Non si contano ormai i luoghi, le piazze, i ponti e perfino
gli alberi che l’Italia, memore e grata, ha voluto dedicare a Martin Lutero per
i cinquecento anni del suo outing teologico e dottrinale. La prima è una piazza
proprio a Roma. A seguire tutte le altre due ex capitali d'Italia fino a
Merano.
Il beffardo sito Centro Studi Giuseppe Federici li ha messi tutti in fila: i luoghi, le piazze, i ponti e perfino gli alberi che l’Italia, memore e grata, ha voluto dedicare a Martin Lutero per i cinquecento anni del suo outing teologico e dottrinale. Per la verità, con ben due anni di anticipo, la prima città a intitolare qualcosa al Grande Riformatore era stata proprio Roma, sì, la città del papa. Ci aveva pensato l’allora sindaco Ignazio Marino, intitolando, nel settembre 2015, a Lutero una piazza nel Parco del Colle Oppio, vicina alla Domus Aurea e in vista del Colosseo.
L’idea era partita dalla città tedesca di Wittemberg, nella quale Lutero affisse le sue famose «tesi» e inaugurò la sua grande rivolta contro la Chiesa. Wittemberg ha chiesto a cinquecento città nel mondo (simbolicamente, il numero di anni trascorsi dall’Evento) di piantare a casa loro un albero «gemello» del primo piantato nel «Luthergarten» wittemberghese. Per ogni città che si aggiunge, una targa-ricordo della città idealmente gemellata, targa che sarà posta su un ulteriore albero a Wittemberg, fino a raggiungere l’auspicata foresta luterana.
Va pur detto che l’«albero di Lutero» storico era un abete, il nostro Albero di Natale, insomma: secondo una certa tradizione, fu il monaco tedesco a inventarlo, dopo aver visto, attraversando un bosco, i riflessi notturni dei ghiaccioli sui rami d’inverno. Quello di Torino è invece un platano, che è stato piantato vicino alla scuola intitolata al pedagogista protestante Pestalozzi. Il platano segna il punto in cui sorgerà una piazza (che sarà intitolata indovinate a chi). Un mese dopo è toccato a un’altra città che fu anch’essa capitale d’Italia, Firenze.
Non avendo più spazio a disposizione, la città gigliata è ricorsa all’escamotage di cambiare il nome di una realtà già esistente: il Giardino Torrigiani si chiama dal 30 aprile Giardino Martin Lutero. La cerimonia ha visto presenti i pastori delle varie chiese protestanti cittadine e, ovviamente, il direttore dell'Ufficio per l'Ecumenismo e il Dialogo della Conferenza episcopale italiana, don Cristiano Bettega. E dire che il papa che scomunicò Lutero, Leone X, era proprio fiorentino (un Medici, figlio del Magnifico).
Ma i tempi sono cambiati, anche se di molto recente. Lo ha ricordato uno dei pastori presenti: Lutero «è riconosciuto anche nella Chiesa cattolica come un riformatore che ha chiamato la sua chiesa a riflettere di nuovo sulle sue radici, su Gesù Cristo, sulla Bibbia, sulla grazia di Dio e sulla fede. Inoltre Lutero è considerato al di là delle chiese come un pioniere dei tempi moderni, in particolare con il suo appello per la libertà individuale di coscienza».
Dalla Riforma al relativismo, si potrebbe dire. Ma continuando, e terminando, la nostra carrellata, ecco una città che capitale non è stata, ma che la sua storia lega a quello che, fino a poco tempo fa, fu il cattolicissimo Tirolo. Merano. Qui a Lutero è stata dedicata una nuovissima passerella pedociclabile (pedoni e bici) che scavalca il fiume Passirio. «Con questo provvedimento la città di Merano, nel cinquecentenario della riforma protestante, prende coscienza della propria storia, alla quale la chiesa evangelica ha dato un contributo significativo», ha detto il sindaco all’inaugurazione. Ah, sì? Prendiamo atto.
01-06-2017
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-piazze-giardini-e-ciclovie-e-lutero-mania-20023.htm
La Fraternità Sacerdotale di San Pio X espulsa dalla cappella di ospedale svizzero
“Fermiamo l’invasione di migranti”. E lasciamo che l’Alto Adige sia la Fantasilandia tirolese?
