UNA BASSA DEMAGOGIA
Quanta bassa demagogia nella visita del papa ai detenuti milanesi di San Vittore. Certo ha fatto benissimo a vistarli ma il punto è la catechesi le parole che ha rivolto ai carcerati in quella occasione: eccone un estratto
di Francesco Lamendola
Quanta bassa demagogia nella visita del papa ai detenuti milanesi di San Vittore
Come è noto, il cuore della visita di papa Francesco all’arcidiocesi di Milano sono state le due ore e mezza che ha trascorso fra i carcerati di San Vittore. Certo, ha fatto benissimo a vistarli: è una delle sette opere di misericordia corporale. Gesù in persona lo ha raccomandato: Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, Ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi (Mt., 25, 34-36). Il punto, però, non è la visita in sé, ma la catechesi che l’ha caratterizzata; il punto sono le parole che il papa ha rivolto ai carcerati in quella occasione. Eccone un estratto, riportato dalla stampa di tutto il mondo:
Vi ringrazio dell’accoglienza. Io mi sento a casa con voi… Gesù ha detto: “Ero carcerato e tu sei venuto a visitarmi”. Voi per me siete Gesù, siete fratelli. Io non ho il coraggio di dire a nessuna persona che è in carcere: “Se lo merita”. Il Signore ama me quanto voi, lo stesso Gesù è in voi e in me, noi siamo fratelli peccatori. Pensate ai vostri figli, alle vostre famiglie, ai vostri genitori. Passo tanto tempo qui con voi che siete il cuore di Gesù ferito. Grazie tanto e pregate per me.
Come sempre, come è nello stile di questo abilissimo gesuita, il suo discorso è stato in apparenza perfettamente ortodosso: per capire quel che in esso non va, bisogna darsi il disturbo di approfondire le ragioni di un qualcosa che non convince tuttavia del tutto, di un qualcosa che stride con tutto quel che ha sempre insegnato il Magistero fino ad oggi, oltre che con la lettera e lo spirito vero del Vangelo. Si sente che qui c’è qualcosa di diverso; qualcosa di sottile, il più delle volte ben nascosto (qualche volta, invece, qualcosa di tremendamente paradossale e quasi di sfrontato); qualcosa che il Buon Pastore, quello autentico, non avrebbe mai detto.
Ma prima di andare avanti, premettiamo che la condizione dei carcerati è una di quelle condizioni esistenziali che sono sempre state in cima ai nostri pensieri; e che siamo perfettamente consapevoli che non tutti i carcerati sono colpevoli e meritano di essere dietro le sbarre, mentre vi sono delle persone, onorate e rispettate nella società, che meriterebbero, esse sì, di trovarsi in carcere, a scontare i loro delitti occulti, le loro nascoste iniquità (cfr. il nostro articolo di sei anni fa: Caro amico che sei in carcere…, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/07/2011).
Il cuore della incongruenza, del sottile veleno presente nel discorso ai carcerati di papa Francesco, è nella frase: Io non ho il coraggio di dire a nessuna persona che è in carcere: “Se lo merita”. Visto che dice lui stesso di non avere quel coraggio, forse a San Vittore non avrebbe dovuto andarci; forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere. Perché può guardare in faccia i carcerati, può guardarli dritto negli occhi, senza volerli blandire, o ingannare, soltanto chi sappia dire loro: La maggioranza di voi si trova esattamene dove dovrebbe essere; la maggioranza di voi è qui perché ha sbagliato, ha commesso dei crimini e deve risarcire la società del male che le ha fatto. Il cristiano crede nel pentimento del peccatore, ma crede anche nella giustizia del castigo: e se ciò vale nella sfera spirituale, non si vede perché non dovrebbe essere valido anche in quella materiale. È troppo comodo attaccarsi a quell’innocente che è finito in carcere per sbaglio, per suggerire che forse anche gli altri sono innocenti, e che nessuno ha il diritto di giudicarli. Certo, nessuno li può giudicare moralmente, anche se il giudice ha il diritto, eccome, a nome della società, di giudicarli e anche di condannarli, con tutto il rigore della legge, in proporzione alla gravità dei loro delitti. Che poi qualche innocente venga condannato per errore, questo fa parte della condizione umana, che non brilla certo per verità e giustizia: ma ciò non autorizza nessuno a fare finta che siano tutti innocenti. Il male c’è, il peccato c’è, e i peccatori anche. Il ladro, lo stupratore, l’assassino, ci sono, hanno un volto, un nome, e il posto in cui devono stare è il carcere. Se così non fosse, potrebbero fare dell’altro male; senza contare che la loro impunità aggraverebbe il dolore delle loro vittime, o dei parenti delle loro vittime. Non è lecito, non è decente, e tanto meno cristiano, fare finta che i cattivi siano sempre degli “altri”, che sia sempre qualcun altro, mai i presenti. In un carcere, almeno nove detenuti su dieci meritano di essere lì. Diremo di più: ve ne sono parecchi che meriterebbero delle pene assai più severe. È scandaloso vedere i responsabili di delitti efferati lasciare il carcere dopo pochi anni, talvolta pochi mesi di detenzione, e girare a testa alta per le strade, magari per sorridere ironicamente alle persone cui hanno causato tanto dolore.
