Il liquidatore risentito
Il 19 maggio scorso, nella sua quotidiana omelia presso la Casa di Santa Marta, il papa ha puntato il dito contro i suoi critici, e, come al solito, li ha consegnati al pubblico abominio. Non ha minimamente tentato di confrontarsi con essi, non ha minimamente preso in considerazione le loro obiezioni, né ha fatto loro il regalo di crederli mal consigliati, forse, però in buona fede; al contrario, li ha dipinti come perfidi seminatori di zizzania, impossessandosi, ancora una volta, di una bellissima parabola evangelica per seminare rancore nei confronti di quanti, della Chiesa, non capiscono, non approvano e non condividono ciò che lui sta facendo, il modo in cui sta governando la Sposa di Cristo, il suo stile pastorale, e, soprattutto, la sua dottrina, o piuttosto la sua demolizione sistematica della dottrina cattolica.
Con voce carica di rabbia, con lo sguardo duro, le labbra contratte, livido, schiumante, ancora una volta il papa della misericordia ha mostrato il suo vero volto; e ancora una volta si è servito abusivamente del pulpito, della omelia di una Santa Messa, per trasformarla in una tribuna popolare, da cui scagliare le sue folgori molto umane, troppo umane, senza trasmettere il benché minimo afflato di spiritualità, di raccoglimento, di lode a Dio, di serenità e benevolenza cristiana, ma, al contrario, per sobillare la comunità cattolica contro i suoi “nemici”, con un astio che neppure si sforzava di trattenere, e con una incapacità di ascolto quale solo i più sordi dittatori, nel corso della storia, hanno mostrato. Come è nel suo costume, non ha discusso con quanti non condivodono la sua impostazione pastorale e dottrinale, non ha valutato le loro tesi, e ha calcolato meno di zero le loro preoccupazioni; non ha concesso neppure il beneficio del dubbio, non ha voluto ammettere, neppure come ipotesi di lavoro, che costoro, forse, stanno sbagliando anche perché lui non risponde, non discute, non si confronta; no: ha rivendicato per sé ogni ragione, e la giusta interpretazione della dottrina cristiana; per gli altri, non ha avuto che parole e atteggiamenti di sommo disdegno, quasi di ribrezzo.
Tutto questo, comunque non è una novità; ci siamo abituati ormai da più di quattro anni. Quel che colpisce, nella omelia del 19 maggio, è che, riprendendo un tema da lui già accennato altre volte, ha voluto precisare meglio l’accusa che rivolge ai suoi critici: quella di avere trasformato la dottrina cattolica in una ideologia; sostenendo che la dottrina è buona, perché unisce, mentre l’ideologia è cattiva, perché divide. Peccato che egli abbia identificato senz’altro se stesso come il solo, legittimo depositario della vera dottrina, e i suoi critici come i subdoli autori di una bassa operazione, la trasformazione della dottrina in ideologia. A quel che è dato capire, la trasformazione consiste in questo: nel rendere la dottrina una cosa rigida, una cosa morta, una cosa da brandire come un’arma contro ogni soffio di rinnovamento. A quel che par di capire, perché lui non si è sforzato molto di chiarire il concetto: riteniamo, comunque, di non aver travisato il suo pensiero, semmai di averlo precisato, laddove egli aveva preferito lasciarlo nel vago. Questo, infatti, è il suo tipico modo di agire: tenersi nel vago, per poter dire tutto e il contrario di tutto; e poi scagliarsi contro quanti hanno l’imperdonabile sfrontatezza di chiedergli d’essere più preciso.