E’ inutile negare che la cronaca quotidiana ci metta perennemente a confronto con la realtà dei flussi migratori, sia attraverso le notizie che arrivano dai mass-media, sia nella vita di tutti i giorni. Che la situazione sia ormai fuori controllo lo sta, piano piano e in punta di ipocrisia, ammettendo anche il governo ma il fatto che l’Europa se ne freghi bellamente, ora anche con il sigillo contenuto nel documento finale del G7 di Taormina sui confini, certamente non aiuta. Adesso, poi, l’estate, il bel tempo e la tensione sempre crescente in Libia (e attenti alla Tunisia, l’altro giorno il “New York Times” sparava un reportage sulla probabilità di una seconda primavera araba in quel Paese, quindi il Dipartimento di Stato è al lavoro) non potranno che aggravare la situazione.
In quattro giorni a ridosso dello scorso fine settimana sono arrivati in circa 10mila in vari porti del Sud: i numeri, ormai, sono davvero da invasione, più che da emergenza. E i luoghi di provenienza della gran parte dei neo-arrivati, così come la loro appartenenza al sesso maschile di età media 20-30 anni, lo conferma. Di fatto, importiamo potenziali soldati di una guerra tra poveri. Karl Marx nel “Capitale” parlava di esercito industriale di riserva per situazioni simili. Ma la sinistra in questo Paese, da tempo, ha smesso di leggere Marx e preferisce Saviano.
Perché questa premessa? Perché il termine “invasione” viene evocato ormai quotidianamente, così come l’esigenza di fermare questo processo. Ma ci siamo guardati in casa? Ovvero, abbiamo contezza di quale sia lo stato dell’arte di questo Paese, quando parliamo di identità? Questa ragazza
è Mbayeb Bousso, studentessa dell’istituto Galilei di Modena, fasciata nell’abito che ha sfoggiato il 29 maggio in occasione della visita del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Mirandola. Non so se sia cittadina italiana o meno, so che è integrata perché studia e vive in quel territorio ma trovo sconcertante che si sia prestata a una pantomima simile. Se l’idea fosse stata sua, poi, la inviterei a chiedersi quanto sia forte la sua identità italiana, se le occorre travestirsi tipo carnevale di Rio o corteo dopo la vittoria ai mondiali. Resta un fatto: è diventata un fenomeno. E non perché sia brava o non brava, buona o cattiva, simpatica o antipatica: perché è un simbolo spendibile alle masse. Di più, uno stereotipo. Lo stereotipo del nuovo italiano, lo straniero di seconda generazione che tale non è più: quella ragazza, contro cui non ho nulla, non è un esempio, è uno spot per le battaglie altrui, guerre di retroguardia che con i suoi diritti e il suo futuro hanno ben poco a che fare, perché rispondono a un’agenda diversa.
Lei è il poster da attaccare al muro del buonismo, l’immagine giovane e fresca, il sorriso che rassicura. Rispetto a cosa? Al fatto che stamattina, l’editoriale di “Repubblica” a firma del direttore Mario Calabresi ponesse un unico paletto all’ormai quasi certa fine anticipata della legislatura in corso: portare a termine, nel tempo che ci dividerà dalle urne, sei leggi che altrimenti rischiano di dover ricominciare l’iter da capo. Fra queste, molto enfatizzate, quella sulla cannabis, sul biotestamento e sullo ius soli e cittadinanza. Mbayeb Bousso, conciandosi in quel modo, non ha mandato un messaggio di italianità e orgoglio, soltanto fiancheggiato involontariamente – spero – un progetto chiaro di sradicamento e destabilizzazione. Perché se l’immigrazione nel mondo globale è ineluttabile, 10mila persone in tre giorni sono un’invasione. Chi usa altri termini, lo fa non certo per adesione alla realtà.
è Mbayeb Bousso, studentessa dell’istituto Galilei di Modena, fasciata nell’abito che ha sfoggiato il 29 maggio in occasione della visita del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Mirandola. Non so se sia cittadina italiana o meno, so che è integrata perché studia e vive in quel territorio ma trovo sconcertante che si sia prestata a una pantomima simile. Se l’idea fosse stata sua, poi, la inviterei a chiedersi quanto sia forte la sua identità italiana, se le occorre travestirsi tipo carnevale di Rio o corteo dopo la vittoria ai mondiali. Resta un fatto: è diventata un fenomeno. E non perché sia brava o non brava, buona o cattiva, simpatica o antipatica: perché è un simbolo spendibile alle masse. Di più, uno stereotipo. Lo stereotipo del nuovo italiano, lo straniero di seconda generazione che tale non è più: quella ragazza, contro cui non ho nulla, non è un esempio, è uno spot per le battaglie altrui, guerre di retroguardia che con i suoi diritti e il suo futuro hanno ben poco a che fare, perché rispondono a un’agenda diversa.
