e noi lo nacquimo!
Se si passa per le strade di Roma, si trovano un po’ dovunque adesivi con la scritta “no jus soli” e subito ci si chiede cosa mai significherà. Poi si sente qua e là che il governo vuole approvare una legge che conferisca la cittadinanza italiana a tutti i bambini stranieri che nascono sul territorio italiano, o giù di lì, ed allora ci si chiede qual è il senso di questo supposto “diritto del suolo”.
Si dice che molti paesi al mondo applichino questo meccanismo: per cui basta nascere a Catania che ipso facto si è catanesi; e la cosa, non solo lascia perplessi, ma suscita pure qualche po’ di ilarità: come fa ad essere catanese uno che ha l’aspetto esteriore e la struttura interiore di un mongolo?
La cosa è talmente impossibile da far pensare alla messa in atto di uno di quei meccanismi da persuasione occulta in grado di convincere che il bianco possa essere tranquillamente nero o viceversa.
In realtà, anche in questo caso dello strano “jus soli”, l’andamento è sempre lo stesso: stravolgere la realtà e convincersi che un maschio non sarebbe minimamente impedito ad essere una femmina. Certo che è impossibile, ma è ormai da tanto che è finito il tempo del buonsenso e della realtà vera, ed è da anni che ci si muove in una sorta di realtà irreale, perfino chiamata “virtuale”, cioè immaginata, supposta, non più relativa al cervello, ma alle viscere. Quello che conta è “sentire”, percepire, non essere. Una volta si diceva che ciò che conta non è l’apparire, ma l’essere, oggi ci si compiace di non essere e di semplicemente percepirsi, se così si può dire.
Tornando allora al “diritto del suolo”, ecco che si pretende che basti una moderna “legge” per far diventare romano un ragazzino nato bantù, purché nato a Roma.
Ma come, si dirà, si vorrebbe forse negare ad un ragazzino nato a Roma e che crescerà a Roma il diritto che hanno gli altri ragazzini romani… solo per il semplice fatto di essere nato bantù e non romano?
Negare un “diritto”? Ma quale diritto? La realtà è che non si tratta di negare alcunché, si tratta solo di prendere atto della realtà, e la realtà è che il ragazzino è bantù e non romano, mentre il fatto di essere nato a Roma non è una realtà vera, ma un semplice accidenti, una casualità, che potrebbe essere anche procurata, ma non per questo perde la sua valenza accidentale.
Può scaturire un “diritto” da un fatto accidentale?
Oggi, pare di sì.
Ma a pensarci bene, le cose sono un po’ più semplici e insieme un po’ più complicate. Più semplici perché il preteso riconoscimento di un tale supposto diritto è un mero espediente per confondere prima le idee, poi le razze e infine le civiltà; più complicate perché la pretesa è di far credere che gli usi e i costumi più o meno mantenuti finora devono far posto a nuovi usi e a nuovi costumi che non sono più tali, ma il frutto di un’immaginata capziosa realtà senza alcun fondamento reale.
Un secolo e mezzo fa, ci fu il D’Azeglio che, convinto che si fosse fatta l’Italia, mentre si era solo imposto un governo unico e straniero a popolazioni diverse, pensò bene che bisognasse fare gli italiani. Sono passati più di 150 anni e a stento un pugliese riesce a vivere senza troppi disagi in Friuli, e ciò nonostante ecco insorgere nuove circostanze che costringono gli appena fatti italiani a convivere con gente che viene da così lontano e con usi e costumi così diversi da confondere sia i nativi sia i nuovi arrivati.
E tutto questo, mentre si ascoltano continue tiritere su teoriche buone disposizioni ad accogliere chiunque si presenti a bussare alla porta di casa.
Vero è che tanta gente ha un certo interesse ad usare le persone che arrivano, ma è ancora più vero che la grande maggioranza degli italiani non sente alcun bisogno né di ospitare stranieri né di praticare alcun tipo di accoglienza. La penisola italica ha conosciuto secoli di andirivieni di gente di ogni tipo e di ogni costume e questo ha forgiato negli abitanti dello stivale una tempra tollerante, ma in quei secoli gli eredi della civiltà romana erano talmente forti nello spirito da ammortizzare bene l’impatto del diverso, perfino prevaricatore, al punto da omologarlo, grazie alla forte valenza della loro pur indebolita civiltà e visione del mondo.
