ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 6 giugno 2017

“Che cosa stiamo facendo?”


PRO VITA: LA LEGGE SULLE DAT APRE LA STRADA A UN ERRORE IRREVERSIBILE. LA TESTIMONIANZA DI KRISTINA HODGETTS.

Pro Vita ha organizzato una conferenza stampa nella Sala della Stampa Estera a Roma per offrire una serie di elementi di riflessione e discussione sulla legge che vorrebbe regolare il cosiddetto “fine vita”, che molti in realtà considerano una legge sull’eutanasia appena mascherata.
Nel corso dell’evento è stata presentata la testimonianza di Kristina Hodgetts, una canadese, infermiera, che nelle sue parole dava l’eutanasia “in buona fede” finché, non si è trovata “dall’altra parte del letto”. Anche se già prima, guardando passare madri e figlie davanti a sé aveva già capito che “togliere la vita è una cosa sbagliata”.
“Ecco il rischio di ripetere, con la legge sul Testamento Biologico, l’errore anche in Italia, trasformando la morte in routine amministrativa – afferma Pro Vita -. Per troncare una vita basta una frase: Morfina 2mg, sospendere cibo e acqua”.
La parabola di Kristina Hodgetts è semplice: prima infermiera nell’esercito canadese, poi capo infermiera in un dipartimento d’emergenza. Infine, Direttrice degli infermieri in una casa di cura.
È qui che il suo lavoro cambia. “Dal dare tutto per salvare i pazienti e ogni singola vita, si passò all’accelerare i processi di morte, nel modo più efficace, nel modo più sicuro”.
Un salto fatto “in buona fede” e “per ridurre il dolore”. Ma, progressivamente e surrettiziamente, il dare la morte divenne una routine. Divenne abbruttente come solo l’indifferenza può essere. “I pazienti non erano più persone; parlavamo davanti a loro come se non esistessero, i paramedici controllavano le direttive anticipate prima di rianimare o no il paziente, per proteggersi dalle potenziali responsabilità. Era diventata normale amministrazione. Avevamo perso il vero senso del nostro lavoro”.
Il primo dubbio emerge con una donna, fragile e vecchia. Avviene il ricovero, la perdita di coscienza, la ricetta del medico “morfina; sospendere cibo e acqua” e le frasi delle colleghe: “speriamo muoia prima di svegliarsi di nuovo”. Non era crudeltà. “Eravamo tutti convinti che fosse la cosa migliore”. Solo che la signora non vuole morire. Succhiava acqua dalla spugna appoggiata alle labbra. Quella donna impiegò nove giorni a trapassare, a morire di sete e fame. A Kristina rimasero impresse le parole di una giovane collega del turno di notte: “Che cosa stiamo facendo?”.
Poi ricapitò: ancora una volta una donna anziana, questa volta per un piccolo ictus. Una figlia disperata, un figlio, unico fiduciario, che avalla la fine. La figlia rimase al fianco della madre finché i polmoni non “affogarono” nella morfina.
È qui che Kristina si ribella. Qui cominciano a salire dalle profondità le parole trattenute per troppo tempo: “Non è giusto togliere la vita a un essere umano. Non è giusto decidere quando deve morire. Ci sono altri modi di affrontare il dolore che non siano sopprimere e togliersi il pensiero”.
Ma per Kristina non era ancora il momento di pronunciarle a voce alta. Sebbene iniziò a contrastare la nonchalance con al quale vedeva le persone “accompagnate” a morire, un’altra prova l’attendeva: “Ritrovarsi dall’altra parte del letto, in coma”. Non fosse stato per il marito “mi avrebbero uccisa”. Solo dopo il risveglio, è iniziata per lei una nuova vita: una missione di racconto nella Coalizione per la prevenzione dell’Eutanasia (di cui oggi è vice presidente). Raggiunge, nonostante la paresi parziale, chiunque voglia ascoltarla e racconta la sua storia e, soprattutto, la sua paura che succeda anche in altri Paesi quello che ha visto accadere in Canada.
Anche alla luce di queste testimonianze, afferma Toni Brandi, presidente di Pro Vita “È necessario fare chiarezza sul tema. Il DDL sulle DAT è sbagliato perché presuppone erroneamente che persone possano prevedere le future reazioni”. “Negli ultimi tempi, con l’approdo al Senato del testo di legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento, si sta facendo molta confusione su questo tema nel dibattito pubblico. Per questo motivo, abbiamo ritenuto opportuno organizzare un appuntamento per fare più chiarezza e portare la testimonianza di Kristina Hodgetts per riflettere su ciò che potrebbe accadere anche in Italia con il diffondersi di una vera e propria cultura della morte”.
Brandi ha sottolineato perché il DDL sulle DAT sia sbagliato nel suo presupposto fondamentale: “Il paradosso di questa legge si palesa di fronte a un concetto tanto semplice, quanto chiaro e insindacabile: nessuno ha la sfera di cristallo per sapere in anticipo come reagirebbe di fronte a una malattia grave o a una disabilità. Molto spesso, quando ci si trova in queste situazioni estreme, le prospettive cambiano e si manifesta un forte, naturale desiderio di vivere. Di fronte a queste considerazioni, come si può pensare di affidare a un pezzo di carta il proprio futuro anche a lungo termine?”.
“Firmando le DAT – ha concluso Brandi – si rischia di commettere un errore irreversibile, scontandone le conseguenze soltanto nel momento in cui sarà impossibile fare un passo indietro”.

