Accompagnare, discernere, integrare la fragilità: come la neolingua modernista aggredisce la fede
A sostegno di Amoris laetitia, e proprio a sostegno dell’ambiguo e contestatissimo capitolo VIII, nel quale sembra che i ministri di Dio possano soprassedere allo stato di peccato mortale dei divorziati ripostati, e amministrare loro la santa Comunione, la Conferenza Episcopale Siciliana, presieduta dall’arcivescovo di Catania, Salvatore Gristina (e non essa sola, invero), ha pubblicato un volumetto di Orientamenti pastorali, intitolato Accompagnare, discernere, integrare la fragilità, che il sito della medesima Conferenza definisce, assai modestamente, La via siciliana all’Amoris laetitia, ed offre un meraviglioso esempio, si fa per dire, della neolingua elaborata dalla neochiesa per agevolare quello che don Leonardo Ricotta, un sacerdote siciliano fatto di un’altra pasta, chiama “trasbordo ideologico inavvertito”. Ho sessant’anni e sono prete da poco meno di quaranta – ha affermato, nel corso di una conferenza tenuta per Radio Domina Nostra, visionabile in rete e postata il 26 marzo scorso, ma parole come INCLUSIVO e DIVISIVO, per esempio, non le ho sentite mai. Giustamente ha fatto notare che, quando qualcuno si appresta ad attuare una rivoluzione, comincia dal linguaggio, cioè comincia col cambiare il significato delle parole. La Rivoluzione francese, egli ha detto, è incominciata con le parole d’ordine di libertà, fraternità, uguaglianza, parole che hanno una matrice cristiana e che, fino ad allora, erano state usate con un’altra accezione, e sono poi servite a giustificare la ghigliottina.
Ora vediamo che nella Chiesa sono state introdotte parole ed espressioni come “accoglienza”, “inclusivo”, “divisivo”, “abbattere muri”, “gettare ponti”, le quali hanno un suono spiacevole, perché sono parole mai usate dalla Chiesa, oppure sono state usate, finora, in un senso ben diverso dall’attuale. “Accogliere”, da che mondo è mondo, vuol dire far entrare qualcuno in un altro contesto, ma non esprime l’obbligo, per un cristiano, di accettare che chiunque, comunque, e in qualsiasi quantità, venga a stabilirsi nel suo Paese, mantenuto in albergo, quando gli altri poveri, nati e sempre vissuti in quel luogo, sono abbandonati a se stessi; tanto meno può voler dire che chi non è d’accordo con questo nuovo significato della parole deve essere emarginato, condannato e additato come un cristiano egoista e insincero, che non segue il Vangelo e non ascolta il Magistero. “Includere” non può voler dire accettare chiunque, anche il nemico; e “dividere” non è un vocabolo di per sé negativo, perché Gesù, per primo, è stato “divisivo”, e lo ha affermato Lui stesso: Sono venuto a portare la guerra: a mettere il padre contro il figlio e il figlio contro il padre; la madre contro la figlia e la figlia contro la madre. E quando il cieco nato si è presentato ai sacerdoti di Gerusalemme, ed essi lo hanno ricoperto di male parole perché affermava di essere stato risanato da Gesù, egli non ha potuto fare altro che dire: Se colui che mi ha guarito sia un santo, come voi mi domandate, non lo so; io so soltanto che prima non vedevo, e adesso vedo. Egli diceva la verità, ma quelli non volevano ascoltarla, la rifiutavano: colui che annuncia la Verità cristiana, dunque, è, da sempre, divisivo, se vogliamo adoperare questa parola: divide, perché opera una discriminazione fra chi accetta la verità di Cristo, e chi la odia e la respinge.
E adesso veniamo a quelle tre parolette che i monsignori della Conferenza Episcopale Siciliana – tra i quali quell’arcivescovo Corrado Lorefice, di Palermo che ha voluto cacciare dalla sua parrocchia don Alessandro Minutella, pur non avendo trovato in lui ombra di dottrina eretica, o forse proprio per quello, ma con la risibile accusa di “non essere in comunione con la Chiesa” (ma bisogna vedere di quale chiesa parla l’eccellente monsignore: se quella vera o la neochiesa gnostico-massonica) – ha posto come titolo dell’opuscolo di “orientamento” (o disorientamento?) pastorale: accompagnare, discernere, integrare la fragilità.
Accompagnare: nel linguaggio comune, e anche nel normale linguaggio di un cristiano, da che mondo è mondo, significa fare un pezzo di strada con qualcuno, camminare insieme a lui. Non è, e non è mai stata, una parola di tipo teologico: nessun teologo e nessun Padre della Chiesa l’ha mai adoperata come sinonimo della normale relazione che il cristiano deve instaurare con l’altro, cioè con il non cristiano, o con il nemico dichiarato di Cristo. Ma venendo all’atto pratico: che cosa significa, per un cattolico, per un sacerdote, per un vescovo, “accompagnare” il non cattolico, o l’ateo, o, meglio ancora (peggio ancora), il peccatore? E in primo luogo: accompagnarlo verso dove, per fare che cosa? Nel Libro di Ezechiele sta scritto che Dio chiederà conto ai suoi di non aver ammonito il peccatore: perché il peccatore morirà nel suo peccato, ma la responsabilità di non averlo ammonito sarà di colui che doveva farlo, e non l’ha fatto. Un cattolico che si accompagna con tutti e che non richiama mai l’altro sulla strada di Dio, sulla strada del bene; che lo accompagna di qua e di là, come un amico di scampagnate, senza un pensiero al mondo, pur davanti a ciò che può mettere in pericolo la sua anima immortale: un cattolico di questo genere è una contraffazione pietosa del vero cattolico, del vero sacerdote. Non merita neppure il nome di cattolico (e infatti, probabilmente, se ne vergogna un poco), meno ancora quello di sacerdote: è solo un amante del quieto vivere, un pigro, un pusillanime, uno che vuole andare d’accordo con tutti e che preferisce dispiacere a Dio piuttosto che agli altri. Ma una persona di tal genere non ama veramente nessuno: perché amare l’altro vuol dire preoccuparsi di lui, del suo vero bene, della sua salvezza; cosa che, evidentemente, non avviene se si lascia nell’errore colui che è immerso nell’errore, e se si lascia nel peccato colui che è sprofondato nel peccato. Ma esiste ancora la nozione del peccato, per molti cattolici progressisti e neomodernisti, per questi teologi e sacerdoti e vescovi che si vantano di essere “di strada”, come se ciò equivalesse a non credere più nella dottrina, e a vedere nella dottrina solo un peso, un fardello, una noia, e non la verità insegnata da Dio stesso?