Il caso della esortazione Amoris laetitia è emblematico: tutti riconoscono che si tratta di un testo, a dir poco, ambiguo, e che crea più interrogativi di quanti ne sciolga; tutti, almeno, coloro che sono disposti a compiere un sia pur minimo sforzo di obiettività. Però il papa non ha mai voluto precisare i punti controversi, ha preferito il silenzio; e dal settembre scorso i quattro cardinali attendono una riposta che, ormai è perfettamente chiaro, non arriverà. Perché? Perché se rispondesse, oltre a doversi “abbassare” al loro livello, mentre Francesco preferisce ignorare i suoi critici nella maniera più assoluta e strafottente, dovrebbe anche precisare: cosa impossibile, dato che qualunque precisazione lo spingerebbe là dove non vuole andare, a nessun costo. Se dovesse precisare che i divorziati risposati, anche dopo la confessione e l’assoluzione, possono, sì, rientrare nella vita della comunità ecclesiale, ma solo a condizione di fare ordine nella situazione irregolare in cui si sono posti, chiaramente dovrebbe sconfessare se stesso; se affermasse esplicitamente che non vi sono condizioni e che chi è assolto, è assolto in ogni caso, senza “se” e senza ”ma”, allora dovrebbe scontrarsi frontalmente con duemila anni di Magistero ecclesiastico, e verrebbe fuori che egli non aveva, e non ha, alcun diritto d’insegnare, o anche solo di dare a intendere, delle dottrine che sono in contrasto totale e irrimediabile con quanto la Chiesa ha sempre insegnato, e con quanto, nel Vangelo, è scritto nero su bianco, con la massima chiarezza, attraverso le parole stesse di Gesù Cristo: L’uomo non separi ciò che Dio ha unito.
Ma lui, Francesco, vuol essere un papa popolare; a questo tiene, più che a qualsiasi altra cosa: ad essere un papa che piace alle folle, come una star del cinema o come un famoso campione di calcio; un papa che viene applaudito, che viene osannato; un papa sul quale si girano dei film, si scrivono dei libri, si pubblicano perfino delle riviste specializzate, che parlano sempre e solo di lui, e sempre e solo in termini stucchevolmente, insopportabilmente encomiastici e dolciastri: figuriamoci se avrebbe il coraggio di smentire di se stesso, di fare un passo indietro, di rinunciare anche solo a una parte della popolarità che si è malamente guadagnata. E diciamo malamente, perché il Vangelo non appartiene a Jorge Mario Begoglio, ma appartiene solamente a Dio, e nessun uomo ha il diritto di fare degli sconti su quel che sta scritto nel Vangelo. Paolo VI, con la Humanae vitae, ebbe il coraggio di andare contro le aspettative di una parte larghissima del mondo cattolico; e fece bene: perché la dottrina è una cosa seria, non la si può cambiare secondo gli umori della gente e l’evoluzione (o, per dir meglio, l’involuzione) morale della società. Ma lui, Francesco, non avrebbe mai quel coraggio: nessuno lo ha mai visto dire o fare qualcosa che lo ponesse in contrasto con le aspettative della maggioranza, sia dei credenti, sia, soprattutto, cosa cui tiene moltissimo, dei non credenti, dei radicali, degli atei, dei marxisti e dei massoni, nonché dei seguaci delle altre religioni: al contrario, il suo gioco preferito, e nel quale riesce meglio, è quello di bastonare, insultare, denigrare, svilire e deridere quelli che hanno tutta l’aria di essere una minoranza. E tanto peggio se sono proprio i più fedeli, i più affezionati alla Chiesa, i più coerenti nella loro vita quotidiana.
Ecco che cosa ha detto, nel passaggio centrale della sua omelia, papa Francesco:
Ma sempre c’è stata quella gente che, senza alcun incarico, vanno a turbare la comunità cristiana, con discorsi che sconvolgono le anime. Eh, no questo è eretico; Quello non si può dire; Quello, no; La dottrina della Chiesa è questa. E… e… e sono FANATICI, di cose che non sono chiare, come questi fanatici che andavano lì, seminando zizzania, per dividere la comunità cristiana. E questo è il problema: quando la dottrina della Chiesa, quella che viene dal Vangelo, quella che ispira lo Spirito Santo, perché Gesù ha detto Lui: Ci insegnerà e vi farà ricordare quello che Io ho insegnato; quella dottrina diventa IDEOLOGIA. Questo è il grande sbaglio di questa gente.