Oggi, dopo un secolo e mezzo di malriusciti tentativi di dare un’identità unitaria agli abitanti dello stivale, sentire che si diventerà italiani in virtù di un voto espresso da una parte del parlamento, sembra una beffa soprattutto per i nati sul suolo italico.
Quella forte valenza di cui dicevamo prima non era un sentimento bello a proclamarsi, ma l’insieme di un modo di sentire e di vivere che affondava le radici in qualche millennio di modo d’essere il cui elemento principale era la religione o, se si vuole, il modo in cui i nostri padri concepivano e si rivolgevano a Dio; un fattore che era l’unico vero identitario, l’unico che identificasse spesso, non solo un popolo, ma un insieme di popoli, un’intera civiltà, per di più un tempo praticata con l’uso di una stessa lingua, non solo a livello dotto.
Pensare che senza tutto questo si possa ragionevolmente parlare di riconoscimento della cittadinanza è cosa innanzi tutto demenziale e quindi inevitabilmente truffaldina.
Ora, se questo è un ragionamento, ce ne sono anche altri che si possono fare: non si tratta di far diventare quasi per magia italiano un bantù, no, si tratta solo di far sì che sui registri anagrafici risulti un altro numero, vuoi per la statistica, vuoi per la politica. Per la statistica che ogni anno calcola l’aumento degli abitanti dello stivale incurante del fatto che gli italiani sono sempre di meno e sempre più vecchi. Per la politica che furbamente si compra la simpatia del bantù con la speranza che domani voterà quella parte che gli ha permesso di farsi chiamare falsamente italiano.
In tutto questo, i diritti, la cittadinanza, l’accoglienza, la decantata bontà d’animo, non c’entrano niente: c’entra invece quel sottile subdolo disegno che mira a distruggere le identità degli individui e dei popoli, anche bantù, per far posto ad una poltiglia di gente diversa che dovrà necessariamente inventarsi un altro nuovo modo di vita… senza radici e quindi senza futuro.
In tutto questo pasticcio, la parte più idiota la fanno i preti, semplici e graduati, i quali fanno di tutto tranne il loro mestiere, e cioè convertire alla vera religione i poveri disgraziati che vivono nel buio dell’idolatria e che vengono da noi convinti di trovare il paradiso in terra, salvo poi svegliarsi e convincersi di trovarsi in un mondo di pazzi e di miscredenti, da redimere con qualche coltellata o qualche bomba in mezzo alla folla.
D’altronde, se, come dicevamo prima, il buon senso è andato a farsi benedire, perché meravigliarsi se i primi a dar prova di devastazione mentale sono proprio i preti?
Seguendo qua e là questa storia del “diritto del suolo”, ci è perfino capitato di leggere di un prete che ricordava come nei tempi andati gli Europei abbiano sempre assimilato i “barbari”. Logicamente, il prete non faceva cenno alla religione di cui dovrebbe essere “ministro”, ma si limitava a considerare che per secoli gli abitanti del continente hanno assimilato altri abitanti del continente, dimenticandosi di ricordare che gli stessi abitanti, per secoli, hanno ricacciato in mare gli invasori venuti da altri continenti, soprattutto se di colore e di religione idolatrica.
Vero è che non tutti gli Europei sono biondi con gli occhi azzurri, ma è ancora più vero che fino a poco tempo fa erano tutti bianchi e cristiani, solo ultimamente le walchirie nordiche si sono accompagnate ai bantù, e questo non perché praticano l’accoglienza, ma perché molti paesi del Nord Europa, modernizzati e protestantizzati, praticano pacificamente dal meticciato all’aborto, dalla libertà sfrenata alla mera soddisfazione dei bisogni corporali.
Dove porterà tutto questo?
No. La domanda è formulata male. La domanda corretta è: a che serve tutto questo?
