IL BISOGNO DEI NOSTRI BAMBINI
È di questo che hanno bisogno i nostri bambini. L'affetto senza responsabilità doveri e sacrifici possono solo rendere un bambino orribilmente viziato e incapace di entrare con le sue gambe nella vita da adulto
di Francesco Lamendola
Dunque, l’affetto: sì, ma con sapienza, e nei giusti modi. Non è affetto sommergere un bambino di regali; tanto meno lo è mettergli in mano, fin da piccolissimo, gingilli tecnologici che non lo aiuteranno a crescere, ma che, anzi, ritarderanno, e forse in maniera irreversibile, la sua crescita e la sua maturazione. Crescita e maturazione, per un bambino, passano sì attraverso il gioco: ma telefonini e giochi elettronici non sono giochi; sono arnesi del diavolo, inventati al preciso scopo di rubargli l’anima e di spappolare il suo cervello. L’affetto, per il bambino, è – ci si passi la similitudine – come la benzina per un’automobile: serve a fare riserva di energia per andar lontano. Ma lontano verso dove? Là dove ogni cosa deve dirigersi: verso la propria meta. Lasciamo ai nichilisti e agli scettici la trista soddisfazione di proclamare che non esiste alcuna metà, perché siamo frutto del caso, e a caso siamo destinati a consumarci, come una fiammella che brilla nel buio, e poi si spegne; noi teniamo ben fermo che nulla viene dal caso e nulla si consuma inutilmente; che tutto ha un senso, una direzione, uno scopo; che tutto è racchiuso nella mano di Dio e che nulla, nemmeno la piuma d’un passero – per usare un’immagine evangelica - potrebbe sfuggire da essa, senza che Egli lo voglia o lo permetta.
I nostri bambini hanno bisogno innanzitutto di affetto, su questo non ci piove. Però, quanta retorica e quanta ambiguità, a volte voluta, sull’affetto dovuto ai bambini! Anche l’affetto di due invertiti che “comprano” il bambino affittando l’utero di sua madre, anche quello è buono e valido? E poi: che vuol dire “affetto”, se lo si isola, se ne fa un valore a sé stante, e non, come dovrebbe invece essere, il trampolino da cui lanciarsi verso altre mete, verso altri orizzonti? Affetto e solamente affetto, senza responsabilità, senza doveri, senza sacrifici, possono solo rendere un bambino orribilmente viziato, dipendente, incapace di entrare con le sue gambe nella vita da adulto. Molti genitori, e specialmente molte mamme possessive, fanno questo errore: pensano che l’affetto sia tutto, che sia l’alfa e l’omega della buona educazione; ma non è così. L’affetto deve essere ben diretto; non deve essere lo sfogo di una possessività malata, non deve nascere dal bisogno di esercitare un controllo sul bambino, ma deve essere soltanto e unicamente un desiderio di bene per lui, del suo bene e non di quello del genitore o di chiunque altro. E il bene per il bambino, così come per qualsiasi altro essere umano, consiste nel divenire quel che è chiamato ad essere, cioè nel raggiungere il suo fine, naturale e soprannaturale.
Il bambino, dunque di questo ha essenzialmente bisogno: di qualcuno che lo guidi, che lo aiuti, che lo incoraggi a trovare la meta alla quale è destinato; che gli mostri la strada, che gli apra la vita, o, quanto meno, che strappi le erbacce che gli nascondono il sentiero, e gli fornisca un paio di robuste scarpe, meglio se un paio di stivali, per avanzare senza spaventasi anche in mezzo agli acquitrini, anche sprofondando nel fango; e un robusto bastione da montagna per appoggiarsi nei passi più difficili, in mezzo alle rocce, lungo i ghiaioni, nonché per difendersi se dovesse incontrare una vipera sul suo cammino; e una bussola per non smarrirsi, al buio, di notte, o nel fitto del bosco: una bussola che gli permetta sempre di orientarsi, e di procedere nella direzione voluta, evitando di allontanarsi e di perdere del tempo prezioso, o di smarrire la meta finale. Scarpe, bastone e bussola sono rappresentati dal nostro esempio vivente: quanto più il bambino ci avrà visto avanzare lungo le strade della vita pazienti e tenaci, coraggiosi ma con prudenza, riflessivi ma anche, se necessario, risoluti, tanto più anch’egli sarà portato a sviluppare queste caratteristiche, a perfezionare certe attitudini, a commisurare le sue forze alle mete da raggiungere, e ad andare avanti, fermo e sicuro, con la schiena dritta, senza compromessi avvilenti, senza chiedere favori illeciti, senza mai perdere il rispetto di se stesso, e anche senza scoraggiarsi tanto facilmente, per quante difficoltà dovesse incontrare lungo la sua strada. Le belle parole e i discorsi teorici lasciano il tempo che trovano; l’esempio concreto resta, e s’imprime nella sua mente e nel suo cuore.