Non è carino andare a visitarli per gettar loro sul muso questa triste verità? Siamo d’accordo. Infatti, non era necessario che il papa dicesse loro: È giusto che vi troviate qui dentro. Avrebbe potuto semplicemente sorvolare su questo aspetto, che pure è fondamentale, e lo è proprio nella prospettiva cristiana: quello della giustizia riparatrice, del risarcimento che il peccatore deve al suo prossimo, oltre che a Dio. Ma no; papa Francesco non ha saputo resistere all’impulso, in lui addirittura compulsivo, di dire ciò che piace al mondo, piuttosto che quel che piace a Dio; non ha resistito al desiderio, molto umano, troppo umano, di piacere agli uomini, di essere applaudito, di essere ammirato per il suo “coraggio”, per la sua “schiettezza”. Né coraggio, né schiettezza, ma solo bassa demagogia nel suo discorso ai carcerati. Egli ha fatto semplicemente finta che quelle persone si trovino lì per caso, come potrebbero trovarsi in qualsiasi altro luogo: le ha ingannate, le ha illuse, ha dato loro la sensazione, quasi, quasi, di essere vittime di una qualche forma di violenza, d’ingiustizia. Ha dato loro una falsa coscienza, le ha incoraggiate ad assumere una falsa percezione di sé: vale a dire che ha fatto un’opera non di educazione, ma di contro-educazione, di contro-pedagogia. Perché, se non si può dire loro, e nemmeno pensare, che si meritano di essere in carcere, allora ne deriva che non dovrebbero essere lì. Tertium non datur. O sono a San Vittore per una buona ragione, oppure hanno subito una terribile ingiustizia. Ancora una volta – ormai non si contano – ha abusato del suo abito e della sua funzione, per dire cose che non aveva il diritto di dire. E sì che ci ha tenuto a precisare, anche questo per l’ennesima volta, che lui non è il papa (ma cos’è, allora; e a nome di chi parla, e con quale diritto?), ma solo il vescovo di Roma. Il che è un altro scandalo, anche se ormai ci siamo abituati.
Per illustrare il concetto in questione, ossia che non se la sente di dire ai detenuti che è giusto che stiano lì dove sono, ha aggiunto che dietro ogni condanna c’è un detenuto, c’è una storia umana, della quale non possiamo saper tutto. Altri concetti giusti, ma piegati al fine di un ragionamento capzioso. Certo che ogni detenuto è una persona; e certo che ogni persona è un caso a sé, un mistero insondabile per gli altri uomini, che Dio solo conosce sino in fondo… ma da ciò non deriva affatto che non si possa giudicare, non la persona, ma l’azione che quella persona ha commesso. Papa Francesco non ha letto la Bibbia, o non l’ha letta bene. La Bibbia, e non solo l’Antico Testamento, ma anche il Nuovo, ribadisce continuamente il concetto che solo Dio è vero giudice, ma che anche gli uomini, davanti al malvagio, possono e devono ergersi a giudici, non degli uomini, ma delle loro azioni. Pertanto, è pura ipocrisia affermare: Io non ho il coraggio di dire a nessuna persona che è in carcere: “Se lo merita”. Se non ne ha il coraggio, è un problema suo. Gesù insegna che il peccatore impenitente è già stato giudicato, e che la sua condanna è certa e inevitabile. Le cose stanno diversamente per il peccatore che si è pentito: tuttavia, se si è pentito veramente, allora sarà lui il primo a desiderare di espiare sino in fondo la sua colpa: vedi la storia del buon ladrone (Noi siamo qui giustamente…). Non convincono quei presunti peccatori pentiti che dicono: Sono pentito; per favore, rendetemi la mia libertà. No, il peccatore pentito non si sente degno di essere perdonato tanto facilmente; chiede di scontare la propria pena sino in fondo; al limite, chiede di ricevere una pena ancor più severa di quella che gli uomini gli hanno comminato. Perché il vero pentimento è comprendere pienamente la gravità del male fatto agli uomini e della ribellione verso Dio: ed è difficile essere troppo severi, quando si deve giudicare quale pena si meriterebbe. In genere, per un istinto naturale di conservazione, si tende ad attenuare le proprie colpe e si spera di essere giudicati con la massima benignità. Solo chi è veramente pentito, solo chi è passato attraverso il fuoco del vero pentimento e del desiderio di espiazione, è abbastanza giusto da desiderare, per se stesso, una pena severa, proporzionata alla gravità del male che ha commesso.