Discernere: altra parola-trappola, altra parola scovata dai modernisti per trarre in inganno i cattolici in buona fede, giocando spregiudicatamente sul filo dell’ambiguità semantica. Di fatto, nessun teologo e nessun sacerdote l’aveva mai adoperata, fino a un paio d’anni fa; o, se l’adoperava, lo faceva nel modo consueto, quello indicato dal vocabolario: perché “discernere” vuol dire riconoscere, distinguere, valutare con ponderazione qualcosa; un modo di porsi davanti alle cose e alle persone, un modo di vagliare e valutare, assolutamente normale per un cristiano. In pratica, si tratta sempre dei doni dello Spirito Santo, primo dei quali è la prudenza. Ma adesso vengono fuori questi baldi rappresentanti della neochiesa e pare che abbiano scoperto l’acqua calda: pare che il ”discernimento” sia nato con loro, che ci abbiamo messo il brevetto. E, in un certo senso, è proprio così: perché ciò che intendono costoro non è la stessa cosa che intendeva la morale cattolica fino a qualche anno fa; no, è qualcosa di profondamente diverso: una maniera, che si crede astuta, per aggirare la dottrina, per rimuovere il peccato, per attenuare la legge, per contrabbandare per lecito quello che è illecito, per legittimo quello che è illegittimo, per giusto quello che è sbagliato. Si deve discernere caso per caso, dice il papa Francesco, nella Amoris laetitia, a proposito dei divorziati risposati: perché le situazioni familiari e affettive, oggi, sono “complesse” (altro vocabolo della neolingua gnostica e massonica: come dire che se le cose sono complesse, non si può essere troppo esigenti al momento di tirare le somme). Ma quale sacerdote non si è sempre regolato così? Il sacerdote, nel Sacramento della Confessione, è un alter Christus: quel che dice, non lo dice da sé; lo dice guidato dallo Spirito Santo. Non sta a lui, pertanto, praticare sconti, abbuonare peccati, minimizzare le colpe: egli non ha alcun diritto di fare il generoso con ciò che non è suo. Chi agisce così, è un ladro e un truffatore: nessuno può farsi bello regalando quel che non gli appartiene. Gesù, nel Vangelo, è estremamente chiaro: chi è con Lui deve parlare in modo chiaro e reciso, Sì, sì, e No, no. E nessuno può giocare con la sua Parola, nessuno può prendersi gioco di Lui: perché il suo insegnamento è chiaro: Se l’occhio ti dà scandalo, strappatelo; e ancora: Sarebbe meglio, per coloro che danno scandalo a uno solo di questi miei piccoli, che gli si legasse una macina da mulino al collo, e lo si gettasse nel mare. Parole chiarissime; parole terribili. Gesù Cristo è anche severo, perché Egli è Dio: e Dio è misericordia, certamente, ma non è solo misericordia: è anche giustizia. E la vera giustizia è severa: non regala a nessuno il biglietto d’ingresso per il paradiso, tanto meno a coloro i quali non mostrano alcun desiderio di entrarvi. Via da me, maledetti, non vi conosco; andate nel fuoco dell’inferno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, dice Gesù, in un altro dei suoi atteggiamenti di severità. E non è un altro Gesù, rispetto al “dolce” maestro di Nazareth, al mite rabbi della Galilea: è sempre lo stesso, siamo noi che vorremmo sdoppiarlo, per poter mettere fra parentesi quello che c’inquieta, e vedere, di Lui, solo ciò che fa comodo alla nostra pigrizia e alla nostra vigliaccheria. Perciò, ripetiamo, o il concetto del discernimento è un ribadire ciò che qualunque sacerdote ha sempre fatto, ma stando dentro la dottrina e la morale cattolica; oppure è una eresia, la peggiore di tutte: la pretesa, cioè, di abolire il peccato, sospingendo, così, verso la dannazione eterna, sia l’anima del peccatore, sia quella del ministro che si presta alla profanazione del Sacramento della Confessione e di quello dell’Eucarestia.
Integrare la fragilità, poi, appare fin dal primo istante come una espressione peggio che ambigua, decisamente non cattolica. Quanta ipocrisia, quanta falsità e quanta astuzia da quattro soldi: vogliamo chiamare le cose con il loro vero nome, per favore; con il nome che la Chiesa cattolica e il Magistero ecclesiastico hanno sempre dato loro? In tal caso, non parliamo di “fragilità”, ma di peccato; e non parliamo di “integrare”, ma di invito al ravvedimento, alla conversione e alla riconciliazione con Dio.
di Francesco Lamendola del 25-06-2017
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