Tutto questo serve a trasformare gli individui e i popoli di appartenenza in qualcosa di informe, qualcosa che non corrisponde più né ad un individuo né ad un popolo. Se un individuo è tutt’uno con una identità, così facendo si finirà col farne solo un numero… un numero senza identità, tale che possa essere indifferentemente 3 o 5, che possa valere x o y, che possa esserci ed anche non esserci, che possa essere vivo oppure morto… un continuo fluttuare di cellule viventi oppure morenti, purché mutanti… l’apparenza di un’esistenza con la concretezza di un nulla.
Quando eravamo ancora un po’ veri si diceva che l’uomo era un riflesso di Dio, un essere finito che viveva di infinito, oggi che siamo ogni giorno di più meno veri e più immaginarii, ognuno di noi, non del tutto ancora – grazie a Dio -, è un essere indefinito che vive senza infinito, e cioè un morto che cammina. Ed ecco così preparato l’inizio della fine.
Come ogni cosa esistente a questo mondo – e anche in altri mondi – se a qualcuno piace di più -, il destino ultimo è la morte, la fine… non v’è nulla di duraturo in questo mondo. Già lo stesso nascere è il principio della morte… l’essere vivente incomincia a morire non appena nato… l’intermezzo è solo accidenti. Per questo i nostri padri stavano attenti a prepararsi per questo momento cruciale, perché con la morte del corpo si potesse godere di quell’infinito che aveva nutrito la loro intima esistenza terrena, alla quale sarebbe seguita quella vita senza morte che presentivano come il vero motivo del loro esistere. E tutto questo si chiamava concezione del mondo, civiltà, e affondava le radici nella verità dell’esistenza che Dio stesso aveva inscritto nell’animo umano. Si pensava, si credeva e si viveva per andare oltre la caduca vita di qua nella eterna vita di là… dal tempo provvisorio al tempo senza tempo, dall’esilio alla casa paterna, dal viaggio alla dimora.
Ma ecco che oggi si pretende che tutto questo non avrebbe più alcun senso e che l’unica cosa sensata sarebbe spingersi verso un mondo, inventarsi un mondo, in cui stanno ammucchiati in maniera informe gli individui più diversi, come biglie variopinte in un enorme contenitore trasparente. Una nuova civiltà. Che in realtà è emblema del caos.
Quando i nostri padri vivevano in un mondo che era informato da regole comuni e da un comune sentire e un comune senso dell’esistenza, essi percepivano di trovarsi in un contesto ordinato, anche se non sempre si rendevano conto che era ordinato in vista di Dio. Oggi appare sempre più evidente che il contesto in cui si vive, non solo non è ordinato, ma dev’essere disordinato, caotico, provvisorio e continuamente cangiante. Ed è inevitabile considerare che tutto questo debba avere uno scopo ultimo, quasi una sorta di ordine alla rovescia, che non è solo disordine, ma mera mancanza di ordine, puro caos.
Chiunque abbia la minima percezione di Dio, è portato istintivamente a ritenere Dio pura calma, puro ordine… niente in Dio e di Dio può essere disordinato. Ora, se il mondo che si profila per l’avvenire è puro caos, è evidente che non può trattarsi di un mondo di Dio. Ma com’è possibile che questo accada se, come dice un vecchio adagio, non si muove foglia che Dio non voglia? Com’è possibile che possa muoversi tutta la vita degli uomini in maniera diversa dall’essenza di Colui che è l’Autore di tutte le cose?
