In preparazione del Convegno internazionale di sabato 22 aprile ("Fare chiarezza - A un anno dalla Amoris Laetitia"), pubblichiamo alcuni articoli che affrontano i punti nodali che sono alla base delle opposte interpretazioni che si danno dell'Amoris Laetitia e soprattutto del capitolo VIII (dedicato alle situazione irregolari). Iniziamo perciò da una prima riflessione sull'Eucarestia, il sacramento maggiormente incompreso e messo in discussione da alcune interpretazioni riguardo alla possibilità per i divorziati risposati di accedere ai sacramenti.
«(Voi mariti e mogli) non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera» (1Cor 7,3). A partire da qui, san Gerolamo († 420) - notoriamente un “patito” della verginità e della vedovanza, tanto che i suoi avversari lo accusavano di intrattenere più amicizie femminili che maschili (all’epoca era un’accusa; oggi potrebbe essere un complimento di... non essere quello che in idioma felsineo si definisce un “busone”!) - San Gerolamo, dicevo, a partire da qui prosegue: «Che cosa è più grande: pregare o ricevere il corpo di Cristo? Certamente ricevere il corpo di Cristo. Ma se ciò che è di meno (= pregare) è impedito dall’unione carnale, ciò che è di più (= ricevere il corpo di Cristo) ne sarà molto di più impedito» (Lettera 49,15 A Pammachio; cf anche Contro Gioviniano I,7).
Mai sostenuta in documenti magisteriali di primaria importanza, l’idea e la conseguente prassi che l’accostarsi all’Eucaristia comportasse al meglio l’astensione dai rapporti coniugali in quel giorno o in un lasso di giorni precedenti, divenne un fiume carsico di notevole consistenza, ribadita anche in un lettera da un pastore mite come san Gregorio Magno († 604). Questo “consiglio” fu “anche” uno dei fattori che nella tarda antichità e nel Medioevo contribuì a diradare la pratica della comunione. Con molta attenuazione e con eleganza secentesca francese, anzi savoiarda, è presente ancora in san Francesco di Sales († 1622), che consiglia a una buona signora (e al di lei marito): «È cosa poco conveniente, benché non sia un grande peccato, chiedere la soddisfazione del debito coniugale nel giorno in cui si è fatta la comunione; ma non è sconveniente, anzi direi che è meritorio, renderlo» (Filotea II,20).
Certo che a leggere questi testi l’impressione è di trovarsi in un mondo e in una Chiesa alla rovescia rispetto alle problematiche attuali: altro che comunione ai divorziati risposati e ai conviventi! Ma di che cosa di trattava? Di Vangelo o di cultura?
Per rispondere è utile un salto al 1847. Giuseppe Verdi a Parigi rincontrò stabilmente la prima interprete femminile del Nabucco, Giuseppina Strepponi, ed iniziò con lei una relazione “coniugale” stabile trasferendosi a Busseto, dove però la coppia fu oggetto di critiche e disapprovazioni, soprattutto per la Strepponi, già madre a seguito di due libere relazioni. Tutto si attenuò un poco quando i due si sposarono il 20 agosto 1859 non a Busseto ma in una cittadina della Savoia. La valutazione negativa e scandalosa da dove nasceva? Dalla mentalità cattolica? Forse in gran parte, ma non totalmente.
Un secolo dopo, nel 1946 Nilde Iotti iniziò una relazione stabile con Palmiro Togliatti, regolarmente sposato e che dunque abbandonò la moglie. Il che non fu ben visto da una parte di quelli che allora contavano nel Partito comunista italiano. Ma non si può presupporre che le riserve partissero dalla fedeltà al Vangelo e alla dottrina della Chiesa: erano chiaramente riserve culturali o morali/culturali.
