Ratzinger, che in quella assise sedette come perito, quasi come se al termine di questo concilio fosse tutto divenuto diverso, mentre ciò che sussisteva prima non potesse quasi più essere considerato; o nel caso fosse meritevole di considerazione, poteva esserlo solo alla luce del Vaticano II. Un concilio che oggi non è letto e trattato come una parte armonica della complessiva tradizione della Chiesa, ma come un inizio del tutto nuovo, secondo la cosiddetta ermeneutica della rottura e della discontinuità della Scuola di Bologna, che in tal senso non è semplicemente “discutibile”, ma proprio perniciosa.
Il concilio Vaticano II non ha sancito nuovi dogmi, però ha stabilito delle nuove discipline. E sebbene sia stato presentato e celebrato come un Concilio pastorale, non pochi vescovi, presbiteri, teologi e laici cattolici, lo presentano «come se fosse per così dire il superdogma, che rende tutto il resto irrilevante», mentre in verità «possiamo rendere davvero degno di fede il Vaticano II se lo rappresentiamo molto chiaramente così com’è: un pezzo della tradizione unica e totale della Chiesa e della sua fede»[1].
IL PROBLEMA NON È IL CONCILIO, MA IL POST-CONCILIO DEI KÜNG, CHE ASSIEME AI VARI BAUM E FRANZONI SONO I COERENTI PRODOTTI FINITI DI KARL RAHNER E DELLA NOUVELLE THÉOLOGIE
Ciò che più volte ho posto in discussione a livello storico-teologico-scientifico, non è stato certo il Concilio Vaticano II ed i suoi documenti, che sono e che restano atti di alto magistero, ma la pessima interpretazione data a molti di essi, per un problema che ritengo sia tutto quanto di linguaggio, perché per la prima volta nel corso della storia, la Chiesa ha rinunciato al proprio linguaggio metafisico, preciso e diretto, per esprimersi in un linguaggio che risente in tutto e per tutto dello stile del romanticismo tedesco decadente.
Ciò che manca a distanza di decenni, è una analisi storico-ecclesiale, lucida e imparziale, all’occorrenza impietosa, del Vaticano II, che è stato eminentemente il concilio dei teologi, non pochi dei quali avrebbero dovuto essere tenuti a prudente distanza da quell’assise, mentre invece, proprio alcuni degli elementi più pericolosi, hanno dato impulsi, idee e spinto poi al voto frange intere di episcopato, cito tra tutti costoro il più pericoloso e subdolo in assoluto: il gesuita tedesco Karl Rahner, il quale non ha enunciato delle eresie formali, ma ha posto tutte le peggiori basi per indurre interi filoni della teologia a cadere in un pensiero eterodosso di matrice prettamente filo-protestante. Ma a tal proposito rimando alla illuminante opera di Giovanni Cavalcoli[2].
Discorso a parte meriterebbero i vari periti del Concilio poi risultati determinanti nella successiva formulazione di tutte le peggiori derive post-conciliari che anni dopo abbandoneranno il sacerdozio dopo aver fatto pubblica apostasia dalla fede cattolica, come l’allora Abate Ordinario dell’Abbazia di San Paolo fuori le mura, Dom Giovanni Franzoni, in seguito sposato civilmente con una giapponese atea e oggi senile sostenitore di aborto, eutanasia, omosessualismo e via dicendo; oppure Padre Gregory Baum, che su incarico del Cardinale Agostino Bea S.J. fu una delle principali penne della Nostra Aetate, il quale in tarda età, dopo avere abbandonato in precedenza il sacerdozio, si è dichiarato omosessuale praticante già dall’epoca in cui lavorava all’interno dell’assise conciliare …
… punta di diamante, tra questo genere di periti conciliari, rimane il presbitero svizzero Hans Küng, che rappresenta il prodotto finito più coerente del pensiero di Karl Rahner portato al suo naturale sviluppo. Quando Hans Küng era sempre vagamente cattolico si limitò infatti a mettere solo in dubbio il dogma della infallibilità pontificia[3], in un crescendo di pubbliche eresie a tal punto gravi da far venire voglia di chinarsi a baciare le mani con devozione alla profonda cattolicità di un prete ariano, che dinanzi a siffatte empietà finirebbe col risultare un autentico modello di integrità dottrinale.
I naturali prodotti episcopali di Karl Rahner portato al suo naturale sviluppo dal küngpensiero sono invece i vari Walter Kasper ed i Karl Lehmann, i cui nipotini odierni sono i vari Bruno Forte, Nunzio Galantino, Arrigo Miglio, mentre i bisnipoti sono i vari Matteo Maria Zuppi e Corrado Lorefice. A breve vedranno la luce i tris nipoti, che saranno i vescovi direttamente atei.