La domanda è in qualche modo scioccante, ma in realtà essa contiene in sé la risposta. Non è la volontà di Dio che muove il mondo verso il caos, semplicemente perché l’ordine di Dio è impossibile che determini la mancanza di ordine. Piuttosto è facile intendere che a fronte della volontà ordinata di Dio è possibile resistervi, Dio stesso ha fatto l’uomo in modo che potesse resistere all’ordine insito nel creato. Dio non ha creato l’uomo come un meccanismo automatico, tale che esistendo potesse esistere in un solo modo, secondo lo stesso ordine in cui è immerso. Dio ha creato l’uomo in modo che, esistendo, egli dovesse scegliere da sé di conformarsi all’ordine del creato, e tale disposizione intima dell’uomo non è vincolante, ma, fintanto che egli esiste, è praticabile in virtù della sua stessa volontà, che può decidere di conformarsi all’ordine e quindi a Dio, o di non conformarvisi, evitando l’ordine predisposto da Dio. Questa possibilità non intacca minimamente l’ordine disposto da Dio… l’uomo, con la sua volontà, non può mutare minimamente la volontà di Dio, da Lui espressa e manifestata una volta per tutte. Ciò che l’uomo ha la possibilità di mutare è la sua condizione rispetto a tale ordine: vivere cioè in conformità all’ordine o, di contro, vivere inevitabilmente nel disordine. Nel primo caso l’uomo fa corrispondere la sua esistenza alla sua essenza, che deriva direttamente dall’essenza di Dio; nel secondo caso egli conduce un’esistenza avulsa da sé stesso, un’esistenza falsa e in definitiva finalizzata alla sua autodistruzione. Per far questo l’uomo utilizza due canali, che sono parte integrante di se stesso: l’intelletto e la ragione, da un lato, il sentimento e l’istinto dall’altro. Le due prime facoltà corrispondono alla sua autodeterminazione, le altre due corrispondono alla sua soggiacenza. Nel primo caso, l’uomo è padrone di sé e del suo destino, nel secondo caso è schiavo delle sue viscere e subisce un destino che non è il suo. Per dirla in altri termini: nel primo caso l’uomo dirige se stesso verso se stesso e per se stesso, nel secondo caso è diretto contro se stesso.
In termini religiosi: il primo movimento è un movimento che parte da Dio e torna a Dio, nel secondo caso è un movimento che prescinde da Dio e allontana da Dio. Questo secondo movimento ha un nome proprio e si chiama “demonio”, che non è il contrario di Dio, che è impossibile che sia, ma è solo una scimmiottatura di Dio, un tentativo inane di sostituirsi a Dio. L’uomo può praticare questo vano percorso, ma per quanto si illuda di sostituirsi a Dio, riesce solo a far finta, ricadendo inevitabilmente nel più profondo della sua condizione: si erge a sostituirsi a Dio e ricade lontano da Dio. Questo è ciò che si chiama angoscia esistenziale, una sorta di anelito mai appagato, che più si tenta di compensare con l’auto-convincimento e più allontana dall’essenza stessa dell’uomo e quindi di Dio.
Ora, si dirà, cos’ha a che vedere tutto questo con lo “jus soli”?
A prima vista, poco o niente, ma basta riflettere un po’ per cogliere un nesso importante. Non è forse la confusione manifesta l’indizio più importante della confusione dei cuori e degli spiriti? E lo scopo immediato e mediato dello “jus soli” è di determinare una confusione manifesta: tutti assieme, tutti uguali: bianchi, neri, rossi e gialli, tutti conviventi una vita impossibile ad essere anche solo simile. Una falsità che affastella slogan per colmare il vuoto che la caratterizza.
Lo scopo ultimo è fissare un’umanità mostruosamente fatta uguale con individui dissimili e inconciliabili, e questo è necessario perché, devastati da tanta confusione e tanto caos esteriore ed interiore, gli uomini agognino un qualche tipo di ordine; è a quel punto arriverà il messaggio conciliante del demonio, col quale verrà offerto agli uomini un regno di pace, di fratellanza, di amore… un regno il cui presupposto essenziale sarà la mancanza del Re… il demonio sa che l’unico modo per perdere in eterno gli uomini è quello di privarli del vero Re del mondo e di tutti i mondi, offrendo loro il surrogato di un regno della terra che escluderà a priori il Regno dei Cieli… un regno della terra che per la sua pesantezza e limitatezza equivarrà ad un inferno, anticipazione di quello che sarà l’Inferno eterno per la mancanza del Re, di Dio.
Lo “jus soli”, da solo, non è in grado di realizzare tutto questo, ma, unito ai tanti moderni espedienti, compresa l’invasione diretta e controllata delle terre cristiane da parte di popolazioni idolatriche, concorrerà a realizzare tutto questo.
Le cose brutte si fanno meglio se il modo per realizzarle è il meno avvertito, piccole cose che messe insieme alla fine determinano un mutamento profondo quanto inavvertito.
E quindi non finirà qui, si inventeranno nuovi espedienti per trasformare sempre più i cristiani in una massa informe di miscredenti; e i preti moderni studieranno a fondo il modo per raccontarla bella ai loro fedeli ed offrire loro una parvenza di giustificazione evangelica… è il vecchio trucco del demonio che già tentò con Cristo stesso di usare strumentalmente la Scrittura, ma da Cristo venne ancora una volta sconfitto e scacciato.