Lei è il poster da attaccare al muro del buonismo, l’immagine giovane e fresca, il sorriso che rassicura. Rispetto a cosa? Al fatto che stamattina, l’editoriale di “Repubblica” a firma del direttore Mario Calabresi ponesse un unico paletto all’ormai quasi certa fine anticipata della legislatura in corso: portare a termine, nel tempo che ci dividerà dalle urne, sei leggi che altrimenti rischiano di dover ricominciare l’iter da capo. Fra queste, molto enfatizzate, quella sulla cannabis, sul biotestamento e sullo ius soli e cittadinanza. Mbayeb Bousso, conciandosi in quel modo, non ha mandato un messaggio di italianità e orgoglio, soltanto fiancheggiato involontariamente – spero – un progetto chiaro di sradicamento e destabilizzazione. Perché se l’immigrazione nel mondo globale è ineluttabile, 10mila persone in tre giorni sono un’invasione. Chi usa altri termini, lo fa non certo per adesione alla realtà.
Ma questo è il meno. Perché c’è poco da gridare all’invasione e al suo contrasto se, da decenni, accettiamo situazioni che già pongono in discussione l’idea stessa di Stato, unità e sovranità interna ai confini. Vi faccio un esempio, fresco di polemica in atto. L’11 giugno prossimo a Merano si terranno i festeggiamenti per i 25 dell’autonomia del Trentino-Alto Adige e in città sono attesi il presidente italiano e quello austriaco, Sergio Mattarella e Alexander Van der Bellen. E qual è il problema? Gli Schutzen e i loro archibugi, testimonianza della lotta anti-napoleonica dell’eroe nazionale tirolese Andreas Hofer, non saranno presenti in piazza. Motivo? Non vogliono che sia eseguito l’inno italiano, al posto del quale vorrebbero l’Inno alla gioia, ovvero l’inno dell’Unione Europea. Il loro comandante, Elmar Thaler, è stato tassativo a questo riguardo con il governatore alto-atesino, Arno Kompatscher, il quale ha tentato una mediazione fino all’altro giorno: se suona Mameli, noi diserteremo la piazza.
Ora, mettiamo in fila un paio di concetti e di precedenti storici. Primo, o si ridiscute con l’Austria lo status dell’Alto Adige, arrivando a una cessione territoriale che lo trasformi in Sud Tirolo e lo veda annesso a Vienna oppure che dei cittadini italiani in una città italiana non vogliano che si eseguito l’inno italiano durante una celebrazione alla presenza del presidente della Repubblica è un qualcosa che un Paese civile non può tollerare. Non tanto per l’assenza egli Schutzen dalla piazza, di cui penso non freghi un cazzo a nessuno nel 2017 ma per il fatto che quegli stessi cittadini che sputano su tricolore e inno di Mameli godono, grazie alla nostre tasse, di una condizione fiscale privilegiata, figlia proprio di quell’autonomia che contestano con l’assenza. Dopo anni ad abbattere tralicci e ripetitori in nome di “Ein Tirol”, infatti, lorsignori si sono placati come agnellini appena hanno visto arrivare vagonate di soldi dall’odiata Italia, denaro di tutti noi che permette alla provincia di Bolzano di poter offrire ai suoi cittadini un welfare degno della Svezia anni Ottanta. E tu contesti, rivendicando il tuo essere tirolese-austriaco e smadonnando per i confini post-Prima Guerra Mondiale? E le istituzioni cosa fanno? Li coccolano, vanno a cercarli e cercano di mediare in nome della convivenza.