NELLA STORIA DEL VATICANO II PARLANO ANZITUTTO I NUMERI, MA PURTROPPO NESSUNO LI HA MAI VOLUTI LEGGERE E ANALIZZARE
Quando tra il 1869 e il 1870 fu celebrato il Concilio Vaticano I, i Padri che componevano l’assise erano 640. Novantatre anni dopo, quando tra il 1963 e il 1965 fu celebrato il Concilio Vaticano II, l’episcopato mondiale s’era frattanto quadruplicato ed i Padri che componevano l’assise erano 2.440. Numeri certamente dovuti all’incremento dei cattolici e alla erezione di molte diocesi nei vari angoli del mondo, espressione di una Chiesa ormai veramente universale, non più una Chiesa perlopiù europea con varie missioni sparse per il mondo. Temo però che nessuno, vuoi per pudore vuoi per correttezza politica, ha mai avuto il coraggio di spiegare in modo preciso e lucido cosa questo abbia comportato. Anzitutto si rese sempre più necessario creare in varie parti del mondo un cosiddetto “episcopato locale”, cosa che avvenne in modo massiccio, a volte anche sconsiderato tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, il tutto per ragioni di carattere più politico che pastorale. Molte erano infatti le comunità cattoliche sparse per il mondo che non vivevano bene la presenza di vescovi stranieri, per quanto indicati come “vescovi missionari”. Soprattutto quando la nazionalità di questi vescovi, chiamati in modo blando e rassicurante “vescovi missionari”, era la stessa di coloro che poco prima avevano colonizzato quei territori: spagnoli, francesi, belgi, olandesi …
Si sa bene che per dare vita a un episcopato locale possono occorrere generazioni, se non si vuol correre il rischio di ritrovarsi con vescovi che sono di fatto una via di mezzo tra degli sciamani, dei grandi bramini e dei capi-tribù, anziché pastori messi alla guida del gregge di Cristo. Così come sappiamo che la ragione politica è quella che ha sempre frodato la Chiesa, che per avere garanzie legate al proprio riconoscimento giuridico, allo svolgimento del proprio ministero di evangelizzazione, ma non ultimo anche e soprattutto al conseguimento di prebende e benefici economici, ha stipulato vari concordati con i governi di molti paesi del mondo. E laddove non è stato possibile chiedere e imporre alla Chiesa la nomina dei vescovi da parte dei governi ― cosa più volte tentata, ma sempre e di prassi respinta dalla Santa Sede ―, si è giunti ad accordi che prevedevano che il vescovo eletto fosse cittadino nativo di quel Paese e che sulla sua nomina vi fosse un qualche gradimento, anche se solo formale, da parte dello Stato. In diversi concordati con i vari Paesi del mondo è stata pattuita la approvazione della nomina dei vescovi da parte dello Stato, come prevedeva lo stesso concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede sino alla sua revisione avvenuta nel 1984. I vescovi, in Italia, in quanto investiti di una sede residenziale, dovevano infatti prestare giuramento di fedeltà nelle mani del Presidente della Repubblica. A tal proposito rimane impresso nelle memorie letterarie il racconto fatto dal Cardinale Giacomo Biffi, quando prima di prendere possesso della cattedra episcopale della sede metropolitana di Bologna, prestò giuramento nelle mani dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini. Narra il compianto Arcivescovo di Bologna:
Pertini, con grande amabilità, mi diede alcune notizie, che forse pensava potessero risultare utili alla mia futura missione. Mi disse di essere ateo e m’informò che il Paradiso non c’era; ma, se per caso ci fosse stato, lui era sicuro di andarci, perché la sua mamma (che era una santa donna) dall’alto l’avrebbe aiutato a salirvi e il Papa Giovanni Paolo II (che era suo amico) l’avrebbe spinto dal basso [4].
LA SCARSA FORMAZIONE DOTTRINALE DEI VESCOVI E LA LOCALITÀ CHE PREVALE INFINE SULLA UNIVERSALITÀ
Proviamo adesso ad analizzare in modo lucido e obiettivo l’ultimo Concilio in rapporto alla situazione dell’episcopato mondiale d’inizi anni Sessanta.
Un numero tutt’altro che irrilevante di vescovi giunti da varie parti del mondo a Roma per formare l’assise del Vaticano II, erano dei prelati che potremmo definire come vescovi locali di prima generazione, con delle conseguenze tutt’oggi taciute in nome di quella correttezza che quanto più è politica tanto più è di per sé falsa, fuorviante e nociva, perché produce come risultato la alterazione della realtà. Ebbene, essendo consapevole che se mi mettessi a indicare nei dettagli alcuni particolari Continenti del mondo o Paesi in via di sviluppo darei vita ad un inutile parapiglia, mi limiterò a parlare dei fatti, tacendo sulle specifiche nazionalità dei vari vescovi, molti dei quali instancabili pastori e santi evangelizzatori, alcuni di loro morti in fama di santità e come tali venerati tutt’oggi da intere popolazioni locali, ma dotati di una formazione dottrinale che faceva acqua da tutte le parti. Per non dire che la maggior parte dei vescovi presenti in quella assise non erano in grado di capire neppure il latino, che lungi dall’essere un anacronismo, è sempre stato ― ed in specie in frangenti come i sinodi dei vescovi od i concili ecumenici ―, la lingua universale ampiamente coagulata mediante la quale la Chiesa si esprimeva con un lessico univoco, preciso e soprattutto con dei termini dottrinali che avevano richiesto secoli di studio; a volte occorsero anche più concilî per coniare certe parole divenute precisi termini teologici, specie nel linguaggio dogmatico. Nel Vaticano II la Chiesa scelse un nuovo stile di linguaggio, non più il preciso e rigido linguaggio metafisico; e questo finì col creare, non tanto sul momento ma nell’immediato futuro, problemi non indifferenti specie nella recezione dei documenti e della loro concreta applicazione pastorale.
Alla base del Vaticano II stanno due buone intenzioni che nella successiva stagione del post-concilio finiranno col risultare non buone bensì devastanti: anzitutto, la perdita di un linguaggio universale, preciso e univoco; per seguire con la località ed i particolarismi della località ― il cosiddetto concetto di Chiese particolari o locali ―, che in nome di usi, costumi, tradizioni e via dicendo, prenderanno il sopravvento sulla universalità. Non più quindi la località o particolarità come parte della universalità e sotto stretto controllo della universalità, ma la località e la particolarità al di sopra della universalità. Tutto questo con un rischio che a distanza di mezzo secolo si sta delineando nel nostro presente sempre più allarmante: la potenziale nascita di una sorta di Federazione Democratica delle Chiese Cattoliche, se non peggio la nascita della Unione Mondiale delle Chiese Cristiane. Nell’uno e nell’altro caso, le diaboliche avvisaglie, purtroppo le abbiamo già avute tutte …
Il problema del sopravvento della particolarità sulla universalità ha creato a livello ecclesiale mondiale un sovvertimento come mai prima s’era visto. Nella Chiesa sono sempre esistiti dei riti particolari, come esiste un Codice di Diritto Canonico delle Chiese orientali diverso da quello Romano, il tutto non è certo una novità legata al Vaticano II. Il problema è che oggi la particolarità non è più sottomessa a Roma, intesa come cuore della universalità, aprendo in tal modo le porte alla frattura interna del principio di unità della Chiesa.
Prima che il Santo Pontefice Pio V emanasse il suo Messale Romano, quello che i tradizionalisti chiamano in modo erroneo la Messa di sempre, esistevano decine di messali diversi. Il termine Messa di sempre è quindi liturgicamente incoerente e teologicamente errato, perché la Messa di sempre si celebra sin dalla istituzione dell’Eucaristia fatta dal Verbo di Dio. Per non dire poi che il messale della cosiddetta Messa di sempre, dall’epoca di San Pio V al 1962 ha subìto un totale di circa diciotto diverse variazioni. Infatti, proprio la disciplina dei Sacramenti, quindi dei sacri riti, nella storia della Chiesa è stata la più soggetta a variazioni e modifiche formali, avvenute sempre per esigenze di carattere pastorale o pedagogico-pastorale, sempre fatta salva la sostanza, che è opera e dono divino, quindi come tale immutabile.