Pochi anni dopo, il 18 aprile 1963 a Milano nella clinica Mangiagalli nacque Massimiliano, figlio “naturale” di Mina e dell’attore Corrado Pani “sposato”. Qui le reazioni furono diverse: mentre alcuni giornali condannarono non la nascita ma la relazione che l’aveva originata e mentre la televisione di stato diradò la presenza di Mina sul piccolo schermo casalingo, una parte crescente di opinione pubblica dimostrò invece una benevola solidarietà e approvazione non dando rilevanza alla relazione “illecita”, tanto che Mina commenterà più tardi: «La gente non si è lasciata condizionare da questo fatto, l’ha superato». Ciò che non era capitato nei due esempi precedenti.
Oltre a Mina si potrebbero portare tanti altri esempi, comunque più o meno dagli anni ’60 cominciò a imporsi un movimento teso a sdoganare da vincoli morali e sociali il rapporto affettivo tra uomo e donna, lasciandolo esclusivamente alla loro scelta. Oggi questo processo è culminato tracimando da uomo/donna ed estendendosi anche a uomo/uomo, donna/donna, adulto/bambino e financo a uomo/animale.
Prima che un problema morale è un problema di cultura e quindi di percezione. La gente “media” percepisce una differenza più o meno giuridica tra chi è sposato in chiesa o in comune e chi non lo è, ma percepisce sempre meno la valenza morale di questi vincoli. Anche il buon fedele che viene in chiesa, se non è oggetto di una catechesi attenta e aggiornata, rischia di restare culturalmente indifferente a fronte dei diversi tipi di vincolo, che, sia nel linguaggio come nella prassi, sono legittimati senza discriminazioni di sorta. Questa è una novità pastorale che esige una precisa reazione al momento in cui la Chiesa incontra le persone.
Ma torniamo all’Eucaristia, ricordando l’Eucaristia da poco celebrata lo scorso Giovedì Santo, all’inizio del triduo pasquale. Quella Eucaristia ha rimandato più di altre alla memoria del Cenacolo, l’Ultima Cena e la prima Eucaristia di Gesù. In essa ci fu un protagonista - Gesù -, ma anche due estremi di partecipanti: da una parte i discepoli preparati e dall’altra Giuda. Così nella prima Eucaristia ci fu la prima comunione “santa” e la prima comunione “sacrilega” e peccaminosa: lo abbiamo mai notato?
Che la comunione di Giuda fosse peccaminosa e sacrilega va da sé e non esige altre spiegazioni. Che la comunione dei restanti discepoli fosse preceduta da una preparazione (peraltro estesa anche a Giuda) da parte di Cristo, lo si evince dal fatto che furono chiamati a seguire per alcuni anni il Maestro nella sua predicazione e fatti oggetto più di una volta di insegnamenti rivolti direttamente a loro. Ma risulta anche dalla lavanda dei piedi, a patto di comprenderla nella sua pienezza. Un certo numero di santi padri - e sant’Ambrogio ne è un testimone autorevole - per la lavanda dei piedi parlavano di “exemplum humilitatis” ma anche di “mysterium sanctificationis”.
Ora ciò che è presente e divulgato nella pastorale attuale è l’esempio di umiltà, cioè il servizio di Gesù e di riflesso dei futuri pastori della Chiesa e di tutti i cristiani. Ciò è vero ma non è tutta la verità. Gv 13,6-10 spiega che lasciarsi lavare i piedi da Gesù è condizione per aver parte con Lui; soprattutto parla di purezza, di purificazione, del fatto che non tutti i presenti sono puri. Per cui la lavanda dei piedi è anche da parte di Gesù un mistero di santificazione, con il quale purifica i discepoli in vista di prendere parte all’Eucaristia. Così una tradizione - oggi scarsamente divulgata nella pastorale spicciola - ha visto nella lavanda dei piedi la figura del Battesimo e delle successive purificazioni per accedere all’Eucaristia.
È determinante che già da parte di Gesù e già nella prima Eucaristia siano presenti la messa in guardia da una comunione sacrilega e il rifiuto di prendere la gente “così come è”, insieme all’offerta di un cammino di purificazione necessario per arrivare all’Eucaristia.