Ora, mettiamo in fila un paio di concetti e di precedenti storici. Primo, o si ridiscute con l’Austria lo status dell’Alto Adige, arrivando a una cessione territoriale che lo trasformi in Sud Tirolo e lo veda annesso a Vienna oppure che dei cittadini italiani in una città italiana non vogliano che si eseguito l’inno italiano durante una celebrazione alla presenza del presidente della Repubblica è un qualcosa che un Paese civile non può tollerare. Non tanto per l’assenza egli Schutzen dalla piazza, di cui penso non freghi un cazzo a nessuno nel 2017 ma per il fatto che quegli stessi cittadini che sputano su tricolore e inno di Mameli godono, grazie alla nostre tasse, di una condizione fiscale privilegiata, figlia proprio di quell’autonomia che contestano con l’assenza. Dopo anni ad abbattere tralicci e ripetitori in nome di “Ein Tirol”, infatti, lorsignori si sono placati come agnellini appena hanno visto arrivare vagonate di soldi dall’odiata Italia, denaro di tutti noi che permette alla provincia di Bolzano di poter offrire ai suoi cittadini un welfare degno della Svezia anni Ottanta. E tu contesti, rivendicando il tuo essere tirolese-austriaco e smadonnando per i confini post-Prima Guerra Mondiale? E le istituzioni cosa fanno? Li coccolano, vanno a cercarli e cercano di mediare in nome della convivenza.
Perché è una bella cosa la convivenza. Peccato che quando si tramuta in prevaricazione, allora siamo alla resa per timore. Già, perché non basta preferire l’inno di quell’agglomerato massonico e burocratico chiamato Europa all’inno della nazione in cui vivono come pascià, gli Schutzen hanno sulla loro coscienza da duri e puri a corrente alternata anche altro. Il 18 novembre dello scorso anno, infatti, a Bolzano era presente il presidente della Commissione UE, Jean-Claude Juncker, per un convegno su autonomia e federalismo a 70 anni dall’Accordo di Parigi. E chi c’era ad attendere Superciuk Juncker, uno che delle piccole patrie e dei popoli minoritari si è sempre interessato tantissimo, davanti a Palazzo Widmann? Gli Schutzen, schierati in uniforme e con gli archibugi per gli spari a salve di benvenuto.
Per tradizione, la Provincia organizza il cosiddetto “landesüblicher Empfang” solo in occasione delle visite ufficiali di presidenti di area tedesca ma per il lussemburghese e massone Juncker, gli Schutzen hanno fatto uno strappo unilaterale alla regola. Insomma, a Jean-Claude Juncker è stato riservato un trattamento da capo di Stato, chiara provocazione per lasciar intendere che il loro presunto Sud Tirol sia uno Stato indipendente. Ovviamente, finché non si parla di regime fiscale e trasferimenti statali. Volevano ingraziarselo, sperando in qualche miracoloso aiuto verso l’autodeterminazione e l’indipendenza? Se fosse stato così, meglio che si facciano curare. Uno, perché al 99% Juncker era sbronzo. Due, perché se non c’è riuscita la Catalogna, il cui Pil è il 20% di quello spagnolo, dubito che un manipolo di mantenuti fiscali da Roma con penne e archibugi, possa ottenere risultati migliori.
Per tradizione, la Provincia organizza il cosiddetto “landesüblicher Empfang” solo in occasione delle visite ufficiali di presidenti di area tedesca ma per il lussemburghese e massone Juncker, gli Schutzen hanno fatto uno strappo unilaterale alla regola. Insomma, a Jean-Claude Juncker è stato riservato un trattamento da capo di Stato, chiara provocazione per lasciar intendere che il loro presunto Sud Tirol sia uno Stato indipendente. Ovviamente, finché non si parla di regime fiscale e trasferimenti statali. Volevano ingraziarselo, sperando in qualche miracoloso aiuto verso l’autodeterminazione e l’indipendenza? Se fosse stato così, meglio che si facciano curare. Uno, perché al 99% Juncker era sbronzo. Due, perché se non c’è riuscita la Catalogna, il cui Pil è il 20% di quello spagnolo, dubito che un manipolo di mantenuti fiscali da Roma con penne e archibugi, possa ottenere risultati migliori.