IL GRANDE COLPO DI MANO DEI VESCOVI E DEI TEOLOGI DEL NORD EUROPA SUI PADRI DELLA CHIESA RIUNITI NELL’ASSISE DEL VATICANO II
Nell’assise del Vaticano II molti “giovani” e ingenui vescovi, furono giocati come delle biglie da marpioni di antico pelo come i Vescovi del Nord dell’Europa, all’interno di una assemblea dalla indubbia matrice dominante tutta quanta nord europea. Perché gli antichi barbari, più volte sconfitti e infine convertiti al Cristianesimo, dopo secoli volevano portare a compimento con successo il loro mai assopito desiderio di rivincita sulla sempre odiata romanità. E siccome, ciò che non era tedesco, non era considerato a sufficienza teologico, ecco che molti di questi Vescovi ingenui, umilmente consapevoli delle loro carenze, oltre che coscienti del fatto che a livello di formazione e preparazione, dinanzi a un Vescovo italiano, tedesco, francese, olandese, erano più o meno alla stregua di un modesto curato di campagna, si presero come consulenti dei giovani teologi tedeschi. Questi teologi-consulenti, che piaccia o meno ai sostenitori del Vaticano II inteso come «superdogma», hanno influenzato e talora manipolato intere frange di episcopato. E non pochi di questi giovani teologi erano degli autentici ricettacoli delle peggiori eresie moderniste, le stesse che a partire dal Santo Pontefice Pio X furono tenute a bada per diversi decenni, ma che adesso, per una sorta di diabolico paradosso, emergevano e tentavano di prendere il sopravvento proprio dall’assise di un grande Concilio della Chiesa.
È cosa nota agli addetti ai lavori ― conoscitori sempre più ridotti in numero, purtroppo! ― circa il modo in cui la cosiddetta cordata tedesca, o se preferiamo la moderna orda barbarica, tentò col suo esercito di periti e consulenti di far passare il “collegialismo selvaggio” nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium. A tal proposito sarebbe interessante leggere ― meglio ancora rendere proprio pubbliche ―, le bozze e le relazioni da costoro ispirate a vari vescovi, non pochi dei quali neppure lontanamente consapevoli della pericolosa ambiguità di certe parole, ma soprattutto di taluni concetti apparentemente vaghi, ma dalla devastante portata, qualora fossero finiti in quello come in altri documenti del Vaticano II.
Nella trappola ― perché di una vera e propria trappola si trattava ― non cadde però il Beato Pontefice Paolo VI, che coadiuvato dalle migliori menti dell’ortodossia teologica, all’epoca ancora esistenti, fece imprimere nella Lumen Gentium[5] delle parole assolutamente non equivoche per quanto riguarda la figura del Romano Pontefice in rapporto col Collegio e corpo episcopale, il quale Collegio e corpo episcopale:
[…] non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa […][6]
Tutto ciò che però non è passato nel Concilio, ma soprattutto nei suoi documenti ― salvo alcune accettabili e non poi così gravi ambiguità, perlopiù formali e non sostanziali, che potevano comunque essere corrette con successive integrazioni, sebbene ciò non sia mai stato fatto ―, è invece passato in seguito nella lunga e devastante stagione del post-concilio, che tutt’oggi è sempre in corso.
Il dramma, a suo modo unico nella storia della Chiesa, è che alla chiusura del Vaticano II, anziché procedere alla sua applicazione, si è proceduto all’ apertura del post-concilio, che coi suoi pretesti interpretativi ha mutato l’ultimo Concilio della Chiesa in altro, dando vita alla sempre aperta stagione del post-concilio, che ha alterato, adulterato se non a volte veramente distrutto il Vaticano II nella sua concreta applicazione pastorale e dottrinale.
La lacuna che possiamo imputare alla struttura pastorale del Concilio Vaticano II, dal quale come ripeto sono nate delle nuove discipline che sono e che restano vincolanti per tutta la Chiesa universale, è data dal fatto che al contrario dei precedenti concilî, a partire dal Tridentino, che fu in parte dogmatico, in parte disciplinare e in parte pastorale, alla loro chiusura si procedette alla attuazione e alla applicazione delle discipline e delle direttive pastorali contenute in canoni ben chiari e precisi. Diversamente, dopo il Vaticano II, anziché la fedele applicazione, nacque invece la interpretazione arbitraria, a volte persino eterodossa, vale a dire quel che da tempo mi diletto a definire come il concilio egomenico dei teologi interpreti che hanno dato vita ad un concilio mai scritto dai Padri della Chiesa riuniti in assise dal 1962 al 1965.
LA RIFORMA LITURGIA È PARADIGMA DI CIÒ CHE MAI IL CONCILIO HA SANCITO E DI QUELLO CHE I SUOI FALSI INTERPRETI HANNO MESSO IN SCENA NEL POST-CONCILIO IN MASSIMO SPREGIO ALLA SACRALITÀ DELL’EUCARISTIA
Uno degli esempi più eclatanti del tradimento e dello sviamento dai documenti del Vaticano II è il modo in cui è stata vergognosamente e pericolosamente disattesa la Sacrosanctum Concilium, la costituzione sulla sacra liturgia e sulla sua riforma; che ricordiamo fu una riforma avviata dal Venerabile Pontefice Pio XII, il quale istituì nel 1946 una commissione per la riforma generale della liturgia. Questa commissione, dopo ampio lavoro preparatorio, cominciò i propri lavori nel 1948. La commissione confluì poi, nel 1959, nella commissione preparatoria del concilio per la riforma della liturgia, motivo questo per il quale fu il primo documento ad essere promulgato dal Vaticano II.
In ogni caso, il padre della riforma liturgica è di fatto il Sommo Pontefice Pio XII, che non solo dette avvio ai lavori, ma provvide a riformare i riti della Settimana Santa[7]. Pertanto, quei teologastri che oggi, ignoranti come pochi, presentano più o meno subdolamente il Sommo Pontefice Pio XII come emblema della cosiddetta vecchia Chiesa pre-conciliare, nella loro crassa ignoranza non capiscono e non vogliono capire che è stato proprio lui ad aprire le porte della riforma liturgica, ma soprattutto a creare tutti i presupposti per la celebrazione di un successivo grande Concilio della Chiesa.