Perché non pensare tutto questo anche in relazione alla mentalità presente circa i rapporti affettivi tra uomo e donna dei quali abbiamo parlato e anche in relazione a tutto il resto del messaggio cristiano, compresa, in questa luce, la parte di verità di 1Cor 7,3, di san Gerolamo, di san Francesco di Sales ecc.?
La Chiesa deve certamente partire dalla gente così come è, ma non può ammetterla all’Eucaristia “così come è”, “così come pensa”, “così come vive”. La Chiesa portando all’Eucaristia non può limitarsi a lavare i piedi nel senso di servire il mondo (degli uomini) offrendo la salvezza, ma deve anche lavare i piedi nel senso di purificare il mondo da ciò che impedisce di arrivare alla Eucaristia.
19-04-2017http://www.lanuovabq.it/it/articoli-cio-che-accadde-all-ultima-cena-fa-chiarezzasi-puo-accedere-all-eucarestia-solo-se-purificati-19582.htmLa messa è finita. Per mancanza di fede(li)
Sul portone della chiesa di sant’Erasmo, situata su una delle tante isolette della laguna di Venezia, da qualche giorno è affisso un cartello: La messa è sospesa per mancanza di fedeli. Si tratta, evidentemente di una provocazione, ma è anche lo spunto per una riflessione.
Cominciamo anzitutto dalla questione numerica. In quante altre chiese d’Italia potrebbe essere appeso un cartello simile? Molte, moltissime, purtroppo, come tutti sappiamo. La situazione sul territorio nazionale è variegata, ovviamente, ma se in alcune, poche, regioni la percentuale dei praticanti è ancora relativamente alta (ad esempio Lombardia, Veneto, Sicilia) per la gran parte del nostro Paese l’abbandono progressivo della partecipazione alle funzioni religiose è in crescita. Non diciamo niente di nuovo: è l’inevitabile effetto della scristianizzazione in atto da quarant’anni.
Questo dato però non è adeguatamente compreso se non lo si mette in rapporto con un altro dato, in certo modo di segno opposto: anche l’ateismo è in calo. La percentuale di coloro che si dichiarano atei in Italia, dagli anni Settanta ad oggi, è quasi dimezzata. Questo significa che molte persone, specialmente i giovani, non si riconoscono più nel materialismo, ma neppure si riconoscono nell’appartenenza ad una fede religiosa; preferiscono il ‘credo a modo mio’, una spiritualità fluida e non confessionale. In questa scelta, evidentemente, gioca un ruolo fondamentale l’influsso della cultura contemporanea dominata dal soggettivismo e del relativismo, ma non pare sia ininfluente anche la profonda smobilitazione identitaria e culturale del cattolicesimo italiano (e non solo italiano, ovviamente).
Dopo che per decenni si è ripetuto nelle nostre chiese, nei nostri oratori, nei nostri convegni, che il cristiano non deve essere assertivo, che è più importante porre domande che dare risposte, che la fede è una ricerca mai compiuta, una problematicità sempre aperta, che si è cristiani non per ciò che si crede ma per come si agisce, ecco a forza di ripetere ossessivamente questi slogan non c’è poi da meravigliarsi se tanti finiscono per prenderli sul serio e ne tirano le debite conseguenze.