Lasciamo perdere la forma, totalmente sgrammaticata, e la sintassi, a dir poco approssimativa: lasciamo perdere, anche se il fatto che egli sia straniero non dovrebbe autorizzarlo, dopo più di quattro anni di pontificato, con relativa residenza in Italia, ad esprimersi in una maniera tale che, al confronto, l’italiano di un bambino di prima elementare sembrerebbe un capolavoro di stile ed eloquenza. Giovanni Paolo II, accento a parte, fin da subito si era sforzato di parlare in un italiano decente, e aveva chiesto perdono per gli errori che avrebbe commesso, nonché invitato i fedeli a correggerlo; Benedetto XVI, poi, si esprimeva in un italiano impeccabile, non solo e non tanto perché persona di grande cultura, ma perché persona umile, modesta e conscia delle regole essenziali della buona educazione. Papa Francesco, invece – il quale, dopotutto, viene da un Paese di lingua spagnola, ma per metà popolato da italiani, come italiani erano i suoi avi; e dunque dovrebbe avere meno difficoltà di un polacco o di un tedesco a padroneggiare discretamente la lingua italiana – ostenta i suoi errori, il suo pressapochismo, così come certi statunitensi ostentano la parlata yankee, quando vanno all’esterno, convinti che ciò li renda irresistibili. Ad ogni modo, forma a parte, il contenuto di questa omelia è semplicemente delirante. In poche parole, il papa sostiene che la dottrina è una cosa assolutamente secondaria; che, a prenderla troppo sul serio, si diventa dei fanatici: insomma, che la dottrina esiste per essere allargata o deformata come un guanto di gomma, così da darle la forma che si preferisce: e che la miglior dottrina è la mancanza di dottrina. E, se non lo dice proprio in questi termini brutali, il senso, però, è tale; perché, non appena uno sfortunato cattolico avesse la presunzione di far notare che la dottrina cattolica afferma, o nega, questa o quella cosa, subito egli lo bollerebbe con il marchio del fanatico, e lo additerebbe al disprezzo generale. Una cosa semplicemente inaudita: mai, in duemila anni di pontificato, si era udita una cosa simile: un papa il quale dichiara, enfaticamente e quasi rabbiosamente, che la miglior dottrina è quella che lo Spirito Santo detta a ciascuno, volta per volta, indipendentemente dalla dottrina così come essa è scritta nei Vangeli, codificata dalla Traduzione e recepita dal sacro Magistero. Se questa non è la liquidazione definitiva della dottrina cattolica, non sappiamo che altro sia, né in quale maniera chiamarla. La data del 19 maggio 2017 resterà come una data indelebile negli annali della storia della Chiesa: verrà ricordata come quella in cui un papa, per la prima volta, si è preso la libertà di bollare come fanatici quanti si richiamano alla dottrina, e di rivendicare – per sé, non per chi non è d’accordo con lui – la più assoluta autonomia nei confronti della dottrina, intesa come esposizione oggettiva della Verità. Non c’è una dottrina ”rigida”, perché non c’è più la Verità oggettiva: e questo si chiama relativismo, se non andiamo errati. Il papa, il 19 maggio 2017, ha fatto ufficialmente professione di relativismo, se n’è vantato, e ha scagliato i fulmini del suo sdegno e del suo rancore verso quanti non condividono tale “pastorale”.