Più in generale, il tono e lo stile della visita di papa Francesco a San Vittore riflette quel buonismo insopportabile, quella misericordia indiscriminata, e priva di autentico discernimento (per usare una parola a lui molto gradita), che sono anche alla base del suo atteggiamento, a dir poco semplicistico, per cui i cristiani avrebbero il “dovere” di accogliere in Europa, e in Italia specialmente, milioni d’immigrati africani e asiatici, quasi tutti musulmani, senza chiedersi, neanche per un momento, se tali migrazioni siano davvero spontanee, e inoltre se l’unica maniera di aiutare i bisognosi sia quella di prenderseli tutti in casa propria, invece di soccorrerli in casa loro. Il buonismo, ricordiamolo una volta di più, non solo non è qualcosa di simile alla bontà, ma ne è l’esatto contrario: è il suo stravolgimento, il suo capovolgimento, la sua negazione. Il buonismo parte dalla falsa (e non cristiana, non cattolica) idea che tutti siano buoni, anteriormente all’azione della società: è un’idea di Rousseau, e non ha niente di cristiano: al contrario, è fondamentalmente anticristiana. Infatti, se tutti sono buoni, allora il male non esiste; se c’è, c’è per caso; in una società più giusta e ordinata, probabilmente, esso finirebbe per sparire, così come in un efficiente sistema stradale, e con una efficiente tecnologia delle automobili, e con una efficiente normativa sui controlli dei guidatori e sulle revisioni dei veicoli, gli incidenti diminuiranno sempre più, fino ad avvicinarsi al livello zero. O almeno così pensa qualcuno.
Che cosa avrebbe potuto e dovuto dire, allora, il papa, anzi, che cosa avrebbe potuto dire un qualsiasi cattolico, sacerdote o anche laico, per aiutare, sostenere, incoraggiare i carcerati di San Vittore? Non illuderli che essi siano lì per sbaglio, o addirittura per un destino ingiusto; ma invitarli a cogliere la loro attuale condizione come un’occasione per la conversione e per la rinascita dell’anima. Esattamente come si dovrebbe dire ai malati, schiacciati dalla sofferenza: la malattia può essere occasione di grazia, la sofferenza può essere occasione di bene. Dio ci ama, bussando alla nostra porta; e siccome siamo assai duri d’orecchi, a volte picchia forte sul serio. Ma lo fa perché ci ama. Il cristiano crede questo; ed è per tale motivo che non si scandalizza del carcere, della malattia, della sofferenza. Il cristiano sa che la sofferenza è la via privilegiata che avvicina le anime a Dio. Questo è il concetto che un cattolico può e deve esprimere, come forma di solidarietà e di amore, ai carcerati: non dire che non se la sente di considerare giusta la loro pena. Il problema è che dire queste cose, richiede un po’ di coraggio: perché sono come una medicina, che fa bene al malato, ma, sul primo momento, ha un sapore amaro. Ecco, quel che caratterizza la pastorale del papa Francesco è il desiderio di lasciare immediatamente un gusto dolce nel palato di quanti lo ascoltano. Ma il buon medico non fa così: somministra la medicina amara, senza tanti complimenti, perché sa che di essa ha bisogno il malato, per guarire. Non gli dice: Non me la sento di darti questa medicina, perché è troppo amara; ma gli dice: Se vuoi guarire, questa è la medicina; decidi tu se vuoi prenderla o no. Una medicina che faccia bene non è mai dolce, almeno sul primo momento. Questo è un parlare schietto; un parlar virile. È virile non cerare l’applauso, non mettersi in mostra, non sollecitare l’approvazione altrui; è virile dire: Sì, sì, e No, no, perché il di più viene dal diavolo: come d’altronde Gesù stesso ci ha raccomandato di fare.
Gesù era virile, era schietto, era un vero medico di anime. Gesù andava dai malati, dai sofferenti, dai peccatori, ma non diceva loro: Io non ho il coraggio di dirvi niente; al contrario: diceva loro: Questo è per la gloria di Dio, affinché vi convertiate, e tutti vedano e credano. Gesù non faceva finta che il male sia sempre da un’altra parte, che il malvagio sia sempre qualcun altro: quando parlava ai peccatori, li chiamava con il loro nome. Alla donna adultera, disse: Vai, e non peccare più. Era una peccatrice: lui non le disse che il suo non era un peccato, ma le raccomandò di non perseverare in esso. Ecco perché il discorso di papa Francesco ai detenuti di San Vittore non ci è piaciuto. Come non ci sono piaciuti i suoi discorsi ai malati e ai sofferenti, in tante altre occasioni…
Quanta bassa demagogia nella visita del papa ai detenuti milanesi di San Vittore
di Francesco Lamendola
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