Giù, mantenuti. Con in testa la capofila delle mantenute, la pasionaria sudtirolese Eva Klotz. Alla quale, però, non fanno schifo gli italianissimi 946.175 euro di vitalizio di cui godrà grazie alla status di consigliera provinciale a Bolzano. Il suo motto è quello che vedete nella fotografia di copertina, il “Sud Tirolo non è Italia” ma la grana, quella non ha bandiera, va bene anche se arriva dagli invasori fascisti. Bobby Sands me lo ricordavo un pochino più coerente a livello di spirito identitario, visto che al seggio a Westminster non ci mise mai piedi, perché per le sue idee di indipendenza morì prima in galera, privandosi del cibo. La Klotz penso che in nome del ritorno sotto l’ala protettrice di Vienna non abbia mai saltato nemmeno una colazione: in compenso, ha mangiato molto. A nostro spese, sputando poi regolarmente nei piatto. Ma non è una questione solo di singoli, siano essi Schutzen o consiglieri provinciali. E’ una questione istituzionale.
Già, perché nella Provincia autonoma di Bolzano stanno approntando una riforma della toponomastica che vedrà sparire il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana, circa 1.500 toponimi italiani che verranno sostituiti da altrettanti tedeschi. E il governo centrale non dice nulla? No, perché in Alto Adige comanda la Sudtiroler Volkspartei, storico alleato della DC prima, della Margherita poi e comunque del centrosinistra post-Ulivo. Voti che servono, servono sempre quelli delle minoranze linguistiche. Le quali disprezzano tanto l’usurpatrice Italia da andarci a braccetto nei seggi elettorali e nelle coalizioni di governo. Anche in questo caso, Sinn Féin ed Herri Batasuna li vedevo un attimino più coerenti e radicali.
Ma alla fine, gratta gratta, gli Schutzen sono un po’ come Mbayeb Bousso, la studentessa modenese avvolta nel tricolore: recitano una parte, si ergono a simboli di rivendicazione di popolo attraverso costumi identitari che poi svendono con somma gioia alla burocrazia centralista di Bruxelles, mettendosi sull’attenti per Jean-Claude Juncker e ascoltando commossi l’inno alla gioia massonica. D’altronde, sia per l’una che per gli altri, l’Europa è un traguardo e un lume a cui guardare: alla faccia dell’identità e del popolo, roba da vecchi ignoranti del Brexit. Il problema, però, è un altro: se non riusciamo a evitare una pulizia etnica toponomastica in patria, come cazzo speriamo di fermare un’invasione straniera? Forse, occorre un po’ di coerenza. E di Stato. Ma quello vero.
Già, perché nella Provincia autonoma di Bolzano stanno approntando una riforma della toponomastica che vedrà sparire il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana, circa 1.500 toponimi italiani che verranno sostituiti da altrettanti tedeschi. E il governo centrale non dice nulla? No, perché in Alto Adige comanda la Sudtiroler Volkspartei, storico alleato della DC prima, della Margherita poi e comunque del centrosinistra post-Ulivo. Voti che servono, servono sempre quelli delle minoranze linguistiche. Le quali disprezzano tanto l’usurpatrice Italia da andarci a braccetto nei seggi elettorali e nelle coalizioni di governo. Anche in questo caso, Sinn Féin ed Herri Batasuna li vedevo un attimino più coerenti e radicali.
Ma alla fine, gratta gratta, gli Schutzen sono un po’ come Mbayeb Bousso, la studentessa modenese avvolta nel tricolore: recitano una parte, si ergono a simboli di rivendicazione di popolo attraverso costumi identitari che poi svendono con somma gioia alla burocrazia centralista di Bruxelles, mettendosi sull’attenti per Jean-Claude Juncker e ascoltando commossi l’inno alla gioia massonica. D’altronde, sia per l’una che per gli altri, l’Europa è un traguardo e un lume a cui guardare: alla faccia dell’identità e del popolo, roba da vecchi ignoranti del Brexit. Il problema, però, è un altro: se non riusciamo a evitare una pulizia etnica toponomastica in patria, come cazzo speriamo di fermare un’invasione straniera? Forse, occorre un po’ di coerenza. E di Stato. Ma quello vero.
Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
Con l'intitolazione di piazze, vie e di tutto l'intitolabile a quel tizzone d'inferno di Lutero non è che stiamo scavando il fondo del barile.
RispondiEliminaIl fondo è già bucato da un pezzo, e stiamo ancora scavando...
E sul fatto che il monaco Lutero non avesse in fondo cattive intenzioni, povera gioia, solo richiamare a più sobri costumi quella cattivaccia di Chiesa cattolica: non si è sempre detto che la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni??