ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 14 marzo 2017

Papatὦ

IL NUOVO PARADIGMA "ERETICO"?

    L’eresia di Teilhard che esalta l’uomo e minimizza il peccato sarà la futura ortodossia? Con l’aria che tira nella Chiesa non ci meraviglieremmo affatto se il suo pensiero “teologico” dovesse sostituire san Tommaso d’Aquino 
di Francesco Lamendola  




Con l’aria che tira di questi tempi nella Chiesa, non ci meraviglieremmo affatto se il pensiero “teologico” di Teilhard de Chardin - e  lo scriviamo fra virgolette perché, come Étienne Gilson ha ampiamente mostrato, non si tratta di una vera teologia, né di una filosofia, ma di elucubrazioni poetiche e pseudo scientifiche – dovesse venire, entro breve, non solo pienamente e definitivamente riabilitato, ma addirittura assurgere a paradigma della “nuova” teologia semiufficiale, come lo è stato, per secoli e secoli, e fino al pontificato di Pio XII, quello di san Tommaso d’Aquino (cfr. il nostro articolo Teilhard ha creato una gnosi cristiana in cui la scienza prende il posto della fede, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 02/01/2014). Con l’aria che tira, infatti, il suo naturalismo, il suo panteismo mascherato, il suo “evoluzionismo cosmico” che conduce ogni cosa verso il Punto Omega della Creazione, cioè il Cristo “cosmico” (?), tutto ciò sembra perfettamente in linea con i nuovi orientamenti e, anzi, si presta magnificamente a sostenere la “riforma” che papa Francesco e i suoi seguaci hanno in mente: una radicale trasformazione della dottrina della Chiesa in senso immanentistico, sincretistico, deista e relativista, dove niente resterà come la Chiesa lo ha sempre insegnato, perché, grazie a una interpretazione più “contestualizzata”, e, in ultima analisi, più “scientifica” della Parola di Dio, e mediante una pratica del “discernimento” che riduce e scompone il dogma alla misura dei singoli casi specifici, trasformando la dottrina in casualismo, si vuole instaurare una religione nuova, non più legata ad una specifica identità dottrinale, ma aperta, cosmopolitica piuttosto che ecumenica, e, appunto, “cosmica”, nel senso di “non cattolica”. Non ha forse ricordato il papa ai suoi fedeli, con aria provocatoria e con maligno compiacimento per il disagio che creava loro, che Dio non è cattolico? (resta da vedere se lo sia lui).
E chi meglio del gesuita Teilhard, sotto il pontificato di un papa gesuita, e con un generale dei gesuiti come Arturo Sosa Abscal, il quale ha dichiarato che “non sappiamo cosa abbia realmente detto Gesù”, cioè, in pratica, che ha tirato un rigo su tutta la dottrina cattolica, così come da duemila anni la Chiesa la tramanda, la custodisce, la insegna; chi meglio del gesuita Teilhard, dicevamo, considerato da molti come un precursore inascoltato e incompreso del Concilio Vaticano II, della sua ansia di rinnovamento, della sua volontà di “dialogo” con il mondo moderno, con la scienza, con le altre confessioni e religioni, potrebbe incarnare lo spirito della “svolta antropologica”, cioè di un modo di pensare la teologia facendo perno sull’uomo, i suoi bisogni, le sue aspettative, e non più, come finora, su Dio, sull’amore di Dio per l’uomo, sui misteri della Trinità e dell’Incarnazione?
Del pensiero “teologico” di Teilhard abbiamo già parlato, più di una volta. Qui ci limiteremo a un aspetto che, nel complesso della sua vasta produzione letteraria, potrebbe sembrare secondario e quasi marginale, mentre invece, se si tengono presenti le sue immense implicazioni, potenzialmente eversive e drammaticamente distruttive, rivestirebbe una funzione centrale, se fosse ”adottato” dai nuovi teologi della linea bergogliana: intendiamo dire la sua concezione del male e del peccato. Per Teilhard, tutto, nel mondo, è in evoluzione, tutto tende a un livello superiore di esistenza, non solo sul piano materiale, ma anche su quello spirituale. Di conseguenza, per spiegare l’esistenza del male e del peccato, Teilhard non può fare altro che argomentare che essi sono, in un certo senso, il prezzo necessario e inevitabile che l’umanità deve pagare per evolvere verso il suo destino finale, l’ascensione vittoriosa verso il Punto Omega, il Cristo cosmico. Una lucida analisi di questa concezione e delle sue implicazioni è stata fatta da un autore presto dimenticato, Pierre Smulders, evidentemente perché “non in linea” con i nuovi indirizzi post-conciliari, i quali andavano e vanno nella direzione di riabilitare il pensiero di Teilhard e di condannare al silenzio quanti si sono resi conto, fin dall’inizio, di quanto esso fosse lontano dall’ortodossia cattolica e di quanto disordine e confusione fosse suscettibile di provocare tra i fedeli, a causa delle sue ambiguità e delle sue affermazioni temerarie, non ortodosse e ispirate ad un naturalismo di matrice piuttosto materialista che spirituale. E pazienza se Smulders, all’epoca del Concilio, si collocava piuttosto fra i riformisti che fra i conservatori, cioè accanto ai De Lubac, ai Rahner, ai Solages, ai Rideau; tutto ciò non è bastato: egli aveva osato avanzare delle riserve, delle critiche sull’antesignano del Concilio stesso, Teilhard de Chardin; dunque, non meritava di essere ripagato se  non col silenzio e l’oblio.
Scriveva dunque il padre Pierre Smulders nel suo libro La visione di Teilhard de Chardin, opera che, peraltro, si segnala per la pacatezza e lo sforzo di equanimità nei confronti di un sacerdote che ha sbagliato, sì, ma probabilmente in buona fede, e le cui idee, in se stesse al limite dell’ortodossia, erano e sono, purtroppo, suscettibili di divenire esplicitamente eretiche, se riprese e sviluppate da altri, portandole alle loro logiche ed estreme conseguenze (da: P. Sumlders, La visione di Teilhard de Chardin; titolo originale: La vision de Teilhard de Chardin, Paris, Desclée de Brouwer, 1964; traduzione dal francese (su un riadattamento della 3a ediz. neerlandese di A. Kerkvorde e C. d’Armagnac) di Gennaro Auletta, Torino, Borla Editore, 1965, pp. 190-196):

Verso gli anni quaranta Teilhard credeva realmente di aver trovato una soluzione soddisfacente al problema del male grazie alla visione evoluzionista. Lasciamo da parte questa sopravvalutazione dell’evoluzionismo ed esaminiamo il principio della sua concezione, secondo cui nelle sue diverse, forme, è un fenomeno accessorio inevitabile della nostra ascesa evolutiva, in un certi senso lo scotto che questa esige. Poiché il nostro mondo è in divenire e realizza se stesso, deve necessariamente soffrire della propria incompletezza e della propria imperfezione. […]  La spiegazione razionale di tutte le forme del male sta quindi nel fatto che il mondo deve arrivare, partendo dalla molteplicità e quindi secondo le leggi della molteplicità, fino all’unità […] Ma ci tocca ancora esaminare la teoria secondo cui il male, in tutte le sue forme, anche il male che si chiama peccato, e quindi la sofferenza redentrice di Cristo, sarebbero una conseguenza ineluttabile della “molteplicità” necessariamente inerente alla creazione.[…] Una gran parte della nostra sofferenza, anche umana, ha il suo fondamento nella natura materiale del mondo. Nella misura in cui Teilhard ci ricorda questa antica verità, possiamo dire che “sta lì a mostrarci l’aspetto naturale del male” (P. Chaucard, “L’être humain selon Teilhard de Chardin”).
Ma Teilhard va oltre; egli fa anche del male morale, che è il peccato, un inevitabile fenomeno accessorio della “molteplicità”. Finché la creazione è in divenire, e non ha quindi raggiunto il suo finale destino d’unione e di unificazione, il male sarebbe inevitabile e statisticamente necessario. […] Con parecchi Padri della Chiesa possiamo ammettere che, col peccato, l’uomo s’immerge più profondamente nella dispersione e nella molteplicità. Ma bisogna ben intendere che si tratta di una molteplicità non quantitativa ma esistenziale; si tratta della divisione dell’uomo che non è ancora interiormente uno, perché è ancora in via e non ha ancora raggiunto la completezza e l’unità del suo essere; egli tende a questa completezza tra una moltitudine di oggetti limitati, di desideri e di atti divergenti e spesso contraddittori. L’unione degli ancora uomini tra loro neppur essa è armoniosamente realizzata; in questo stadio, i loro desideri e i loro piani rispettivi più di una volta vengono necessariamente in urto. Questa è la molteplicità esistenziale intesa da Teilhard; perché parla di una molteplicità che arriva all’unità attraverso un grande amore Ma questa intenzione pare continuamente celata, nel suo pensiero e nel suo linguaggio, dall’immagine di una molteplicità quantitativa. La radice del male sembra allora consistere nel numero, e le considerazioni quantitative hanno una parte decisiva nella vittoria sul peccato. La sua metafisica diventa una matematica. Le considerazioni quantitative sono assolutamente insufficienti a spiegare il male in senso proprio: il peccato. Il male ha la sua sede nell’intimità spirituale dell’essere personale, che in è retto dalle leggi della materia e della quantità. Questo male  un attento al più alto e più assoluto valore del nostro modo: il rapporto tra le persona umana e Dio. Dicendo che ogni successo si deve pagare con una serie di fallimenti, si