E allora succede che, come accaduto una quindicina di anni fa, uno dei tanti uffici CEI commissioni un sondaggio tra i ragazzi italiani di parrocchia e di oratorio (sondaggio poi pietosamente sepolto in qualche archivio, dato il disastro emerso) e salti fuori ad esempio che, di detti ragazzi, più del sessanta per cento crede alla reincarnazione piuttosto che alla risurrezione! E se le idee sono queste, quanto ci si può aspettare che duri la pratica religiosa di questi ragazzi divenuti adulti? Quando è finita l’età dei campeggi, delle partite all’oratorio e delle schitarrate, chi di questi continua ad andare a messa? Ed ecco che le chiese si svuotano …
Dunque il dato numerico (bassa percentuale di praticanti) ha dietro di sé il dato religioso (bassa intensità della fede) che a sua volta ha dietro di sé il dato ecclesiologico: la Chiesa sta ancora facendo il proprio mestiere? Non ripeteremo mai abbastanza che la Chiesa non si occupa di sociologia o di ecologia, non è un’agenzia umanitaria o di intrattenimento; la Chiesa deve evangelizzare, cioè dire a tutti la verità su Dio e sull’uomo, sulla vita terrena e sull’aldilà. Questa è la Chiesa come l’ha istituita il Signore Gesù, questa è la Chiesa di cui il mondo ha bisogno, questa è la Chiesa che riempie le chiese!
A questo punto, però, andiamo oltre la questione numerica. Il ritorno a Dio dell’uomo contemporaneo, il ritorno all’unico vero Dio, cioè il ‘Dio cattolico’, il solo Dio alla cui presenza cadono gli idoli del nuovo paganesimo edonista che seminano schiavitù ed infelicità, è un’opera assolutamente soprannaturale: il Figlio di Dio fatto uomo, inchiodando la sua umanità sulla croce, ne ha fatto il ponte fra il Cielo e la terra e quindi la via per il ritorno dell’uomo a Dio; come sappiamo, questa immolazione che riconcilia l’uomo con Dio si perpetua sugli altari nella santa messa: per questo ogni messa, celebrata tra le volte di una grande cattedrale, nelle forme più solenni e il più ampio concorso di fedeli, o celebrata nella solitudine di un eremo, ha in sé il medesimo valore dell’unico sacrificio di Cristo, presta alla santissima Trinità un atto infinito di adorazione e di ringraziamento, dona sollievo e liberazione alle anime del purgatorio, riversa incalcolabili grazie sulla Chiesa e sull’umanità, converte i peccatori, santifica i fedeli, sconfigge i demòni.
Non c’è nulla di retorico in tutto questo. Questo è ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e vissuto e praticato. Ci crediamo davvero? Se ci crediamo, allora attenzione ai cartelli che esponiamo… La messa è sospesa per mancanza di fedeli … sicuramente il parroco che lo ha scritto, come i tanti che lo potrebbero scrivere, lo intende nel senso che, data la scarsità di preti da cui siamo afflitti, un sacerdote ‘sottoutilizzato’ in una zona, preferisce lasciare la parrocchia e andare altrove a celebrare la messa, amministrare i sacramenti, predicare e fare catechismo, cioè in un luogo in cui il suo ministero può essere più fruttuoso perché più richiesto.
Sarebbe invece assurdo se quella frase fosse rivelativa di un criterio del tutto mondano secondo il quale se non c’è abbastanza pubblico lo spettacolo non va in scena! La messa non è uno spettacolo rivolto ad un pubblico, ma un atto di culto e di amore a Dio-Trinità che ne è contemporaneamente il protagonista e il destinatario! Il ‘pubblico’ può esserci o non esserci, fisicamente; ma in realtà c’è sempre, poiché ogni liturgia è azione di tutta la Chiesa e anche se celebrata in solitudine da un sacerdote in cima a un monte, lì è presente e agisce il Signore Gesù Cristo e dunque è presente immancabilmente l’intero suo Corpo mistico, la Chiesa del Cielo, quella della terra e quella del Purgatorio.
C’è un mondo invisibile ma realissimo che si affolla intorno al più umile e nascosto altare in cui si rinnova il santo Sacrificio della messa; c’è un fiume incontenibile di grazie che sgorga da esso e di cui il sacerdote è ministro per decreto divino, indipendentemente dal ‘successo’ di pubblico che egli riesca a suscitare nel quartiere o nel paese in cui vive.
Qualunque scelta ‘pastorale’ non può che fondarsi su questa realtà della nostra fede e non può mai prescindere da essa.
19-04-2017
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