Auxilium nostrum in nomine Domini
Si dice che molti paesi al mondo applichino questo meccanismo: per cui basta nascere a Catania che ipso facto si è catanesi; e la cosa, non solo lascia perplessi, ma suscita pure qualche po’ di ilarità: come fa ad essere catanese uno che ha l’aspetto esteriore e la struttura interiore di un mongolo?
La cosa è talmente impossibile da far pensare alla messa in atto di uno di quei meccanismi da persuasione occulta in grado di convincere che il bianco possa essere tranquillamente nero o viceversa.
In realtà, anche in questo caso dello strano “jus soli”, l’andamento è sempre lo stesso: stravolgere la realtà e convincersi che un maschio non sarebbe minimamente impedito ad essere una femmina. Certo che è impossibile, ma è ormai da tanto che è finito il tempo del buonsenso e della realtà vera, ed è da anni che ci si muove in una sorta di realtà irreale, perfino chiamata “virtuale”, cioè immaginata, supposta, non più relativa al cervello, ma alle viscere. Quello che conta è “sentire”, percepire, non essere. Una volta si diceva che ciò che conta non è l’apparire, ma l’essere, oggi ci si compiace di non essere e di semplicemente percepirsi, se così si può dire.
Tornando allora al “diritto del suolo”, ecco che si pretende che basti una moderna “legge” per far diventare romano un ragazzino nato bantù, purché nato a Roma.
Ma come, si dirà, si vorrebbe forse negare ad un ragazzino nato a Roma e che crescerà a Roma il diritto che hanno gli altri ragazzini romani… solo per il semplice fatto di essere nato bantù e non romano?
Negare un “diritto”? Ma quale diritto? La realtà è che non si tratta di negare alcunché, si tratta solo di prendere atto della realtà, e la realtà è che il ragazzino è bantù e non romano, mentre il fatto di essere nato a Roma non è una realtà vera, ma un semplice accidenti, una casualità, che potrebbe essere anche procurata, ma non per questo perde la sua valenza accidentale.
Può scaturire un “diritto” da un fatto accidentale?
Oggi, pare di sì.
Ma a pensarci bene, le cose sono un po’ più semplici e insieme un po’ più complicate. Più semplici perché il preteso riconoscimento di un tale supposto diritto è un mero espediente per confondere prima le idee, poi le razze e infine le civiltà; più complicate perché la pretesa è di far credere che gli usi e i costumi più o meno mantenuti finora devono far posto a nuovi usi e a nuovi costumi che non sono più tali, ma il frutto di un’immaginata capziosa realtà senza alcun fondamento reale.
Un secolo e mezzo fa, ci fu il D’Azeglio che, convinto che si fosse fatta l’Italia, mentre si era solo imposto un governo unico e straniero a popolazioni diverse, pensò bene che bisognasse fare gli italiani. Sono passati più di 150 anni e a stento un pugliese riesce a vivere senza troppi disagi in Friuli, e ciò nonostante ecco insorgere nuove circostanze che costringono gli appena fatti italiani a convivere con gente che viene da così lontano e con usi e costumi così diversi da confondere sia i nativi sia i nuovi arrivati.
E tutto questo, mentre si ascoltano continue tiritere su teoriche buone disposizioni ad accogliere chiunque si presenti a bussare alla porta di casa.
Vero è che tanta gente ha un certo interesse ad usare le persone che arrivano, ma è ancora più vero che la grande maggioranza degli italiani non sente alcun bisogno né di ospitare stranieri né di praticare alcun tipo di accoglienza. La penisola italica ha conosciuto secoli di andirivieni di gente di ogni tipo e di ogni costume e questo ha forgiato negli abitanti dello stivale una tempra tollerante, ma in quei secoli gli eredi della civiltà romana erano talmente forti nello spirito da ammortizzare bene l’impatto del diverso, perfino prevaricatore, al punto da omologarlo, grazie alla forte valenza della loro pur indebolita civiltà e visione del mondo.