Dunque: le idee che è necessario trasmettere al bambino devono essere poche, ma chiare, e, soprattutto, dense di contenuto: niente orpelli, niente fronzoli, niente esercitazioni retoriche. E l’idea numero uno è questa: noi tutti, nella vita, cerchiamo la felicità; è una ricerca legittima: ma la felicità non può consistere che nel fare quel che va fatto, ossia nell’adeguarsi alla volontà di Dio, spogliandosi del proprio ego meschino e incontentabile. La felicità, poi, non bisogna immaginarsela come una specie di festa perenne e ininterrotta; la felicità è trovare Dio, amarlo e servirlo: e, di solito, essa consiste in un profondo senso di pace, che non somiglia ad un’incerta tregua fra ansie e preoccupazioni, né ha nulla a che fare con le soddisfazioni mondane, ma è uno stato interiore durevole, benefico, appagante, che conferisce a tutti i nostri pensieri e le nostre azioni un caldo timbro di scurezza e di rasserenamento, una ferma disinvoltura e una flessibile energia, una capacità di alzare sempre gli occhi al cielo, per quanto le circostanze avverse possano, talvolta, piegarci quasi fino a terra. Perciò, semplificando al massimo, al bambino dobbiamo trasmettere la convinzione che, per trovare la pace, bisogna affidarsi a Dio, e divenire partecipi della vita divina, facendo docilmente la sua volontà, non la nostra; mentre, lontano da Dio e lontano dal bene, che consiste nell’uniformarsi a ciò che Lui vuole, non si troverà mai la pace, anche se si dovesse trovare il successo, il denaro, il potere e il piacere fisico.
Più tardi, crescendo, quando sarà diventato adulto, quel bambino, se lo vorrà, potrà approfondire, secondo la sua intelligenza e la sua particolare vocazione, quest’idea centrale; potrà sbizzarrirsi negli studi e nelle ricerche di filosofia e di teologia; e chissà che non sia chiamato a dare un suo contributo originale, prezioso, alla chiarificazione della grande domanda di senso, quella sul perché le cose esistono e perché l’uomo, fra esse, sia stato chiamato all’esistenza. Per adesso, l’importante è che quell’idea gli venga trasmessa, e sia pure in forma elementare: che presso Dio vi è la pace, mentre lontano da Dio non vi sono che angoscia, delusione e amarezza, anche se, all’inizio, ci si può illudere di aver trovato le più grandi gioie e i più grandi riconoscimenti. Insomma, al bambino si deve far capire che vi è una relazione diretta fra la vita buona e la pace dell’anima; e fra la vita disordinata ed egoistica, e l’infelicità. Nello stesso tempo, bisogna fargli capire che la pace divina non è la stessa cosa della “pace” umana: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo, dice Gesù agli Apostoli, durante l’Ultima Cena, subito dopo aver annunciato loro che tra poco li avrebbe lasciati, per fare ritorno al Padre suo. La pace del mondo è una pace ingannevole e avvelenata, che tradisce e delude all’improvviso quanti l’hanno presa e scambiata per moneta buona; solo la pace divina appaga e ristora l’anima stanca. E l’anima che vaga sulle strade polverose del mondo è sempre stanca; non può che essere stanca, perché la sua vera patria non è quaggiù, e anche le cose più belle che quaggiù può incontrare, presto o tardi stancano, deludono, vengono meno. Aggrapparsi ad esse, tentare di trattenerle per sempre, è la suprema follia: ma è la follia in cui cadono molti, quasi tutti.
Ma gli adulti hanno ancora voglia d’insegnare qualcosa ai bambini? Sono ben consapevoli della responsabilità che non si può delegare l’educazione al computer, o al telefonino, o alla televisione, e neppure alla scuola, specie di questi tempi, quando orribili novità legislative minacciano di trasformare la scuola stessa in un luogo di contro-educazione, in una fonte di pedagogia capovolta? E i vecchi (basta con l’ipocrisia di chiamarli “anziani”), i nonni, hanno ancora voglia di parlare ai bambini, ai nipotini, o preferiscono cavarsela con qualche regalo, anch’essi, come ormai fan tutti? Certo, può essere faticoso, e, soprattutto, frustrante: molti bambini vogliono il telefonino, non i racconti del nonno; molti bambini hanno già quasi disimparato ad ascoltare, prima ancora, si può dire, di averlo imparato davvero. Non sanno ascoltare perché non sanno stare in silenzio; e non sanno stare in silenzio perché sono abituati al rumore, specialmente al rumore dei videogiochi o a quello della televisione. Sì: non è facile, oggi, trasmettere un’educazione ai bambini; è più facile intrattenerli, specie per mezzo della tecnologia, o del cinema; pure, bisogna almeno provarci. È questa la nostra chiamata; questa la sfida ove è in gioco il futuro, il futuro dei bambini ma anche della nostra intera società. O riusciamo a esercitare una presa sui bambini, sottraendoli all’abbraccio mortale della tecnologia, oppure siamo perduti tutti quanti, loro e anche noi. Questi bambini cresceranno, diverranno adulti e avranno dei figli: e cosa trasmetteranno loro?