MARCO TOSATTI         
http://www.marcotosatti.com/2017/06/06/pro-vita-la-legge-sulle-dat-apre-la-strada-a-un-errore-irreversibile-la-testimonianza-di-kristina-hodgetts/ 

QUANDO SI DICE POPOLO BUE…

So che arrivo in ritardo. Ma avendo seguito il panico di massa di Torino da tv estere, segnalo là che l’hanno definito “stampede”.  Nell’estremo Occidente (a noi noto come Far West) i  vaccari (cow boys) chiamano così un fenomeno da loro molto temuto: una mandria di migliaia  di capi, colta da panico insensato e improvviso, si mette tutta al galoppo all’impazzata;  un colpo di pistola, ma anche lo spezzarsi di un grosso ramo secco, l’ululato di un coyote, qualunque altro motivo possono destare l’armento, specie di notte, dormiente in piedi, al più cieco spavento; migliaia di zoccoli e  corpi pesanti quintali si danno al galoppo senza meta; impossibile fermarli e farli tornare alla ragione, dato che bovidi ed equidi, di ragione non  sono dotati; come per la mandria umana, spesso occorre un contro-terrore che gli faccia dimenticare il panico di prima – essendo di corta memoria;  cosa difficile e rischiosa,  perché anche le scariche in aria coi fidi Winchester non bastano a sovrastare il rumore, come di decine di treni, che produce la massa galoppante, muggente e fumante di vapore. Quando i vaccari ci riescono in qualche modo, poi contano i danni,    accampamenti calpestati, cani stritolati, gambe rotte,  mandriani travolti.
Stampede di veri bovini.
Anche se bisogna ammettere che  nel selvaggio West i ruminanti in panico, anche impazziti di paura,  se distruggono qualunque cosa al loro passaggio, abbastanza di rado travolgono, schiacciano e uccidono i loro piccoli.   Se a mantenerli quasi umani  sia  la indisponibilità di birra in quelle praterie e di cocci di vetro delle bottiglie della birra medesima  nel West, non saprei. Vedo che vetri rotti e birra sono molto discussi come causa dello stampede di Torino;  c’è chi parla di camion di venditori abusivi dello spumeggiante dissetante, lasciati passare dai vigili urbani; c’è chi accusa la sindaca Appendino di non aver vegliato, di aver lasciato entrare  i venditori, di non aver predisposto vie di fuga nel “salotto di Torino”. Anche  se riterrei  più concreta la responsabilità del prefetto e delle forze dell’ordine,  vorrei che  tutto ciò non   servisse a  sminuire la responsabilità del  principale autore e protagonista del disastro.  Il Popolo Bue.
Una vecchia conoscenza, purtroppo, in Italia. Il Popolo Bue ha quella  sera la più chiara esibizione dei suoi caratteri  zoologici: dalla sua misteriosa tendenza ad agglomerarsi  spontaneamente in inverosimili folle accalcate gomito a gomito davanti a palchi  rock pop,  pedane illuminate ed emittenti di mega-decibel, ma soprattutto a teleschermi giganti in occasioni  di tifo calcistico; il loro stato d’animo perennemente oscillante tra le rabbie e passioni di pancia, e la paura; la viltà fondamentale.  Che il Popolo Bue viva di paura, s’è visto: l’eco degli attentati a Londra e  Manchester   covava con tremore e timore in quelle miriadi di cuori – tant’è vero che è bastato che  qualcuno gridasse, o qualcuno  credesse di  udire gridare “  Allah”, e tutti a schizzare in tutte le direzioni, cercando di  scavalcare  le centinaia di vicini,  perdendo le scarpe;  altri evocano un petardo, e  tutti hanno   rivisto quel che avevano guardato con indifferenza bovina al tg: Kabul,  il mega attentato, 90 morti, 400 feriti..Ecco, l’Islam  attacca anche noi! Invece, il fantasmatico e mediatico ISIS non ha alcun bisogno di mobilitare uno dei suoi kamikaze   occultati fra noi perché, come ha scritto beffardo Libero, noi “ci siamo fatti l’attentato da soli”   –  non  occorrono terroristi,  ci terrorizziamo  perfettamente  da noi stessi.