Oggi, dopo un secolo e mezzo di malriusciti tentativi di dare un’identità unitaria agli abitanti dello stivale, sentire che si diventerà italiani in virtù di un voto espresso da una parte del parlamento, sembra una beffa soprattutto per i nati sul suolo italico.
Quella forte valenza di cui dicevamo prima non era un sentimento bello a proclamarsi, ma l’insieme di un modo di sentire e di vivere che affondava le radici in qualche millennio di modo d’essere il cui elemento principale era la religione o, se si vuole, il modo in cui i nostri padri concepivano e si rivolgevano a Dio; un fattore che era l’unico vero identitario, l’unico che identificasse spesso, non solo un popolo, ma un insieme di popoli, un’intera civiltà, per di più un tempo praticata con l’uso di una stessa lingua, non solo a livello dotto.
Pensare che senza tutto questo si possa ragionevolmente parlare di riconoscimento della cittadinanza è cosa innanzi tutto demenziale e quindi inevitabilmente truffaldina.
Ora, se questo è un ragionamento, ce ne sono anche altri che si possono fare: non si tratta di far diventare quasi per magia italiano un bantù, no, si tratta solo di far sì che sui registri anagrafici risulti un altro numero, vuoi per la statistica, vuoi per la politica. Per la statistica che ogni anno calcola l’aumento degli abitanti dello stivale incurante del fatto che gli italiani sono sempre di meno e sempre più vecchi. Per la politica che furbamente si compra la simpatia del bantù con la speranza che domani voterà quella parte che gli ha permesso di farsi chiamare falsamente italiano.
In tutto questo, i diritti, la cittadinanza, l’accoglienza, la decantata bontà d’animo, non c’entrano niente: c’entra invece quel sottile subdolo disegno che mira a distruggere le identità degli individui e dei popoli, anche bantù, per far posto ad una poltiglia di gente diversa che dovrà necessariamente inventarsi un altro nuovo modo di vita… senza radici e quindi senza futuro.
In tutto questo pasticcio, la parte più idiota la fanno i preti, semplici e graduati, i quali fanno di tutto tranne il loro mestiere, e cioè convertire alla vera religione i poveri disgraziati che vivono nel buio dell’idolatria e che vengono da noi convinti di trovare il paradiso in terra, salvo poi svegliarsi e convincersi di trovarsi in un mondo di pazzi e di miscredenti, da redimere con qualche coltellata o qualche bomba in mezzo alla folla.
D’altronde, se, come dicevamo prima, il buon senso è andato a farsi benedire, perché meravigliarsi se i primi a dar prova di devastazione mentale sono proprio i preti?
Seguendo qua e là questa storia del “diritto del suolo”, ci è perfino capitato di leggere di un prete che ricordava come nei tempi andati gli Europei abbiano sempre assimilato i “barbari”. Logicamente, il prete non faceva cenno alla religione di cui dovrebbe essere “ministro”, ma si limitava a considerare che per secoli gli abitanti del continente hanno assimilato altri abitanti del continente, dimenticandosi di ricordare che gli stessi abitanti, per secoli, hanno ricacciato in mare gli invasori venuti da altri continenti, soprattutto se di colore e di religione idolatrica.
Vero è che non tutti gli Europei sono biondi con gli occhi azzurri, ma è ancora più vero che fino a poco tempo fa erano tutti bianchi e cristiani, solo ultimamente le walchirie nordiche si sono accompagnate ai bantù, e questo non perché praticano l’accoglienza, ma perché molti paesi del Nord Europa, modernizzati e protestantizzati, praticano pacificamente dal meticciato all’aborto, dalla libertà sfrenata alla mera soddisfazione dei bisogni corporali.
Dove porterà tutto questo?
No. La domanda è formulata male. La domanda corretta è: a che serve tutto questo?
Tutto questo serve a trasformare gli individui e i popoli di appartenenza in qualcosa di informe, qualcosa che non corrisponde più né ad un individuo né ad un popolo. Se un individuo è tutt’uno con una identità, così facendo si finirà col farne solo un numero… un numero senza identità, tale che possa essere indifferentemente 3 o 5, che possa valere x o y, che possa esserci ed anche non esserci, che possa essere vivo oppure morto… un continuo fluttuare di cellule viventi oppure morenti, purché mutanti… l’apparenza di un’esistenza con la concretezza di un nulla.