Gli iper-conciliaristi del post-concilio, dovrebbero chiarire e soprattutto dimostrare quanto segue: in qual passo di questa costituzione sulla riforma della sacra liturgia sono racchiusi, permessi e soprattutto legittimati tutti i colossali abusi liturgici rivendicati quasi come se fossero dei “riti propri” da certi scalmanati gruppi laicali, in particolare Neocatecumenali, Rinnovamento nello Spirito Santo e Carismatici? Dove e in quale passo di questa costituzione, sono permessi gli abusi liturgici, rasenti a volte la vera e propria profanazione della Santissima Eucaristica, che non pochi sacerdoti compiono all’altare durante le loro celebrazioni creative, o per meglio dire buffonesco-egocentriche?
Dove, la Sacrosanctum Concilium, ha disposto che fossero abbattute le balaustre all’interno delle chiese storiche e scempiati antichi altari artistici, per creare al loro posto dei banconi stile mensa dei ferrovieri ? Quale documento o quale decreto pontificio ha disposto che i sacrari delle chiese[8] fossero distrutti o sigillati, le borse dei corporali usate per la raccolta delle elemosine, i veli per la copertura dei calici gettati via[9], i pulpiti ed i confessionali lignei venduti agli antiquari, gli inginocchiatoi sostituiti con sedie da cinema? Dov’è scritto che al posto del suono dell’organo si dovesse udire quello delle chitarre elettriche, delle batterie e dei bonghi?[10] Quale documento ha disposto che al posto del canto gregoriano ci si trovasse ad udire, dalla sera alla mattina, dentro le chiese, mentre i fedeli andavano a ricevere il Santissimo Corpo di Cristo, la canzone Dio è morto, scritta e cantata dal comunista militante Francesco Guccini? [11]. In base a quale documento, certi odierni vescovi, hanno imposto ai loro presbìteri di istruire i fedeli a rimanere in piedi durante la Preghiera Eucaristica e a non stare invece inginocchiati ?[12]
Tutte queste cose, ed altre molto peggiori, nascono dall’arbìtrio selvaggio di vescovi e preti, non sono mai state previste da alcuna riforma liturgica.
Se può essere d’aiuto una mia personale testimonianza posso narrare che sette anni fa, di ritorno in Italia dalla Germania, trovandomi per un breve periodo in una zona di montagna, mi fu concesso di celebrare in una chiesetta del XVIII secolo dove solo la domenica si celebrava qualche volta la Santa Messa. In quella chiesetta, dinanzi ad uno splendido altare in marmo, era stato messo un tavolo di plastica bianca ricoperto da una tovaglia. Alche io misi da parte quella autentica oscenità e celebrai vòlto ad oriente sull’originario altare di marmo, peraltro con grande felicità dei fedeli, che avevano soprannominato quel cosiddetto “altare” come il «tavolo da trattoria», non ultimo per il fatto che il prete che celebrava in quella chiesetta, se l’era fatto regalare per davvero dal gestore di una locale trattoria. Il terzo giorno vengo cercato dal vicario generale di quella diocesi, che a nome del vescovo mi comunica: «Le celebrazioni alla vecchia maniera non sono gradite in questa diocesi». Replicai al confratello facente funzioni di vicario generale che c’era sicuramente qualche equivoco, perché io celebravo in lingua italiana col Messale del Beato Paolo VI. Replica lui: «Non mi riferisco al messale ma all’altare». E in tono sfottente mi dice: «Sai, casomai tu non ne avessi avuta notizia, sappi allora che nella Chiesa c’è stato un Concilio ed una riforma liturgica». Risposi: «Certo, che nella Chiesa c’è stato un Concilio, che io conosco tutto sommato bene quanto basta a sapere che ciò che certi preti fanno in sciatterie all’altare nel totale silenzio assenso dei loro poveri vescovi, non è contenuto né permesso in alcun suo documento. Detto questo, adesso indicami tu: quale documento del Concilio comanda di abbattere gli altari storici e di celebrare la Santa Messa sopra tavoli in plastica da trattoria ?».
Risposta del solerte vicario generale: «Ah, che prete superbo, che prete arrogante!». Replico: «Darmi del superbo e dell’arrogante non è una risposta alla mia domanda ben precisa. Pertanto ti ripeto: «Quale documento del Concilio comanda di abbattere gli altari storici e di celebrare la Santa Messa sopra tavoli in plastica da trattoria ?».
Lascio ai buoni Lettori l’arduo giudizio su chi sia davvero arrogante e superbo, mentre dal canto mio resto sempre in attesa, a distanza di anni, d’una risposta ad una domanda molto chiara e precisa: «Quale documento del Concilio comanda di abbattere gli altari storici e di celebrare la Santa Messa sopra tavoli in plastica da trattoria ?».
LA DOMINUS JESUS E LA REDEMPTIONIS SACRAMENTUM SONO LA PROVA DI UN CONCILIO USCITO FUORI DA TUTTI I CATTOLICI RANGHI ATTRAVERSO IL POST- CONCILIO, SINO ALLA DISCESA DEI NUOVI BARBARI
Se a distanza di quattro decenni dalla celebrazione di questo Concilio, la Chiesa è dovuta intervenire con un documento nel 2000, ricordando a vescovi, presbìteri e teologi i fondamenti imprescindibili del deposito della fede cattolica[13], ed appresso nel 2004 con un documento che ricorda come si deve celebrare l’Eucaristia e «su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia» [14], ciò è avvenuto perché dopo questo Concilio si sono sviluppati problemi d’inaudita gravità, in una crescente e progressiva de-sacralizzazione della Santissima Eucaristia, che è culmen et fons della intera vita ecclesiale. E la gravità di questi evidenti problemi è chiaramente dimostrata dal fatto che la Chiesa, con due appositi documenti, si è trovata costretta a ricordare l’alfabeto del Catechismo e quello della sacra liturgia a vescovi e presbiteri, con tanto di invito rivolto ai fedeli circa il loro obbligo a segnalare i casi di grave abuso all’ Autorità Ecclesiastica.