Ma poi, che cosa fanno quei trentamila cuori tremebondi che vivono nella paura dell’attentato islamico? Invece di vedere la  partita di Champions League  con 15 amici nel salotto di  casa, o 30 in pizzeria, hanno voluto agglutinarsi in  30 mila in una piazza davanti  al teleschermo.  Com’è tipica questa sconsideratezza! Vi sono imprudenze che vengono dettate dall’audacia; ovviamente non è il nostro caso. L’imprudenza del Popolo Bue è dovuta alla inettitudine a prevedere, a vedere al di là del proprio naso – già ornato del resto,  in alcuni esemplari  tatuati, di anello.  E giù  birra. Sarebbe vietato, ma chi se ne frega? Anzi infrangiamone   qualche migliaio   sul selciato: che cosa può succedere di male?
La irresistibile tendenza ad agglutinarsi davanti a qualunque  maxi schermo e a  cantante pop  o sagra,   è  condivisa dalle masse in tutto l’Occidente, specie (ma non solo) giovanili.  Può esser dovuta  nei giovani, ma anche nei trentenni o quarantenni millennials, alla sensazione (ahimé fondata)  di vuoto ontologico. Alla  oscura angosciosa consapevolezza di  non  ”essere”, che si cerca  di placare con un surrogato, l’”esserci”:  essere là dove sono tutti i coetanei  poco essenti, fare le loro stesse cose nello stesso  momento.  Nell’agglomerarsi degli italiani mi sembra però di vedere un sovrappiù, molto più antico. Quello  di cui già parlò Leopardi: “Tutta vestita a festa, la gioventù del loco…per le vie si spande – e mira ed è mirata e in cor s’allegra”.
L’italiano d’oggi fa’ tanta fatica ad  essere un uomo all’altezza del moderno e della sua complessità, che quando può  cerca di affondare il suo quasi inesistente Io nell’antico rito paesano-cafonesco,  meridionale  e  contadino dello “struscio”.  Allora è beato, e in cor s’allegra: oggi come nell’800. Il punto è che in una grande città, uno struscio di 30 mila sopravvenuti diventa qualcosa d’altro, e comporta dei rischi che il villan rifatto non è in grado di valutare.
So quel che dico. Ormai da una vita  vedo rigurgitare nell’italiano collettivo questo riflusso rurale, anzi bracciantile, e mi domando: dopo un  secolo di sviluppo industriale, dopo essere stati la quinta potenza economica, come mai questi sembra che abbiano appena lasciato la vanga, abbiano ancora le scarpe nella zolla  e si siano ripuliti i calli dal  terriccio? E’ un  mistero. E’ un sedimento di  contadineria, che bisogna riconoscere  ineliminabile, dopo tanto sviluppo.
Non dite che sono troppo duro. E’ a causa di questo residuo  di rozzezza rurale, di questo Bracciante a Giornata collettivo che continuamente si sveglia sotto nuove spoglie e  impone i suoi gusti e angusti orizzonti, se abbiamo questo rapporto equivoco con la modernità.