Quando eravamo ancora un po’ veri si diceva che l’uomo era un riflesso di Dio, un essere finito che viveva di infinito, oggi che siamo ogni giorno di più meno veri e più immaginarii, ognuno di noi, non del tutto ancora – grazie a Dio -, è un essere indefinito che vive senza infinito, e cioè un morto che cammina. Ed ecco così preparato l’inizio della fine.
Come ogni cosa esistente a questo mondo – e anche in altri mondi – se a qualcuno piace di più -, il destino ultimo è la morte, la fine… non v’è nulla di duraturo in questo mondo. Già lo stesso nascere è il principio della morte… l’essere vivente incomincia a morire non appena nato… l’intermezzo è solo accidenti. Per questo i nostri padri stavano attenti a prepararsi per questo momento cruciale, perché con la morte del corpo si potesse godere di quell’infinito che aveva nutrito la loro intima esistenza terrena, alla quale sarebbe seguita quella vita senza morte che presentivano come il vero motivo del loro esistere. E tutto questo si chiamava concezione del mondo, civiltà, e affondava le radici nella verità dell’esistenza che Dio stesso aveva inscritto nell’animo umano. Si pensava, si credeva e si viveva per andare oltre la caduca vita di qua nella eterna vita di là… dal tempo provvisorio al tempo senza tempo, dall’esilio alla casa paterna, dal viaggio alla dimora.
Ma ecco che oggi si pretende che tutto questo non avrebbe più alcun senso e che l’unica cosa sensata sarebbe spingersi verso un mondo, inventarsi un mondo, in cui stanno ammucchiati in maniera informe gli individui più diversi, come biglie variopinte in un enorme contenitore trasparente. Una nuova civiltà. Che in realtà è emblema del caos.
Quando i nostri padri vivevano in un mondo che era informato da regole comuni e da un comune sentire e un comune senso dell’esistenza, essi percepivano di trovarsi in un contesto ordinato, anche se non sempre si rendevano conto che era ordinato in vista di Dio. Oggi appare sempre più evidente che il contesto in cui si vive, non solo non è ordinato, ma dev’essere disordinato, caotico, provvisorio e continuamente cangiante. Ed è inevitabile considerare che tutto questo debba avere uno scopo ultimo, quasi una sorta di ordine alla rovescia, che non è solo disordine, ma mera mancanza di ordine, puro caos.
Chiunque abbia la minima percezione di Dio, è portato istintivamente a ritenere Dio pura calma, puro ordine… niente in Dio e di Dio può essere disordinato. Ora, se il mondo che si profila per l’avvenire è puro caos, è evidente che non può trattarsi di un mondo di Dio. Ma com’è possibile che questo accada se, come dice un vecchio adagio, non si muove foglia che Dio non voglia? Com’è possibile che possa muoversi tutta la vita degli uomini in maniera diversa dall’essenza di Colui che è l’Autore di tutte le cose?
La domanda è in qualche modo scioccante, ma in realtà essa contiene in sé la risposta. Non è la volontà di Dio che muove il mondo verso il caos, semplicemente perché l’ordine di Dio è impossibile che determini la mancanza di ordine. Piuttosto è facile intendere che a fronte della volontà ordinata di Dio è possibile resistervi, Dio stesso ha fatto l’uomo in modo che potesse resistere all’ordine insito nel creato. Dio non ha creato l’uomo come un meccanismo automatico, tale che esistendo potesse esistere in un solo modo, secondo lo stesso ordine in cui è immerso. Dio ha creato l’uomo in modo che, esistendo, egli dovesse scegliere da sé di conformarsi all’ordine del creato, e tale disposizione intima dell’uomo non è vincolante, ma, fintanto che egli esiste, è praticabile in virtù della sua stessa volontà, che può decidere di conformarsi all’ordine e quindi a Dio, o di non conformarvisi, evitando l’ordine predisposto da Dio. Questa possibilità non intacca minimamente l’ordine disposto da Dio… l’uomo, con la sua volontà, non può mutare minimamente la volontà di Dio, da Lui espressa e manifestata una volta per tutte. Ciò che l’uomo ha la possibilità di mutare è la sua condizione rispetto a tale ordine: vivere cioè in conformità all’ordine o, di contro, vivere inevitabilmente nel disordine. Nel primo caso l’uomo fa corrispondere la sua esistenza alla sua essenza, che deriva direttamente dall’essenza di Dio; nel secondo caso egli conduce un’esistenza avulsa da sé stesso, un’esistenza falsa e in definitiva finalizzata alla sua autodistruzione. Per far questo l’uomo utilizza due canali, che sono parte integrante di se stesso: l’intelletto e la ragione, da un lato, il sentimento e l’istinto dall’altro. Le due prime facoltà corrispondono alla sua autodeterminazione, le altre due corrispondono alla sua soggiacenza. Nel primo caso, l’uomo è padrone di sé e del suo destino, nel secondo caso è schiavo delle sue viscere e subisce un destino che non è il suo. Per dirla in altri termini: nel primo caso l’uomo dirige se stesso verso se stesso e per se stesso, nel secondo caso è diretto contro se stesso.
