Una stupenda Pala di Roger van der Weyden dedicata a Maria,
dal titolo Miraflore, s’ispira, probabilmente ad un antico inno di sant’Efrem:
In Aprile il Signore è sceso dalle alture e Maria lo ha accolto. Che la Pasqua
ci spalanchi questa misteriosa casa di Maria, dove la contemplazione delle
piaghe del Risorto è prova di quella divinità gloriosa che trionfa proprio
sulle miserie umane. Senza questa chiave di lettura a che varranno gli sforzi
per salvare l’uomo dalla malattia e dall’abbrutimento? Paolo, del resto, già ci
ammoniva: se Cristo non è risorto vana è la nostra fede.
Rogier van der Weyden (1399/1400–1464) Altare di Nostra Signora (Altare Mirafiori), circa 1440, olio su legno di quercia 213 h 43 cm Gemäldegalerie, Berlino
La Chiesa antica non poteva pensare che proprio Colei che aveva generato il Verbo di Dio, Colei che era rimasta, di pietra (stabat) sotto la croce, fosse esclusa dalla visione beata del Risorto. Se i Vangeli tacciono sull’apparizione di Cristo a Maria dopo la sua risurrezione dai morti, non tacciono la meditazione e la letteratura cristiana, non tace l’arte.
Una stupenda Pala di Roger van der Weyden dedicata a Maria, dal titolo Miraflore, s’ispira, probabilmente ad un antico inno di sant’Efrem:
In Aprile il Signore è sceso dalle alture e Maria lo ha accolto; in Aprile egli è risuscitato e si è elevato, e anche Maria lo vide, lei che si era accorta che era disceso negli abissi della morte; e anche, per prima, lei lo vide risuscitato; ora alture e profondità vedono il nome di Maria. Benedetto sei, Aprile, per aver visto il concepimento, la morte e la risurrezione di nostro Signore.
Ed è proprio un giorno di aprile dei più luminosi e tersi che van der Weyden ci permette di contemplare dalla finestra della casa di Maria.
Davanti al panorama di Gerusalemme, fuori dalle mura della città, il sepolcro aperto è come una bocca spalancata verso il cielo che grida il suo alleluia. Da Gerusalemme sopraggiungono le tre mirofore. I loro abiti si armonizzano totalmente con l’evento: la prima è in blu, come il mistero di quella morte e di quella risurrezione; l’altra è in rosso come il mistero di quel sacrificio; l’ultima è in verde, come il Mistero dell’Incarnazione di Cristo, verde come la campagna che circonda Gerusalemme.
Il risorto è colto nel momento stesso della risurrezione: le guardie sbaragliano a terra e un angelo sta, ritto e orante, sopra la pietra ribaltata.
Il primo atto del Risorto, secondo quest’opera fiamminga, è la visita alla Madre. L’espressione di Cristo è bellissima, dal suo volto traspaiono trepidazione, amore e dolore: trepidazione per il desiderio di mostrarsi alla Madre finalmente vittorioso; amore per quell’opera compiuta insieme, fino in fondo, secondo la volontà salvifica del Padre; dolore per le lacrime di Maria.
Gesù veste il mantello rosso del martirio, ben evidente è la ferita del costato, così come evidente è la sua carne: una rete venosa s’indovina sotto la pelle. Cristo è vero uomo, veramente morto, la sua carne è vera carne. Dopo la risurrezione, Cristo, per testimoniare ai suoi questa verità mangerà con loro, farà loro vedere e toccare le piaghe della tortura subita. Cionondimeno egli è Dio. La sua risurrezione è reale e definitiva. Cristo non morirà di nuovo, come Lazzaro, ma porterà con sé nella gloria il suo corpo di carne, pegno della nostra futura gloria. Maria seduta, intenta alla lettura e alla meditazione, forse dei carmi di Isaia che parlano del servo sofferente, solleva lo sguardo ancora colmo di pianto. Due lacrime, come perle, le impreziosiscono il volto. E vede. Vede anzitutto le piaghe. Non guarda direttamente il Figlio negli occhi, chissà forse anche lei fatica a riconoscere il Corpo del Risorto trasfigurato dalla gloria, come ci testimoniano i Vangeli, ma riconosce le piaghe secondo il detto del profeta:
bagliori di folgore escono dalle tue piaghe là si cela la tua potenza.
È nella potenza di quelle piaghe che si comprende la risurrezione. Senza attraversare lo scandalo della croce, senza accettare un Dio che si è umiliato fino al tal punto, la risurrezione, è ridotta conseguenzialmente a mito.
E sembra incredibile come dopo 2000 anni di storia, dopo testimonianze rimaste indenni nei secoli, anche i più bui e i più terribili, come la Sindone, l’uomo contemporaneo (e, ahimè, talora cristiano) lasci tramontare dal suo orizzonte quotidiano, così facilmente la certezza della vita risorta. Paolo, del resto, già ci ammoniva: se Cristo non è risorto vana è la nostra fede.
Che la Pasqua ci spalanchi questa misteriosa casa di Maria, dove la contemplazione delle piaghe del Risorto è prova di quella divinità gloriosa che trionfa proprio sulle miserie umane. Senza questa chiave di lettura a che varranno gli sforzi per salvare l’uomo dalla malattia e dall’abbrutimento? Avrebbero, forse, ragione i sostenitori dell’eutanasia. O forse no, perché nel cuore dell’uomo è scritto, da sempre, il desiderio di non morire. Nella storia dell’umanità, tuttavia, solo la rivelazione giudaico-cristiana, solo Cristo in particolare, ha preso sul serio un tale desiderio, Egli che ha lasciato il suo cielo per prendere la nostra carne e portarla nella gloria.
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