Personalmente, avendo viaggiato in America Latina e osservato la Chiesa cattolica dal suo interno, siamo propensi a ritenere che papa Francesco abbia deciso di esportare il modello pastorale sudamericano, imponendolo con le buone o con le cattive ai vescovi europei e degli altri continenti, da lui giudicati troppo conservatori (fanatici?); e pensiamo non solo ai cardinali Buke, Caffarra, Meisner e Brandmüller, ma anche a Schneider, vescovo di Astana (Turkmenistan) e a Sarah, già arcivescovo di Conakry (Guinea). Secondo lui, il cattolicesimo del Vecchio Mondo si sta esaurendo, e ritiene suo compito iniettargli potenti dosi di giovinezza, secondo lo stile sudamericano. Il quale stile, nel suo contesto, ha dei pregi e dei difetti, in ogni caso è adatto a quelle popolazioni; ma il volerlo imporre all’Europa, che ha duemila anni di cristianesimo sulle spalle (e non meno di cinquecento, come l’America), è un errore colossale; al quale si aggiunge l’altro errore, di volerlo imporre secondo uno schema unilaterale, cioè forzando ed esasperando proprio i suoi aspetti più discutibili. I quali sono presto detti: una enorme confusione dottrinale e liturgica; una faciloneria, ai limiti del tollerabile, nella predicazione e nella catechesi; un soggettivismo estremo del singolo sacerdote e una fiducia esagerata nella maturità dei laici, al punto da lasciar loro tracciare le linee pastorali e, quasi quasi, anche quelle dottrinali. Questi gravi difetti, che, ripetiamo, nascono almeno in parte da concrete situazioni locali, caratterizzate da miseria e forti sperequazioni sociali, sono accompagnati da pregi, dei quali, però, nello stile di Bergoglio non si vede neppure l’ombra. Riteniamo che, per ragioni legate al suo carattere, egli abbia deciso di calare dall’alto il suo stile argentino e di somministrarlo a tutta la Chiesa, così come si somministra a un bambino capriccioso e viziato una robusta medicina, che, pur essendo assai sgradita al palato, alla fine si rivelerà benefica. E, a quanto pare, non si rende minimamente conto che tutto questo non è dottrina, ma, per usare il suo linguaggio, ideologia: perché è ideologico, nel senso deteriore del termine, e non dottrinale, il voler imporre alla Chiesa cattolica nel suo insieme, partendo proprio dalla sua culla, l’Italia, un tipo di pastorale che trova la sua ragion d’essere solo nelle particolari condizioni della società sudamericana, e soprattutto nelle favelas e in altre situazioni estreme di tal genere. Ma una cosa è predicare in un villaggio che non vede un sacerdote se non un paio di volte l’anno, in fondo al sertâo, o nelle immensità della pampa, oppure nei bassifondi di Rio de Janeiro o di Buenos Aires; e un’altra cosa è predicare, ogni giorno, nel cuore di Roma.
Questa è la spiegazione più mite e benevola. Ve ne sono altre, assai più inquietanti, che vedono in Bergoglio un agente di distruzione perfettamente consapevole. A un certo punto, durante l’omelia sopra citata (controllare su Youtube) la sua voce si rompe, assume un’inflessione paurosa, diabolica. Impossibile dire se si tratti di un’alterazione del microfono, voluta o meno. Certo, i segni si moltiplicano: il fulmine sopra San Pietro, quando Benedetto XVI abdicava; il crollo della basilica di San Benedetto a Norcia; il contenuto di alcune rivelazioni mariane. Che cosa si può fare, dunque, giunti a questo punto? Vegliare e soprattutto pregare, come raccomanda sempre il Nostro Signore…
di Francesco Lamendola del 29-05-2017
Non sono mai stata in America Latina né ho conoscenza della pastorale che là si applica (immagino comunque che gli stili possano essere moltissimi, visto che parliamo quasi di un continente).
RispondiEliminaHo però letto diverse dichiarazioni, pubblicate in Argentina dopo l'elezione di questo papa, rilasciate da superiori gesuiti, non so se diretti successori di Bergoglio o meno: si affermava che, per rimediare a tutto il caos procurato dal 'nostro' a diversi livelli di chiesa, CI SONO VOLUTI CIRCA VENT'ANNI!. Una generazione!
E colori che se ne sono lamentati sono sudamericani anch'essi.
Certo papa Bergoglio, a quanto dimostra a tambur battente da quattro anni pieni, trascina con sé la coda di tutta la paccottiglia ideologica del sudamericanismo sinistroide. Però ci aggiunge anche ampiamente del suo a tanti livelli.
Il video dell'omelia (?) papale del 19 maggio scorso segnalata da Francesco Lamendola merita veramente di essere analizzata da SPECIALISTI.
Certo, già a livello di profani come io certamente sono, vien da chiedersi: nel mondo del soprasensibile quale creatura potrebbe mai aver ispirato PAROLE e TONI come quelli pronunciati??? (osservare gli sguardi sconcertati e gli atteggiamenti/posture dei presenti in quell'istante, che il cameraman ha avuto cura di registrare...)