In termini religiosi: il primo movimento è un movimento che parte da Dio e torna a Dio, nel secondo caso è un movimento che prescinde da Dio e allontana da Dio. Questo secondo movimento ha un nome proprio e si chiama “demonio”, che non è il contrario di Dio, che è impossibile che sia, ma è solo una scimmiottatura di Dio, un tentativo inane di sostituirsi a Dio. L’uomo può praticare questo vano percorso, ma per quanto si illuda di sostituirsi a Dio, riesce solo a far finta, ricadendo inevitabilmente nel più profondo della sua condizione: si erge a sostituirsi a Dio e ricade lontano da Dio. Questo è ciò che si chiama angoscia esistenziale, una sorta di anelito mai appagato, che più si tenta di compensare con l’auto-convincimento e più allontana dall’essenza stessa dell’uomo e quindi di Dio.
Ora, si dirà, cos’ha a che vedere tutto questo con lo “jus soli”?
A prima vista, poco o niente, ma basta riflettere un po’ per cogliere un nesso importante. Non è forse la confusione manifesta l’indizio più importante della confusione dei cuori e degli spiriti? E lo scopo immediato e mediato dello “jus soli” è di determinare una confusione manifesta: tutti assieme, tutti uguali: bianchi, neri, rossi e gialli, tutti conviventi una vita impossibile ad essere anche solo simile. Una falsità che affastella slogan per colmare il vuoto che la caratterizza.
Lo scopo ultimo è fissare un’umanità mostruosamente fatta uguale con individui dissimili e inconciliabili, e questo è necessario perché, devastati da tanta confusione e tanto caos esteriore ed interiore, gli uomini agognino un qualche tipo di ordine; è a quel punto arriverà il messaggio conciliante del demonio, col quale verrà offerto agli uomini un regno di pace, di fratellanza, di amore… un regno il cui presupposto essenziale sarà la mancanza del Re… il demonio sa che l’unico modo per perdere in eterno gli uomini è quello di privarli del vero Re del mondo e di tutti i mondi, offrendo loro il surrogato di un regno della terra che escluderà a priori il Regno dei Cieli… un regno della terra che per la sua pesantezza e limitatezza equivarrà ad un inferno, anticipazione di quello che sarà l’Inferno eterno per la mancanza del Re, di Dio.
Lo “jus soli”, da solo, non è in grado di realizzare tutto questo, ma, unito ai tanti moderni espedienti, compresa l’invasione diretta e controllata delle terre cristiane da parte di popolazioni idolatriche, concorrerà a realizzare tutto questo.
Le cose brutte si fanno meglio se il modo per realizzarle è il meno avvertito, piccole cose che messe insieme alla fine determinano un mutamento profondo quanto inavvertito.
E quindi non finirà qui, si inventeranno nuovi espedienti per trasformare sempre più i cristiani in una massa informe di miscredenti; e i preti moderni studieranno a fondo il modo per raccontarla bella ai loro fedeli ed offrire loro una parvenza di giustificazione evangelica… è il vecchio trucco del demonio che già tentò con Cristo stesso di usare strumentalmente la Scrittura, ma da Cristo venne ancora una volta sconfitto e scacciato.
Auxilium nostrum in nomine Domini
di Belvecchio
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.