Un giorno ci è capitato di entrare in una piccola chiesa medievale, in primavera, mentre un gruppo di bambini stava seduto sui banchi, in attesa del proprio turno di confessarsi: erano bambini che si preparavano alla prima Comunione. Il confessore era un sacerdote di novantacinque anni: una bella persona, alto e dritto nonostante l’età, con un viso serio e intelligente, con una espressione benevola nello sguardo. Era commovente vedere quell’uomo di Dio, ormai così prossimo a lasciare la vita terrena per giungere alla meta sospirata di tutta la sua esistenza, e quei fanciulli nei loro vestitini candidi, che sembravano gigli di campo, compiti e concentrati in se stessi, pervasi dalla serietà di quel che stavano facendo. Si respirava un’aura sacra, soprannaturale. Conoscevamo penalmente quel vecchio sacerdote: un uomo che ne aveva viste tante, che aveva perfino dato l’assoluzione a dei ragazzi che sarebbero stati fucilati poche ore dopo, a tradimento, nei giorni di Caino, i giorni delle vendette e delle rese dei conti, alla fine della Seconda guerra mondiale. Aveva vissuto quelle esperienze con tutta la sua umanità e con tutta la sua fede; e mai, nelle sue prediche, allora e dopo, qualcuno ha mai potuto percepire una sfumatura di odio, di rabbia, di umano giudizio: il giudizio spetta a Dio; nondimeno, è necessario il pentimento del male fatto. Questo, egli lo ha sempre detto, anche quando dire simili cose era pericoloso. Com’erano fortunati, quei bambini, a venire preparati alla prima Comunione da quel vecchio sacerdote, così saggio e buono, con una così intensa e sofferta esperienza di vita sulle spalle. Chissà se lo capiranno, quei bambini, quando saranno adulti a loro volta, quando saranno diventati vecchi, la grande fortuna che hanno avuto.
C’è un quadro del pittore francese Jules-Alexis Muenier (Lione, 29 novembre 1863-Coulevon, Franca Contea, 17 dicembre 1942), intitolato La lezione di catechismo (Leçon de catéchisme) che si trova, dal 1891, al parigino Musée de Luxembourg, e che illustra bene quel che stiamo dicendo. Siamo nella Francia rurale di fine Ottocento: la Francia laicista e radicale della Terza Repubblica, che però, nelle campagne, conserva ancora il suo vecchio volto, cattolico e tradizionalista. La lezione di catechismo si svolge all’aperto, in mezzo al verde, nell’orto della canonica, in un bel pomeriggio di tarda primavera o all’inizio dell’estate; sulla destra, infatti, si vedono dei gigli in piena fioritura, simbolo di purezza. Il vecchio curato, che indossa la talare lunga fino ai piedi, siede su una seggiola poggiata sull’erba, e ha la schiena un po’ incurvata, le mani nodose, da contadino, raccolte fra le ginocchia, mentre guarda avanti a sé e ascolta le risposte di uno dei quattro bambini seduti su una panca di fronte a lui, che si è alzato e gli sta esponendo la lezione, mentre gli altri leggono dal libro e controllano se il compagno si esprime esattamente. I fanciulli hanno l’aria seria, ma serena; il vecchio prete, dal volto magro e dalle guance colorite, ha l’espressione intenta, come se ripetesse mentalmente le parole dell’interrogato e stesse valutando se questi si limita a recitare delle formule imparate a memoria, o se se capisce quel che sta dicendo. È un’opera magnifica: tre generazioni separano i bambini dal curato, che, per l’età, potrebbe essere tranquillamente il loro nonno; si capisce che lo rispettano, ma non ne hanno paura: semplicemente, sono compresi della solennità di quel che stanno facendo. Si respira un’atmosfera di raccoglimento spirituale: non è una lezioncina meccanica, ma un’autentica lezione di vita. Il vecchio sta insegnando ai piccoli con una duplice autorevolezza: di prete e di nonno, carico d’anni e di saggezza.
Ecco: è così che deve essere. Gli adulti non devono fare i compagni di giochi dei bambini; anche se giocano con loro, essi sono gli adulti: il gioco vero, il bambino lo deve fare con gli altri bambini (e nemmeno con le macchine). Gli adulti devono trasmettere un’educazione ai bambini: devono piantare alberi, la cui ombra non arriveranno a vedere, perché moriranno prima. Non importa. Non si viene al mondo per assistere al raccolto: si viene al mondo per imparare e poi, a propria volta, per seminare. Questo è il compito degli adulti: trasmettere gli elementi essenziali della vita buona, della vita che piace a Dio, perché in essa, e solamente in essa, si trova la pace. Ma per trasmettere un tale messaggio ai bambini, bisogna prima averlo vissuto in se stessi: nessuno può vendere quel che non possiede. Chi non ha la pace, non può trasmettere la pace, né il modo per raggiungerla. Molti adulti si lamentano che i bambini non li ascoltano, che non seguono i loro insegnamenti. Forse dovrebbero domandarsi se sono stati maestri credibili; se hanno avuto l’autorevolezza che viene dalla coerenza, e unicamente da essa. I bambini, grazie a Dio, possiedono un fiuto, un sesto senso; non li si prende in giro facilmente: per parlare di Dio e della vita buona, bisogna crederci, più che fare bei discorsi...
È di questo che hanno bisogno i nostri bambini
di Francesco Lamendola
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