riduce la persona a un mezzo, le si toglie il suo maggior onore: di essere il suo proprio fine e quello del mondo. Nel tentativo di spiegare il male e anche il peccato, Teilhard non tiene abbastanza conto della fondamentale differenza tra il male fisico e il male morale. Il male fisico ha una parte importante nella sofferenza umana, e Teilhard giustamente l’ha dimostrato; ma c’è un fondo nascosto del male morale, la sua radice più intima e più profonda, per cui non vale la sua spiegazione. Egli continua a pensare come scienziato, anche dove, secondo la sua espressione preferita, bisognerebbe ricorrere alla intelligenza mistica delle cose. Per parlare concretamente, si può seriamente credere che, secondo le leggi della statistica, una serie di fallimenti morali accrescerebbe le possibilità di un risultato morale? Che insomma ci vorrebbe un certo numero di peccatori per produrre un solo giusto?
Se infatti, secondo l’espressione di Teilhard, l’impegno personale d’amore verso il prossimo e verso Dio è decisivo per un felice esito nella sua fase umana, la certezza intracosmica di questo esito è impossibile in linea di principio. Nessuna potenza di questo mondo è in grave di preservare l’uomo dal pericolo che questo porta dentro di sé. L’uomo può rifiutare d’amare Dio e il prossimo. E un tale rifiuto è più grave e più nefasto di una serie di fallimenti favorevole a una riuscita posteriore. L’uomo non è soltanto imperfetto, può diventare cattivo e farsi schiavo della propria cattiveria. La fede ci insegna che il peccatore non si può convertire e liberare con le proprie forze. E l’esperienza umana già conosce delle opzioni e degli atteggiamenti profondi che rendono l’uomo prigioniero di una decisione presa. La stessa esperienza attesta che queste decisioni possono pesare molto sulla condotta di altri uomini. Parrebbe quindi che nella fase pienamente umana dell’evoluzione la riuscita sia continuamente e fondamentalmente in discussione. Il vero progresso, il progresso verso e nell’amore, può ad ogni momento naufragare definitivamente. Lo può nella persona individuale, il cui rifiuto iniziale di amare può ferire e paralizzare il potere d’amore fino a imprigionarlo nelle mura di questo rifiuto; lo può nell’insieme della famiglia umana, in cui la colpa di alcuni individui può influenzare tutta a comunità fino al punto che tutti accettano come proprio il peccato d’un capo. Il rifiuto dell’amore può spiritualmente uccidere l’uomo e l’umanità. E questo rifiuto, con la schiavitù e il suicidio  spirituale che ne sono la conseguenza, non è una possibilità puramente teorica e remota; è un pericolo prossimo e permanente. Anche i santi comprendono che l’abisso del peccato radicale e mortale s’apre immediatamente acanto al sentiero che essi percorrono. Si direbbe che nell’uomo individuale  e nella famiglia umana ci sia una quasi fatale inclinazione che li porta a preferire il falso amore di sé al vero amore di Dio e del prossimo. Nella sua tragica e profonda essenza, il peccato originale è una verità che conosciamo solo per rivelazione. Ma esso costituisce anche un dato d’esperienza, la strana forza d’attrazione d’un falso amore di sé su un’umanità che non può vivere che nell’amore…