La modernità non è la Cirinnà

Voglio dire: questo popolo crede di essere diventato moderno e civile perché  ha  le nozze gay, e presto si  darà la legalizzazione delle droghe e l’eutanasia  in lindo ambiente ospedaliero – ma nello stesso tempo non riesce a far funzionare la compagnia aerea di bandiera – questo sì un segno vero di modernità  complessa a funzionante.  Di salvare Alitalia non siamo capaci, perché un popolo di braccianti non ce  la fa.
Sono  sicuramente suggestionato da un recentissimo viaggio di ritorno sulla Aegean Airlines, greca: servizio impeccabile, competenza, perfezione. La Aegean ha vinto il premio per miglior linea regionale  l’anno scorso; riesce a  campare nonostante   le altre low costo, non fa pagare extra il bagaglio stivato  come la RyanAir che sta all’osso, eppure vive. Come fanno i greci? Eppure hanno lo stesso tasso di analfabetismo di noi italiani,  il minor numero di laureati  in Europa, sicuramente la stessa  percentuale di mentalità rurali e bracciantili. La risposta non può essere che una: che là, gli zappatori non impediscono ai competenti e moderni di agire.
Bastasse così poco…
Guardatevi il “Faccia a Faccia”  del 28 maggio,  dove Minoli intervista Domenico Cempella (l’ex ad  di Alitalia  negli anni migliori) e Vincenzo Boccia (Presidente Confindustria). Vi renderete conto di come la compagnia di bandiera sia stata rovinata da  politici che, per quanto riguarda i trasporti, vivono ancora nella stagione del carretto siciliano e del ciucciariello; ovviamente D’Alema, paisano nato a Gallipoli, silurò  il progetto di fare della Malpensa un hub europeo, perché il suo elettorato di “campanili”, a cominciare dai romani,   non voleva. Ma che dire dei “capitani coraggiosi” a cui  Berlusconi affidò la compagnia disastrata, dotandola dei miliardi di denaro pubblico? Questi erano, cosi chiamano e son chiamati dai giornali, “imprenditori privati”; non sono mica meridionali: Luca Cordero di Montezemolo,  Passera, Colaninno… ebbene,    hanno consumato il denaro pubblico , senza fare nemmeno una delle ovvie operazioni che ci si aspetta da imprenditorie privati: a cominciare dalla fornitura di carburante, che la nuova Alitalia “privata”, come la vecchia,  ha continuato a pagare il 20% in più delle altre compagnie, fino all’ostinazione  a voler guadagnare sul cosiddetto monopolio dei trasporti Milano-Roma, vantaggio incenerito dal treno ad Alta Velocità, fino all’enorme numero di apparecchi  presi in affitto da 15 diverse compagnie.  Si sono ritagliati i loro emolumenti milionari, e poi basta. Finito il denaro pubblico, questi imprenditori se ne sono andati lasciando a noi contribuenti il disastro, peggiorato. Ora,  un governo di villan rifatti  cerca  di svendere Alitalia a qualche straniero. Ignorando, da ignoranti, che una compagnia di bandiera “rende” quattro volte il suo fatturato nell’indotto che si trascina dietro,  tanto che se ben gestita può raddrizzare un Pil nazionale. Regalano a qualche straniero questo motore di crescita,

E’ evidente che anche Passera e Montezemolo, e non parliamo di Berlusconi, non hanno l’orgoglio e l’ingegno, la competenza e la fantasia creativa, richiesti per   gestire una moderna compagnia  e farla fruttare; non sono  imprenditori; si limitano a sembrarlo,  grazie ai loro doppiopetti di bel taglio.  Ma anche loro non sono capaci di prevedere al di là del proprio naso. Sono anch’essi, ahimé, Popolo Bue. In altri paesi, costoro sarebbero in galera; o almeno, si vergognerebbero di farsi vedere in giro.  Qui invece no, e  il perché me lo spiego così: il Popolo Bue, che nulla sa di Alitalia, di quel che spende da decenni per Alitalia senza esito, non è esigente: in fatto di modernità,  si contenta di apparire avanzato, con le nozze gay, invece di esserlo esigendo una compagnia di bandiera aerea gestita da veri competenti.

Una torma di braccianti sopravvissuti non si sa come all’età della gleba. Una massa di imprevidenti ancora legati alla zolla, che vive di paure e di voglie,   che ad uno scoppio o a un grido scappa scavalcandosi  come una mandria impazzita, ciascun per sé, incapace di reggersi degnamente nella modernità  – e  che per giunta impone nella vita pubblica le sue ignoranze, le sue ristrettissime vedute.  Una torma che non riesce mai ad elevarsi all’interesse  generale, per il semplice fatto che  non sa capire  le idee generali. La nostra corruzione è, prima che morale, un problema di insufficienza intellettuale. Il Popolo Bue.

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