Il documento qui richiamato sollecita infatti con chiarezza:
I delitti contro la fede e i graviora delicta commessi durante la celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti siano segnalati senza indugio alla Congregazione per la Dottrina della Fede, che li esamina e, all’occorrenza, procede a dichiarare o ad infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio[15].
E ancora:
Ogni cattolico, sia Sacerdote sia Diacono sia fedele laico, ha il diritto di sporgere querela su un abuso liturgico presso il Vescovo diocesano o l’Ordinario competente a quegli equiparato dal diritto o alla Sede Apostolica in virtù del primato del Romano Pontefice[16]. È bene, tuttavia, che la segnalazione o la querela sia, per quanto possibile, presentata dapprima al Vescovo diocesano. Ciò avvenga sempre con spirito di verità e carità [17].
Conoscere la storia, vuol dire anche munirsi di quei necessari strumenti per evitare di cadere in errori già ampiamente sperimentati, cosa questa che può essere applicata a numerosi aspetti della vita e dell’esperienza umana singola e collettiva. Per quanto riguarda lo strumento storico, noi ci limiteremo all’aspetto puramente teologico.
Nei nostri fraterni colloqui privati, spesso, il Padre Giovanni Cavalcoli ed io, ci siamo reciprocamente interrogati sulla particolare e devastante stagione che la Chiesa sta vivendo oggi; ed entrambi abbiamo tentato di trovare anzitutto un precedente storico. Dopo mesi e mesi di riflessioni, siamo giunti ad una conclusione: in duemila anni di storia della Chiesa, non è possibile individuare un precedente storico della situazione attuale, perché proprio non c’è.
Quando un organo giudicante si ritrova in sede di giudizio a dover decidere su un caso di specie, per esempio una figura del tutto particolare di reato, per la quale non esiste, non solo una norma, ma non esiste neppure precedente, in questi rari casi si procede per analogia, la quale può essere: analogia legis o analogia juris. Ma vediamo di che cosa si tratta: la analogia legis supplisce alla mancanza normativa facendo ricorso ad un’altra norma, magari della stessa branca del diritto o di branche similari. La analogia juris colma invece l’assenza di una determinata materia giuridica, semmai non completamente disciplinata, ed a fronte della quale si ricorre a principi generali del sistema giuridico. Inutile dire che in questo secondo caso, il lavoro del giurista, è molto più complesso; ma anche gli esiti finali sono incerti, soprattutto se l’ipotesi da lui sollevata deve essere poi accolta in sede di giudizio.
Appurata l’assenza di precedenti dell’attuale situazione ecclesiale nella storia della Chiesa, ed applicando il principio della analogia, ed in particolare gli schemi del ricorso alla analogia juris, sono giunto alla conclusione che il fatto storico più simile alla nostra situazione attuale, è la caduta dell’Impero Romano e la discesa delle popolazione barbariche dal Nord dell’Europa.
Credo quindi che siamo alla caduta dell’impero e tra non molti anni la Chiesa Cattolica come sino ad oggi l’abbiamo conosciuta e intesa non esisterà più; esisterà “altro”. Il nostro sistema ecclesiale ed ecclesiastico si è già sfasciato dall’interno, ed attualmente è in corso una inquietante trasformazione: oggi, quella protestantizzazione della Chiesa Cattolica che fu tenuta sotto un certo controllo dal Beato Paolo VI, da San Giovanni Paolo II e dal Venerabile Benedetto XVI, è divenuta un cavallo impazzito a briglia sciolta. Purtroppo, sia nel Collegio Episcopale sia nel Collegio Sacerdotale non abbiamo un numero neppure minimo di elementi in grado di fronteggiare questa protestantizzazione in stato ormai avanzato. Abbiamo permesso a falsi teologi, a mediocri e ad arrivisti in carriera di fare uno dei più tremendi golpe mai avvenuti all’interno della Chiesa, che pure di tempi infausti ne ha conosciuti, mai però come quello presente, che non ha precedenti storici. Gli ominicchi ed i mezzi omini hanno così reclutato a loro volta soggetti più ominicchi e più mezzi ancora di loro, perché è ovvia logica che un pollo che raspa nel pollaio non si mette certo attorno delle aquile reali, anzi cercherà di impallinarle se osano volare sopra il cielo cupo del suo pollaio.
Se Dio ha permesso questo ― posto che già il Verbo di Dio pose il quesito: «Quando il figlio dell’uomo tornerà, troverà la fede sulla terra?»[18] ― è per uno scopo salvifico che prescinde da noi, dotati di uno spirito distruttivo che purtroppo sopravvive al peccato originale cancellato con l’acqua del Sacramento del Battesimo, perché la cancellazione di questo peccato non cancella la nostra natura corrotta; e l’istinto distruttivo è un pilastro di questa nostra natura corrotta. Negare quindi che l’uomo, agendo direttamente da dentro, possa stravolgere e rovinare la Chiesa di Cristo, è una negazione teologica dell’ opera della creazione alterata dallo squilibrio del peccato originale, nato dalla libertà e dal libero arbitrio donato da Dio all’uomo all’atto della creazione.
È SCRITTO CHE LE PORTE DEGLI INFERI NON PREVARRANNO SUL CORPO DI CRISTO CHE È LA CHIESA, NON CHE NON PREVARRANNO SU CIÒ A CUI GLI ECCLESIASTICI HANNO RIDOTTO LA STRUTTURA UMANA E TERRENA DELLA CHIESA VISIBILE
Qualche soggetto “baldanzoso”, tempo fa mi disse: «Forse non ricordi che Cristo, riferendosi alla Chiesa, disse che le porte degli inferi non prevarranno su di essa?»[19]. Risposi che le porte degli inferi non prevarranno su Cristo che è il capo del corpo che è la Chiesa, secondo la definizione paolina[20], perché questa è la Chiesa alla quale Cristo riferisce anzitutto se stesso, ossia il suo Corpo Mistico. In nessun passo del Vangelo Cristo afferma che le porte degli inferi non prevarranno su ciò a cui gli uomini hanno ridotto la struttura umana e terrena della Chiesa visibile, tutt’altro, ci ricorda in tono molto severo il Profeta Isaia dicendo:
Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Domani, nella mia vecchiaia, forse sarò uno dei pochi preti sparsi in giro per il mondo operosi nella custodia della fede nel piccolo gregge sopravvissuto alla distruzione, alla caduta dell’Impero, alla grande trasformazione “non cattolica” della visibile struttura ecclesiastica cattolica, visto che il Verbo di Dio stesso fa implicitamente presente che al suo ritorno troverà sempre la Chiesa, ma pone un grave interrogativo sul fatto che possa ritrovare la fede da lui impiantata nella Chiesa[21].
Forse a noi spetterà dare il primo impulso per ripartire a costruire sopra le macerie, anche se credo, per puro istinto che potrebbe venirmi dallo Spirito Santo e non certo dallo “Spirito” dei nostri carismatici cattolici in combutta con i Pentecostali, che per veder rifiorire la Chiesa, dopo gli ultimi colpi mortali ricevuti e quelli ancora peggiori che dovranno venire a breve nel corso di questa trasformazione ecclesiastica, occorreranno più o meno duecento anni e tutta una serie di eventi catastrofici che colpiranno e che forse decimeranno l’umanità stessa attraverso nuove forme di guerre, attraverso una economia diabolica scissa ormai da qualsiasi principio etico, per seguire con eventi naturali ed atmosferici dei quali da anni abbiamo già tutte le avvisaglie, ma purtroppo abbiamo perduto la capacità biblica di leggere i segni, perché siamo immersi in un presente senza passato e soprattutto senza prospettiva futura. Eppure, il Beato Apostolo Paolo, ci aveva avvisati da subito:
Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole[22].
Questo tempo, non solo ormai è giunto, perché in esso siamo immersi da mezzo secolo, dopo un lavoro preparatorio cominciato lentamente alla fine del XVIII secolo con la Rivoluzione francese, raffinatosi dopo la caduta della Roma pontificia nel 1870, ed infine proseguito sino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, in attesa di poter compiere finalmente il proprio golpe.
Certo, nessuno si sarebbe mai immaginato che i modernisti si sarebbero serviti di un concilio ecumenico della Chiesa, dopo averlo totalmente snaturato e falsato, per portare a compimento il loro colpo di stato. Chi mai avrebbe infatti pensato, nel XVI secolo, che delle forze interne alla Chiesa si sarebbero potute servite dei canoni del Concilio di Trento per favorire lo scisma e le eresie luterane? Se pertanto nel XVI secolo, un grande Concilio della Chiesa, è stato santo freno all’eresia di Lutero, cinquecento anni dopo, al termine di un altro grande Concilio della Chiesa, ecco che nella stagione del post-concilio ― e si legga bene il post-concilio, non il Concilio ―, siamo stati spinti invece tra le braccia dell’eresiarca Lutero, oggi celebrato come “grande riformatore” non solo dalla stampa cattolica, ma persino dall’organo ufficiale della Santa Sede, L’Osservatore Romano, presso il quale il Regnante Pontefice ha fatto assumere un suo amico protestante di vecchia data come responsabile della pagina in lingua spagnola[23]. Sino a giungere alla peggiore mistificazione teologica ed ecclesiologica: oggi, direttamente dentro le università ecclesiastiche, si insegnano falsità colossali, come ad esempio che «Il Vaticano II ha finalmente fatte proprie tutte le istanze di riforma di Lutero», presentando questo diabolico eresiarca come il vero precursore e anticipatore dell’ultimo Concilio della Chiesa, come un vero «riformatore», nonché indicando come «riforma» un movimento ereticale che ha fratturato la comunione della Chiesa e negato in modo aggressivo e offensivo che il Successore di Pietro sia per divina istituzione il Vicario di Cristo sulla terra.
IN QUESTO PROCESSO DI DECADIMENTO IRREVERSIBILE, CONSERVATORI E TRADIZIONALISTI HANNO DELLE RESPONSABILITÀ MORALI NON INFERIORI A QUELLE DEI MODERNISTI
A favorire i modernisti nel loro micidiale attacco diabolico, è stato soprattutto il fatto che eravamo del tutto impreparati ad un attacco interno, perché abituati ormai da un paio di secoli, a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, a doverci difendere dagli attacchi esterni. Pertanto non eravamo pronti, anzi forse non si è proprio mai pensato alla possibilità di un simile attacco interno, perché pure in presenza di divisioni, a volte anche forti ― che all’interno della Chiesa vi sono sempre state ―, al momento che il corpo della Chiesa era attaccato, i vescovi, i sacerdoti ed i Christi fideles erano compatti nel difenderlo, tornando poi solo dopo, a pericolo scemato, alle loro lotte e divisioni interne. Oggi invece, dinanzi alla desolazione ed a derive dottrinali che temo stiano superando la stessa crisi dell’eresia ariana, per tutta risposta ci divoriamo a vicenda, perché l’omocentrismo egocentrico, non solo ha preso piede nei modernisti, ma forse, più e peggio ancora, pure nei conservatori e negli stessi tradizionalisti, che con la loro litigiosa, ed a tratti fobica divisione, mostrano di essere degli accaniti difensori del proprio “io” anziché delle verità di fede di Dio. Si provi a metterli assieme in una battaglia compatta contro il comune e pericolosissimo nemico, per vedere all’istante gli avvilenti risultati che costoro daranno, rivendicando gli uni sugli altri di avere le idee più giuste e più cattoliche di tutti quanti, attaccati morbosamente con le unghie e coi denti al microcosmo del loro piccolo orticello, incapaci di andare oltre il loro devastante «ma io penso», «io sento», quindi è vero e giusto solo ciò che io penso e sento. Perché la fede mutata in una emotività soggettiva di tipo ego-omocentrico, è molto più forte nelle frange dei cosiddetti tradizionalisti che non in quelle dei modernisti, non ultimo perché questi secondi sono ormai al potere da mezzo secolo. Sulla emotività socio-politica e su quella sentimentalistica, i modernisti ci giocavano cinquanta, sessant’anni fa, oggi non ne hanno alcun bisogno. Infatti, gli eretici modernisti, oggi non danno più impulsi emotivi, danno ordini tassativi, impongono la nomina di vescovi dottrinalmente carenti e sovente eterodossi, i quali possano seguitare a formare e moltiplicare un clero dottrinalmente carente ed eterodosso, gravato di conseguenza da tutti quei gravi problemi morali derivanti dalla crisi del dogma da essi generata, perché come già in passato ho scritto: la crisi morale nasce e si sviluppa da una crisi dottrinale [24].
Ecco quindi suonare in tutta la sua attualità la conclusione della raccomandazione solenne fatta dal Beato Apostolo Paolo al suo discepolo Timoteo:
Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero.
L’eresia modernista ha da tempo infettato il Collegio Episcopale ed il Collegio Sacerdotale attraverso un effetto metastatico. Quando infatti un corpo è assalito e poi invaso da cellule tumorali, le metastasi divorano letteralmente le cellule sane. Pertanto, cercare di consolarsi dicendo: «Ma esistono anche buoni vescovi … esistono anche buoni sacerdoti …». Certo che esistono, pochi, ma esistono. Ciò che però non si vuole capire e accettare è che la fine di questi pochi buoni sopravvissuti è quella delle cellule sane divorata all’interno di un corpo completamente devastato dalle cellule tumorali maligne, dinanzi alle quali non serve più neppure la chemioterapia, che doveva essere praticata prima. Le cellule tumorali avrebbe dovuto bombardarle di chemioterapia Paolo VI, avrebbe dovuto bombardarle il primo Giovanni Paolo II. In fondo, l’epilogo del pontificato del Venerabile Pontefice Benedetto XVI, cos’altro è, se non l’immagine di una cellula sana divorata dalle cellule tumorali ?
Nel nostro ecclesiale presente, dissuadere dei bravi giovani dall’entrare dentro la gran parte dei nostri seminari è un dovere apostolico al quale nessun buon Sacerdote di Cristo può sottrarsi. I buoni giovani che aspirano al sacerdozio vanno infatti dissuasi dall’entrare nei nostri seminari ridotti ormai a dei deformanti pretifici, a fabbriche di eresie strutturate sui sociologismi di Karl Rahner, sui filosofismi di Hegel che hanno sostituita la filosofia metafisica, sulle emotività-sentimentali del vescovo eretico Tonino Bello, sulle empietà di Enzo Bianchi, sullo studio dei principali autori protestanti che hanno sostituito le opere dei grandi Padri della Chiesa. Ebbene, quando cerco di convincere alcuni giovani che non si può deporre un frutto sano dentro un paniere di frutti completamente marci, solitamente riesco a convincerne nove su dieci, trovandomi però dinanzi all’immancabile romantico-emotivo che si rivela incapace di cogliere la oggettività di questa situazione, il quale prontamente replica: «Si, forse è così, ma quando io sarò prete, cercherò di cambiare le cose». A quel punto io porgo sempre i miei più sentiti auguri dicendo: «Non ce l’ha fatta, non dico a cambiare, ma neppure a smuovere le cose il Sommo Pontefice Benedetto XVI, pur dotato della suprema grazia di stato a lui derivante dall’ufficio petrino, oltre che dotato di tutti i migliori strumenti teologici, ma sicuramente ce la farai tu a compiere il grande miracolo: far sparire le metastasi dal corpo della Chiesa visibile e portarla come per incanto, dallo stato di agonia in cui si trova adesso, a danzare il walzer per Capodanno nel grande salone delle feste del palazzo reale di Vienna».
Ecco perché il tentativo di consolarsi affermando «Ma esistono anche buoni vescovi … esistono anche buoni sacerdoti …», non può in alcun modo reggere dinanzi ad un tumore in fase terminale con metastasi diffuse in un corpo ormai agonizzante, perché le poche cellule sane saranno comunque distrutte da quelle maligne. Pertanto, le poche cellule sane destinate comunque a morire, oggi hanno una sola e onorevole possibilità, quella di applicare il sano e battagliero principio: meglio morire dopo un giorno da leoni che dopo mille giorni da pecore.
SE IERI I BARBARI FURONO CONVERTITI AL CRISTIANESIMO DALLA TEMPRA VIRILE DEI NOSTRI PADRI DELLA CHIESA, OGGI POSSONO SOLO RIDERE DIVERTITI SUGLI OMUNCOLI E LE DONNETTE CHE POPOLANO LA CHIESA VISIBILE
Dicevo poco avanti che in questa situazione senza precedenti, per analogia viene a mente la discesa dei barbari dal Nord dell’Europa. La profonda differenza, dinanzi a questa vaga somiglianza, è data dal fatto che i barbari si convertirono al Cristianesimo, ed anche grazie a loro la Cristianità fu salva e si diffuse tra le stesse popolazioni barbariche. E da che cosa furono colpiti i barbari? Cosa li spinse alla conversione? Presto detto: la loro conversione è legata a figure straordinarie di vescovi, presbìteri e monaci ai quali i barbari riconobbero tempra virile, coraggio, autorevolezza, quindi grande autorità. Loro, i barbari, che basavano e che reggevano tutto sulla forza, riconobbero la forza derivante dalla grazia di stato del carattere sacramentale del sacro ordine e quindi della grazia di Dio.
Ebbene, immaginiamo i barbari oggi: quali reazioni avrebbero dinanzi a figure di vescovi ibridi e androgini, che a mezza voce parlano ma non parlano, non dicono si e non dicono no?
Provate a immaginare la reazione dei barbari dinanzi a quei presbitèri diocesani all’interno dei quali, alcune generazioni di vescovi scellerati, hanno inserito a partire dagli anni Settanta del Novecento un numero oggi preoccupante di sacerdoti più o meno palesemente omosessuali, oggi sempre più simili ad una vera e propria epidemia …
… chi sarebbe in grado oggi, come nell’anno 452, di fermare Attila detto il flagello di Dio, armato solo della propria grande autorevolezza, come lo era il Santo Pontefice Leone Magno? Forse il Cardinale Gianfranco Ravasi che intima al Re degli Unni: « Caro Fratello, non ti arrabbiare, anzi, vieni mio ospite presso il Cortile dei Gentili, che ne parliamo assieme a una tavola rotonda con Andrea Riccardi, Alberto Melloni, Enzo Bianchi e la civettuola teologa femminista Marinella Perroni ».
Perché questa, purtroppo, è la nostra triste realtà ecclesiale ed ecclesiastica: dopo la gloriosa tragedia, giunge sempre appresso la penosa commedia comico-grottesca, alla quale nani e ballerine fanno da corolla con le scimmie che mangiano banane e arachidi.
Vivo consapevole di tutto questo ma pur malgrado sereno, nella situazione ottimale in cui mi trovo e nella quale spero di rimanere e di essere lasciato, perché forse è questa la mia utilità nell’economia della salvezza: avere la libertà ― intesa non come un privilegio bensì come un gravoso servizio e una gravosa missione a me affidata ―, di dire e di scrivere ciò che molti altri non possono dire né tanto meno scrivere, pur sposando quello che dico e che scrivo io, a partire dalle più alte Autorità Ecclesiastiche, che non di rado, lasciandomi non poco sbigottito, hanno rivolto loro a me, una domanda che ho trovato in parte disarmante e in parte sconcertante: «Che cosa dobbiamo fare?».
Nulla, Eminenze ed Eccellenze Reverendissime, proprio nulla si può fare al presente dello stato attuale, perché i segni della grande apostasia descritti dal Beato Apostolo Paolo, oggi sembrano ricorrere davvero tutti:
Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio [25].
Lo stesso Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel 1984, in anni recenti, ma sotto altri aspetti ormai lontani, durante il suo viaggio apostolico in Germania ebbe a dire: «Il mondo sta vivendo il XII° capitolo dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo».
Dinanzi alla caduta del grande impero sotto i colpi della apostasia dalla fede, non si può né riparare i danni né tanto meno correre più ai ripari, si può solo salvare il salvabile, per poi ripartire domani da un piccolo nucleo sparuto sparso per il mondo a ricostruire sopra le macerie della grande devastazione.
A quel punto, tra un paio di secoli, rinascerà una piccola Chiesa formata da pochi fedeli, che ripartendo da zero cercherà di spiegare agli uomini del mondo delle parole sconosciute di cui nessuno conoscerà più il vero significato: Natale, Gesù di Nazareth, Pasqua di Risurrezione, Ascensione, Pentecoste, Rivelazione, Redenzione, Grazia di Dio, Trinità, Immacolata Concezione …
E nello stesso modo in cui i vescovi ed i preti di oggi avranno distrutta la Chiesa, domani, il Popolo di Dio, la restaurerà attraverso il proprio Sacerdozio regale, dando nuova vita e dignità allo stesso Sacerdozio ministeriale di Cristo, distrutto non certo da quelle sanguinarie persecuzioni che hanno sempre rinvigorita e data linfa vitale alla Chiesa, ma distrutto da mezzi uomini vanesi, da un nutrito esercito di ecclesiastici omosessuali in carriera paralizzati sul tutto e subito, senza alcuna prospettiva cristologica eterna, che si sono baloccati nel ridicolo tra nani, ballerine e scimmie che mangiavano arachidi e noccioline, sino alla irreparabile rovina, che però non sarà la fine, ma il doloroso inizio di un lungo processo di rinascita.
Il nostro processo di rinascita sarà però molto lungo, ed alla fine dell’ opera produrrà solo un piccolo gregge di fedeli sparsi per il mondo, dando in tal modo pieno compimento alla parola del Verbo di Dio: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» [26].
Ariel S. Levi di Gualdo
Dall’Isola di Patmos, 23 marzo 2017
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Ariel S. Levi di Gualdo – L’Isola di Patmos
23 marzo 2016
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[1] Cf. Durante un suo incontro ufficiale nell’anno nel 1988 con i Vescovi del Cile, svoltosi a Santiago, l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede parlò di un «un isolamento oscuro del Vaticano II».
[2] Cf. Giovanni Cavalcoli, OP : Karl Rahner, il Concilio tradito. Ed. Fede&Cultura, 2009.
[3] Cf. Infallibile? Una domanda, edito nel 1975 [vedere documento della Congregazione per la dottrina della fede, QUI]
[4] Cf. Giacomo Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Ed. Cantagalli, pag. 640.
[6] Cf. Lumen Gentium n. 22
[8] Il sacrario, solitamente posizionato dietro l’altare maggiore o nella adiacente sacrestia, era una piccola vasca, tipo lavandino, munita di uno scolo indipendente e isolato da tutte le altre condutture, il quale scaricava direttamente sotto le fondamenta della chiesa. Esso serviva per raccogliere l’acqua usata per le purificazioni dei vasi e dei lini sacri, oppure i resti di oggetti benedetti irreparabilmente danneggiati che erano stati ridotti in cenere, od i sacri olî invecchiati e non più utilizzabili.
[9] Il n. 118 dell’Ordinamento Generale del Messale Romano del Beato Pontefice Paolo VI recita: « Il calice sia lodevolmente ricoperto da un velo, che può essere o del colore del giorno o bianco».
[10] Sacrosanctum Concilium, n. 120: «Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22-2, 37 e 40, purché siano adatti all’uso sacro, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli».
[11] Sacrosanctum Concilium, n. 116: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica, a norma dell’art. 30».
[12] Il n. 43 dell’Ordinamento Generale del Messale Romano del Beato Pontefice Paolo VI recita: «S’ inginocchino poi [i fedeli] alla consacrazione, a meno che lo impediscano lo stato di salute, la ristrettezza del luogo, o il gran numero dei presenti, o altri ragionevoli motivi. Quelli che non si inginocchiano alla consacrazione, facciano un profondo inchino mentre il sacerdote genuflette dopo la consacrazione […] Dove vi è la consuetudine che il popolo rimanga in ginocchio dall’acclamazione del Santo fino alla conclusione della Preghiera Eucaristica e prima della Comunione, quando il sacerdote dice Ecco l’Agnello di Dio, tale uso può essere lodevolmente conservato».
[15] Cf. Redemptionis Sacramentum, n. 179.
[16] Cf. Codice di Diritto Canonico, can. 1417 § 1.
[17] Cf. Redemptionis Sacramentum, n. 184.
[18] Lc 18, 1-8.
[19] Cf. Mt 13, 16-20.
[20] I Col 1,18.
[21] Cf. Lc 18, 1-8.
[22] II Tm 4, 1-8.
[23] A tal proposito si rimanda a Sandro Magister, L’amico protestante del Papa nella cabina di regia dell’Osservatore Romano. 25 novembre 2016 [vedere articolo QUI].
[24] Cf. mio articolo su L’Isola di Patmos del 2 dicembre 2016: Dal bacio di Giuda ai porno-teologi: è la crisi del dogma che genera una crisi morale all’interno della Chiesa visibile [articolo leggibile QUI].
[25] II Ts 2, 1-4.
[26] Mt 18, 20.
(MB: Uno studio fondamentale)
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