In effetti, quello che fa Teilhard è di naturalizzare il peccato, equiparandolo idealmente al male fisico, che è una cosa completamente diversa. Il peccato è il male morale, e il male morale presuppone il libero arbitrio (contrariamente a quel che pensa Lutero): se così non fosse, non ci sarebbe neanche il male morale, propriamente parlando, ma solo una sorta di fatalità, alla quale l’uomo non avrebbe alcun mezzo per resistere. Si direbbe che Teilhard abbia intuito questa contraddizione e abbia cercato una via d’uscita proprio nel concetto di “evoluzione creatrice”, addossando, in un certo senso, il fardello del peccato alla necessità del divenire di tutte le cose, della loro tensione verso l’unità e verso la perfezione finale del ritorno a Cristo, il Cristo cosmico. Ma, così facendo, egli finisce per banalizzare il peccato, che diventa una sorta di materiale di riporto nella evoluzione delle cose verso il livello superiore di esistenza, cioè, nel caso dell’uomo, verso la vita spirituale. In questo modo, il peccato perde, o tende a perdere, il suo carattere di volontarietà, ossia di rifiuto deliberato e consapevole dell’amore di Dio; e, di nuovo, si direbbe che il libero arbitrio venga fortemente offuscato, se non proprio annientato. Anche la dottrina del Peccato originale, in questa prospettiva evoluzionista e naturalistica, viene fortemente intaccata: non per caso la prima censura da parte dei suoi superiori, Teilhard la ricevette proprio a proposito di quanto aveva sostenuto sulla natura del Peccato originale e del suo impossibile tentativo di conciliarlo con la concezione evoluzionista. Ma, se si riduce il Peccato originale a uno “scotto” che la natura umana ha pagato per poter evolvere dalla differenziazione all’unità, ossia per rimettersi in cammino verso Dio, oltre a cadere in una contraddizione logica (Adamo ed Eva erano già presso Dio, nel Paradiso terrestre, e godevano della sua piena amicizia, nonché di uno stato di perfezione fisica e morale), si viene a porre in dubbio le conseguenze che ebbe, sull’umanità intera, quel primo peccato, facendola decadere fisicamente e moralmente e predisponendola alla tentazione e ad ulteriori peccati. E notiamo, fra parentesi, che tutta la teologia cristiana si basa sul concetto della caduta dell’uomo, e non già – come pensa Teilhard - su quello d’una sua progressiva ascesa verso Dio: la quale ascesa, oltre a non essere un movimento necessario ed univoco, ma soggetto a cadute e regressi, si verifica dopo il fatto della perdita della perfezione originaria e, quindi, dopo un regresso. In questo modo, come nota Pierre Smulders, Teilhard finisce per ridurre a ben poca cosa la drammaticità e la problematicità del percorso di redenzione dell’uomo, poiché lo trasforma in qualcosa di necessario e di certo; con l’aggravante che, in cambio di tale certezza, egli mette nel conto dell’evoluzione una certa quantità di “tentativi falliti”, cioè, per parlare con maggiore chiarezza, una quantità di “anime perse”, che non giungeranno mai a Dio, perché hanno rifiutato il suo amore. Pare che Teilhard non valuti appieno la portata devastante della sua teoria. Se le cose stessero come immagina lui, allora avrebbero ragione i calvinisti, a pensare che una certa quota di umanità è già dannata in partenza, e niente e nessuno la potrà salvare (dottrina della predestinazione); inoltre, non si capisce troppo bene perché il Verbo si sia incarnato, perché Gesù Cristo sia venuto sulla terra a soffrire e morire sulla croce. Dal momento che l’ascesa dell’umanità verso Dio è un movimento, in ultima analisi, “naturale”, perché non limitarsi ad aspettare, e lasciar fare al tempo? Forse per lo scrupolo di offrire a tutte le anime una possibilità di redenzione? Ma, nella teoria di Teilhard, è implicito che un numero non piccolo di anime si perderà comunque: se ogni tentativo riuscito, in natura, è preceduto da parecchi tentativi falliti, allora, seguitando l’analogia – ed è lui che la fa, non noi, benché si tratti di un’analogia completamente sbagliata, perché equipara la vita soprannaturale, che è libertà, a quella naturale, che è necessità – va da sé che i dannati saranno assai più numerosi dei salvati. E si può immaginare una cosa più strana di questa – volendo restare sul terreno quantitativo, che è, lo ripetiamo, un terreno assolutamente improprio per qualsiasi ragionamento di tipo morale – che Dio abbia creato il mondo per poi ricondurlo a sé, ma “calcolando” che tale doppio movimento avrebbe prodotto più fallimenti che successi, più male che bene, più peccato che grazia, e insomma più dolore, infelicità e dannazione finale, che non pienezza, armonia e riconciliazione con Lui? Bisognerebbe dedurne che Dio, oltre ad aver pensato e creato l’universo da puro e semplice architetto (ma questo non era il deismo di stampo illuminista?), è stato anche un cattivo architetto: infatti, come si può avere stima e fiducia in un architetto che, per costruire una casa, danneggia e rovina irreparabilmente una quantità di materiali (e magari anche di operai) assai maggiore di quelli che, alla fine, risultano necessari per realizzare l’opera? Che scarta nove mattoni su dieci?
Oggi, dicevamo, vi sono diversi indizi che fanno pensare a una prossima riabilitazione della “teologia” di Teilhard e, forse, ad una sua promozione al rango di nuova teologia ufficiale, o semiufficiale, della Chiesa cattolica. La sua concezione del peccato, così palesemente erronea dal punto di vista dottrinale, ha tutte le caratteristiche per piacere ai teologi della “svolta antropologica” e ai cardinali, vescovi e sacerdoti modernisti, appunto perché lo naturalizza e, naturalizzandolo, lo minimizza. La concezione complessiva di Teilhard è impregnata di ottimismo antropologico, proprio come quella di Pelagio. Ma la sana teologia cattolica ha sempre condiviso, con san Paolo e sant’Agostino, un ragionata pessimismo a proposito dell’uomo, non come “errore” della creazione, ma come effetto del Peccato originale e della perdita della perfezione originaria. Proprio per questo si è resa necessaria, indispensabile, l’Incarnazione del Verbo: umanamente parlando, i discendenti di Adamo erano spacciati: mai e poi mai avrebbero potuto ristabilire il giusto rapporto con Dio; mai e poi mai avrebbero saputo volgere le spalle all’amor di sé per abbracciare l’amore di Dio e del prossimo. Perché potessero far questo, era necessaria l’Incarnazione di Cristo, nonché la sua Passione, Morte e Resurrezione; non solo: è necessario l’aiuto costante dello Spirito Santo. Teilhard non aveva compreso ciò, o lo aveva sottovalutato? In tal caso, egli è stato realmente un cattivo maestro e un pessimo teologo. In fondo, quello che manca al suo pensiero è l’essenziale: la Croce... 

L’eresia di Teilhard, che esalta l’uomo e minimizza il peccato, sarà la futura ortodossia?

di

Francesco Lamendola

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